L'Ottava Sinfonia (dei "Mille")
Giuseppe Pugliese





GUSTAV MAHLER ...il mio tempo verrà

Analisi anche interpretativa dell'Ottava Sinfonia secondo Giuseppe PUGLIESE


Se si vuol tentare di sciogliere quel vero enigma che l”Ottava Sinfonia rappresenta nella produzione sinfonica di Mahler, fra i molti problemi ai quali essa ti pone davanti, bisognerebbe risolvere almeno questi tre: la iperbolica valutazione che di essa diede l'autore; il regresso, o almeno l'arresto del processo evolutivo del linguaggio di Mahler verso le frontiere della nuova musica; il reale valore artistico dell'opera. Sono tre problemi che, sino ad oggi, gran parte della critica ha ignorato, o ai quali non ha dato una soluzione.
Per compiere io questo tentativo, estremamente arduo, avrò bisogno di discutere parecchio, di citare anche di più, sì che non mi rimarrà molto spazio per i problemi interpretativi dell'Ottava e per le analisi comparate.
Fra i numerosi documenti, le molte testimonianze che riguardano l'Ottava, c'è una citazione d”obbligo che si legge, infatti, in tutti gli studi dedicati alla Symphonie der Tausend (la Sinfonia dei Mille) (è il sottotitolo datole dall'impresario monacense Emil Gutmann che organizzò la prima esecuzione dell”opera, per lo sterminato organico orchestrale e vocale richiesto). La citazione è una lettera di Mahler a Mengelberg scritta, probabilmente, il giorno stesso in cui aveva terminato la composizione del monumentale lavoro:

Ho appena finito la mia Ottava: è la più grande che abbia fatto fino adesso, e così particolare nel contenuto e nella forma che niente si può scrivere su questo. Pensate che l'universo cominci ad emettere musica e suoni. Non sono più voci umane ma pianeti e soli che ruotano.
Bella come immagine, anche se molto ambiziosa e, quel che è peggio, contrastante con la realtà dell'opera come oggi appare non soltanto a me, ma alla maggior parte degli studiosi di Mahler. Mai, come con l'Ottava, Mahler deve aver scambiato le gigantesche dimensioni strutturali della composizione, la poderosa complessità contrappuntistica di talune parti, con la grandezza artistica dell”opera.
Proseguiamo nella lettura dei documenti più importanti. Alla moglie in una lettera del 1906, Mahler scrive:

Ieri ho suonato a Mengelberg e a Diesenbrock qualche passo della mia Ottava. E' curioso, questo lavoro fa sempre grandissima impressione. Sarebbe strano se proprio il mio lavoro più importante fosse quello più facilmente comprensibile.
Mahler scrive importante e forse vuol intendere difficile. Ciò che l'Ottava non è per nulla. Inspiegabile poi il fatto che gli apparisse strana la capacità immediata di capire e di valutare da parte di un musicista e direttore della statura di Mengelberg, e suo grande ammiratore. Infine, in un'altra circostanza, arriva a questa conclusione:
Tutte le mie precedenti sinfonie erano solo preludi a questa. Le mie sinfonie sono sempre tragiche e soggettive, tranne l'Ottava, che è una grande dispensatrice di gioia.
Per concludere questa prima serie di citazioni, leggiamo un passo dai «Ricordi» della moglie:
In quel periodo apportava continui cambiamenti, naturalmente non alla musica, solo alla strumentazione. Dopo la Quinta era permanentemente scontento di sé; modificava la strumentazione della Quinta quasi ad ogni nuova esecuzione, prendeva sempre di nuovo in mano la Sesta e la Settima. Stava attraversando una crisi. Appena con l'Ottava fu di nuovo sicuro di sé e credo che non avrebbe cambiato neanche una nota al Lied von der Erde, che è uscito postumo, tanta è l'economia con cui l'ha strumentato.
Dunque, nessuna possibilità di dubbio. Mahler riteneva l'Ottava l'opera sua più grande, perfetta, confermando, per l'ennesima volta, la assoluta, congenita incapacità dell”autore ad essere il critico di se stesso. Quanto a ciò che riferisce e osserva la moglie, mi pare non sia necessaria alcuna osservazione. L'avere messo accanto ad una delle partiture più grandi, raffinate, intellettuali di Mahler, la più gonfia, rettorica, prolissa delle sue composizioni, è un fatto che si commenta da sé. Come risponde, come ha risposto, la critica al giudizio dell'autore sull'Ottava? Quale spiegazione ha dato, dà dell'immediato, delirante successo che l'opera ebbe sin dalla prima esecuzione, anche se oggi, a distanza di 66 anni, quel successo ha più il sapore di una premessa non realizzata, di una promessa non mantenuta? Soprattutto, come spiega la composizione di un'opera come l'Ottava, fra la Settima e la Nona?
Poche le risposte, e non sempre chiare, esaurienti, spesso indirette. Non so, forse sbaglio, ma nel leggere tutte le critiche che ho potuto sulla Ottava, ho avuto l”impressione che ancora una volta agisse sugli studiosi una specie di complesso che bloccava una precisa presa di posizione, a favore o contro, di questa che continuiamo a chiamare Sinfonia, ma che in realtà è un ibrido che comprende la Cantata, l'Oratorio, le musiche di scena, talune embrionali forme operistiche.
Il giudizio più aperto di Duse si legge nelle sue note alla antologia di lettere, programmi, testimonianze, pubblicati nel '65:

L'Ottava sinfonia, l'opera più imponente, ma probabilmente la meno riuscita di Mahler (malgrado le bellissime pagine che finiscono sempre con l'assicurarle un successo che le sue consorelle più meritevoli non raccolgono) fu dedicata dall'autore alla Nazione tedesca.
Naturalmente nella successiva e definitiva monografia, Duse amplia e approfondisce l'argomento, ma per vie che mi sono estranee e che portano a conclusioni da me non condivise. Per esempio, nelle pagine ancora dedicate alla Settima, Duse scrive:
Il momento romantico di Mahler è nella sua Settima e nella sua Ottava Sinfonia dalla quale riprende il suo originario cammino. La grande trattazione fugata sul tema di Die Meistersinger alla fine della Settima sembra confermarlo e così pure la successiva esperienza parsifaliana dell'Ottava.
Francamente continuo a non capire l”accostamento dell'Ottava alla Settima, quasi si trattasse di una unitaria continuazione di quello svolgimento linguistico e poetico come, appunto, era accaduto fino alla Settima compresa e non di una frattura, di una abnorme parentesi, di una mastodontica escrescenza, magari necessaria sul piano storico, di liberazione di una crisi. In questo senso, forse, è da intendere questo altro passo del Duse:
La crisi stava toccando il suo livello più alto. Dopo la Settima, l'Ottava cerca disperatamente di ritrovare il discorso semplice che faccia comprendere le grandi cose. Ma dopo l'esperienza esistenziale del periodo viennese, dei Lieder di Rückert e della Sesta, non vi può essere più una possibilità del genere, perché la misura di ciò che è grande fu gravemente compromessa.
Redlich preferisce insistere, in particolare, sull'eclettismo dell'opera:
La melodia dei violini che, sostenuta dai giochi dell'arpa, dura oltre venti battute, dà la misura di quanto Mahler è debitore ai modelli romantici del passato, giacché la melodia si avvicina pericolosamente al Schlummerlied di Schumann, il quale come Liszt, Berlioz, Wagner e Spohr, ha composto una sorta di oratorio ispirato al Faust di Goethe.
Nella seconda parte la diretta derivazione di Schumann, Liszt, e anche in parte del Parsifal di Wagner, conferisce alla musica di Mahler (malgrado l'alto livello di ispirazione e di tecnica impeccabile) un sapore eclettico del tutto assente dalla prima parte i cui motivi, ricchi di potenza creativa e di ingegnosità contrappuntistica, sono eguagliati solo raramente nel trattamento semi-operistico che prevale nella seconda parte.
E' il primo, esplicito accenno al genere musicale vero dell'opera, che forma un altro dei nodi, se pure meno importanti, che attendono di essere sciolti.
Poco prima, Redlich aveva già espresso il suo parere su questo punto della questione.

Se con questo inno patristico (si riferisce al "Veni creator") Mahler ha scritto qualcosa che si avvicina molto a un brano di messa, con la composizione della scena finale di Goethe ottiene un effetto che si accosta al mondo del teatro musicale.
Non tutti gli studiosi sono dello stesso parere. Anzi, e avremo modo di constatarlo.
La storia dell'interpretazione mahleriana, i concreti problemi interpretativi di questa Sinfonia, non potevano rimanere estranei a tutti questi aspetti. Intanto, il gigantesco organico strumentale e vocale può avere influito negativamente sul numero delle edizioni discografiche: undici, precisaente da Stokowski (1950) a Haitink (1971). Inoltre, i risultati interpretativi sono condizionati dalle caratteristiche e qualità delle imponenti masse corali, e da quelle dei solisti. C'è una terza considerazione, ed è la più importante: la Ottava, nonostante l'immenso spiegamento strumentale, la smisurata vastità della concezione, la complessità della trama contrappuntistica, non è un'opera difficile, né per chi la esegue, né per chi l'ascolta. La partitura non presenta nessuna di quelle grandi, insidiose difficoltà, di quei problemi interpretativi, quasi insolubili, davanti ai quali spesso Mahler mette il direttore, e comunque sono meno numerosi e più semplici di quelli di qualsiasi delle altre Sinfonie di Mahler.
L'Ottava è una Sinfonia tutta saldamente costruita, compiuta, implacabilmente definita, da principio alla fine. Dirò che l'Ottava non ha problemi affatto, e forse il suo enigma consiste proprio nel non avere alcun lato oscuro, ambiguo, nel non presentare alcuna zona d'ombra, nessuna incertezza, nessun mistero. Sul piano strettamente interpretativo qualche quesito la Sinfonia lo pone con le parti strumentali, autentici, preziosi osservatorii, per studiare le diverse poetiche, le differenze interpretative, in una massiccia media esecutiva dalla eccellente, livellata apparenza.
C'è una sola differenza che si riesce a cogliere subito, e che sembra dividere le esecuzioni dell'Ottava in due gruppi: quello che segue, asseconda, esaspera, il gigantismo compositivo dell'opera, gonfiando tutte le sonorità, dilatando i tempi, e accentuando al massimo la ampiezza dinamica. In modi e in misura diversi, direi che sono le più numerose. Il secondo gruppo tende a circoscrivere le dimensioni esterne della Sinfonia, a ridurre gli immensi, rettorici effetti delle parti più magniloquenti, gli spessori fonici e polifonici.
Sono due tendenze, due vie che si presentano sin dall'inizio della prima parte, il grandioso inno "Veni creator Spiritus". Stokowski, analogamente a Bernstein, punta diritto sul grande quadro scenografico, accentua tutte le sonorità gravi, amplia al possibile le dimensioni foniche.
Chiaro il diverso atteggiamento di Haitink, il quale tende, invece, a ridurre le sonorità, ad essenzializzare le enfatiche forme espressive. Lo splendore incomparabile di Solti trova la sua giustificazione nello straordinario equilibrio di tutte le parti del discorso, mentre la sostenutezza ritmica, il meditato arco espressivo imprimono all'Inno una linea severa, raccolta, quasi luterana. Con Morris si torna alla concezione magniloquente di Stokowski, messa in maggiore evidenza da una buona registrazione moderna. La estrema lentezza ritmica occorre a Morris per ampliare le risonanze rettoriche della sua versione (pagg. 3 / 8, batt. 1/ 45).
Diverse, l'ho già detto, le possibilità offerte dalle parti strumentali, per capire, studiare, la poetica dei singoli direttori. In esse più evidenti risultano i segni del tempo, gli eventuali errori interpretativi. In queste pagine, sia pure in misura minore, affiorano atteggiamenti, stilemi, locuzioni del Mahler più autentico, e quindi più facilmente decifrabili.
Nonostante la vecchia, mediocre incisione, si riesce a capire quanto lontano fosse Flipse dalle severe esigenze stilistiche, espressive di Mahler. Evidente l'appiattimento dei timbri, quasi parodistico il malinconico, bellissimo controcanto dei violini prima, e del violino solo dopo, mentre la conclusione manca del suo naturale fascino timbrico. Con la smagliante versione di Bernstein, l'episodio rivela intera la sua originale fisionomia timbrica, tutta in rilievo, e fittamente polifonica. Il sentimento religioso sale, senza alcuna mollezza oleografica, dal severo canto dei due cori. Scherchen, nonostante i limiti di una vecchia, mediocre incisione, si afferma con la sua originale visione, scarna, disadorna, direi ascetica, dei timbri e delle proporzioni sonore (pagg. 18/24, batt. 124/169).
Le due parti di questo gigantesco "dittico", ispirate, la prima all'Inno "Veni creator Spiritus" attribuito a Harabanus Maurus, arcivescovo di Mainz nell'VIII secolo, la seconda alla scena finale del Faust di Goethe, hanno richiamato alla memoria di alcuni studiosi, per motivi diversi, alcune opere unite dalla grandiosità della concezione. Redlich, oltre i modelli che ho già citato, ricorda la Messa di Orazio Benevoli, il Requiem di Berlioz, i Gurre-Lieder di Schoenberg, il Prometeo di Skrjabin. E si potrebbe continuare. Come si vede, nessuna sinfonia, perché neppure l'Ottava è una Sinfonia. Non tutti gli studiosi sono dello stesso parere; l'ho già detto. Per esempio Marc Vignal, grande ammiratore di quest”opera. Egli scrive:

Sinfonia, l'Ottava, lo è soprattutto nel primo movimento. Il monumentale ma conciso (e certo oltre 23 minuti di musica per Mahler è una misura ancora media N.d.r.). Veni creator, forma sonata abbastanza rigorosa il cui sviluppo culmina in una titanica e magistrale doppia fuga, ricorda per la sua complessità i primi movimenti della Sesta e della Settima sinfonia e il Te Deum di Bruckner.
Subito dopo, almeno, ammette:
La scena di Faust, più episodica, omofona, distesa, confina col genere oratorio...
C'è chi va oltre, sino a considerare l'Ottava una Sinfonia nella sua forma più classica, pura. Georges Gourdet scrive:
L'Ottava sinfonia è l'esempio più perfetto di sintesi fra più generi, pur continuando ad essere una sinfonia. In essa il canto non costituisce un complemento, ma è parte integrante dell'organico orchestrale.
E' una tesi che sostiene, con maggior vigore, in un'altra occasione:
Nonostante l'esistenza del testo letterario e, di conseguenza, il costante impiego della voce, l'Ottava Sinfonia non è una cantata o un oratorio ma una sinfonia vera e propria. La prima parte a grandi linee adotta lo schema dell'Allegro di sonata... La seconda parte benché in un'unica esposizione, sta al posto dell'Adagio (preceduto da un Preludio) dello Scherzo e del Finale. Benché il confine fra l”Adagio e lo Scherzo sia nettamente segnato, quello che divide lo Scherzo dal Finale è più confuso, almeno all'ascolto in quanto il Finale inizia a metà dello Scherzo, viene interrotto dalla seconda parte dello Scherzo e poi conclude l”opera. Per maggior chiarezza, ecco lo schema di questa seconda parte: Preludio, Adagio, Scherzo (1a parte), Finale (1a parte), Scherzo (2a parte), Finale (2a parte).
Quali argomenti opporre a tesi sostenute con così onesto accanimento, non è facile stabilire. D'altronde la impenetrabilità di posizioni simili, la palese inammissibilità di tesi diverse, a partire dalla più semplice, e cioè che non basta lo schema della forma-sonata per definire una composizione una sinfonia, sembrerebbe rendere superflua qualsiasi discussione. Non è così e avremo modo di constatarlo. Alla fine spero di riuscire a convincere il discofilo mahleriano che l'Ottava non è una sinfonia e che, nel grande ciclo sinfonico di Mahler, cui oramai la si fa appartenere, è la meno originalmente mahleriana. Questo non significa che non contenga pagine di grande valore. Come la breve introduzione strumentale alla ripresa dell'Infirma. Le tre versioni scelte per la mia analisi comparata dell'interpretazione di questo episodio, se studiate e ascoltate in ordine cronologico di incisione e cioè Scherchen, (1951), Mitropoulos (1960), Solti (1971), offrono indicazioni preziose per la storia dell'interpretazione mahleriana. Voglio indicarne almeno due; la conferma delle folgoranti, decisive, anticipazioni di Scherchen, modello insuperato di modernità interpretativa; il rigore e la coerenza con i quali, pur se in misura diversa e con differenti risultati, i maggiori interpreti di Mahler hanno seguito la via maestra di questa modernità. I suoni di Scherchen sono spettrali, hanno qualcosa di mortuario, gli stappi dei pizzicati sono lividamente metallici, il timbro dei fiati è di una marmorea freddezza. Mitropoulos segue la stessa via, presenta la medesima immagine forse lievemente più corporea, meno lancinante. Avvolta dalla consueta sontuosità sinfonica, la versione di Solti, forse meno analitica, certo meno asciutta, ma altrettanto precisa e rigorosa (pagg. 24/29, batt. 169/216).
Una questione, solo in apparenza rettorica, qual è quella del genere musicale dell'Ottava, non può rimanere sospesa. Devo quindi riprendere l'argomento, e rispondere ai sostenitori della tesi sinfonica.
Lo farò leggendo alcune considerazioni di uno dei primi e più acuti studiosi italiani di Mahler, Luigi Rognoni:

Mahler porta il teatro nella sinfonia, così come Wagner aveva portato la sinfonia nel teatro: la struttura delle sue Sinfonie si giustifica appunto in ragione delle proporzioni di un'opera lirica che occupa un'intera serata. Il primo tempo ha quasi sempre l'ampiezza di un vero atto d'opera in un unico quadro, dopo il quale si prevede un lungo intervallo, i tempi successivi costituiscono generalmente i differenti «quadri» di un unico «atto» sinfonico che si succedono senza interruzione e con brevi pause.
Dunque, Mahler come Berlioz (per non parlare di Strauss). Anche egli avrebbe scritto tutte le sue opere per un immaginario palcoscenico. Anche Mahler, come Berlioz, avrebbe composto, sospinto sempre, ossessionato, flagellato, dal suo grande, infelice, non corrisposto amore: il teatro. Tesi suggestiva ma di dubbia consistenza, smentita dai risultati, dalle sue Sinfonie più grandi, dalle parti più grandi di queste Sinfonie, che appartengono a quanto di più puramente strumentale sia stato composto, nella storia della sinfonia.
Una sola eccezione, l'Ottava, per la quale questa tesi, non solo regge, ma è l'unica possibile e che conduce ad altre importanti conclusioni, come avremo modo di vedere.
Oltre, al di fuori delle spiegazioni teoriche c'è la realtà della musica di una partitura. Per esempio il finale dell'Inno Veni creator, cioè della prima parte dell'opera. Preceduto da una breve ma intensa introduzione strumentale, Mahler intona il Gloria finale con i due Cori, il Coro di bambini, e i solisti. C'è qualcosa di bachiano e di haendeliano nella severa magnificenza di questa sontuosità barocca. Chi può ostinarsi a parlare di sinfonia innanzi a un episodio come questo? Rimane il fasto compositivo, il messaggio ottimistico di fratellanza, di fede, e il tentativo, candidamente rettorico, di identificarsi con l'universo. Morris, nonostante la dilatazione ritmica, e la precisa intenzione di berlioziana grandiosità, non può competere con l'impeto, il magistero direttoriale, la capacità di ampi respiri musicali, nel lungo periodare dinamico, di Bernstein. Curiosa e non facilmente definibile la posizione di Scherchen in questo finale. Non sono riuscito a capire se voleva assecondare la rettorica magniloquenza della pagina, e c'è riuscito solo in parte, oppure abbia mirato a diminuirne le dimensioni ma con poco successo e insufficiente chiarezza (pagg. 64/74, batt. 493/580).
In contrasto con questo Finale, Mahler apre la seconda parte dell'opera con un vero e proprio preludio, l'unico compiuto, episodio sinfonico della Ottava e una delle pagine più grandi dell'intera partitura, al quale, stranamente, le analisi anche più accurate non dedicano l'attenzione che merita. È uno dei punti massimi, più importanti, di riferimento, per la poetica dei singoli direttori, e per le caratteristiche interpretative delle singole versioni. Scherchen delude le attese dei suoi fedeli ammiratori quale grande interprete di Mahler. Piuttosto sostenuto nel ritmo, non segue, stranamente, la sua poetica, qui più che mai necessaria, delle sonorità filiformi, spettrali. Giusto il tremolo dei violini ma troppo corposo il pizzicato dei violoncelli e dei contrabbassi, anche se non raggiunge l'intensità della versione di Solti. Bernstein mette in maggiore rilievo i timbri, specie dei legni, ma vi è nella sua immagine, una sorta di attonita, dolorosa staticità, di immobile stupore che avvolge di un misterioso fascino tutto l'episodio. La versione di Kubelik rimane la più nitida, nei limpidissimi contorni, la più mahlerianamente malinconica e pudica nelle sottili sonorità, di una suggestione raveliana. Mirabile l'equilibrio fonico, infallibili i rapporti timbrici d'una morbidezza rara anche nel frammento di corale affidato ai corni (pagg. 75/76, batt. 1/34).
Rimane, e sino alla fine, il quesito: melodramma o sinfonia? Non la soluzione del problema che questa domanda pone, ma la risposta più acuta e esauriente possibile, l'ha data René Leibowitz, e si legge in un prezioso scritto, quasi sconosciuto, già citato; anzi, viene da una frase di Mahler, che lo studioso mette all'inizio del suo breve saggio, e che oggi suona come luttuosa, freudiana confessione sull'Ottava, quasi una epigrafe musicale di questa partitura:

Alcuni prendono cura di se stessi e rovinano il teatro. Io curo il teatro e mi rovino.
Leibowitz si chiede:
Come è potuto accadere che quest'uomo, che passò la sua vita in teatro, non abbia mai scritto una sola opera per il teatro? Come tutto ciò che riguarda l'attività di Mahler, anche dare una risposta a questo quesito non è cosa semplice. La sua vocazione alla direzione d'orchestra e la sua funzione di direttore di teatro d'opera rivelano un curioso insieme d'amore e d'odio per l'ambiente in cui questa funzione si compie. Egli amava profondamente l'opera, il repertorio lirico e lo curava in mille modi. Ma egli odiava nel contempo la routine della vita di teatro che definì una volta "l'inferno del teatro". Ciononostante egli fece di tutto per renderla come egli intendeva dovesse essere fino a compromettere per essa la sua salute.
Rimane il segreto che Mahler portò con sé. Restano le prove del suo amore per il teatro, non solo dell'interprete, ma del compositore, con le opere scritte o programmate nella giovinezza, e con questa della grande maturità, l'Ottava Sinfonia.
D'altronde, ripeto, fuori d'ogni discussione teorica, c'è la musica, c'è l'opera con le sue precise, anche se multiformi caratteristiche, le quali indicano chiaramente una aspirazione al teatro, alla rappresentazione. A parte tutte le didascalie dell'originale testo goethiano, rispettate e riprodotte fedelmente, ci sono ampi episodi, cui manca solo la scena, che si può benissimo immaginare. Uno di questi, molto ampio, comprende i due monologhi di Pater Estaticus e Pater Profundus. Esso rivela, senza possibilità dì dubbio, l'aspirazione teatrale, specie di questa seconda parte, quel carattere stilisticamente ibrido pre e post-vvagneriano, oscillante fra Schumann e Pfitzner. Le due versioni studiate devono tener conto anche delle diverse caratteristiche dei solisti, Dietrich Fischer Dieskau e Franz Crass con Kubelik; John Shirley-Quick, e Marttì Talvela con Solti, voci e interpreti ai quali è familiare tutto un repertorio germanico, Wagner compreso, e che quindi hanno potuto facilmente adeguarsi a questa ibrida sintesi stilistica mahleriana.
La versione di Kubelik è più sostenuta, meno imponente, più lontana da Wagner come da Strauss e, nonostante il ritmo più veloce, meno inquieta di quella di Solti, tutta rivolta ad un intenso, plastico rilievo dei valori drammatici (pagg. 94/100, batt. 260/329).
Rimane l'ultimo e fondamentale quesito, al quale ho già dedicato numerosi accenni: le reali caratteristiche musicali dell'opera, il suo reale valore. C'è una pagina di Adorno su questo aspetto che ritengo fondamentale e, nonostante le ambiguità di cui si ammanta, molto severa:

Riferendosi al primo tempo dell'Ottava, che porta il titolo di «Veni, Creator Spiritus» Hans Pfitzner ha osservato con humour: «e se poi non viene?»› - una frase che, con la chiaroveggenza nata dal rancore, ha in sé qualcosa di esatto. Non che a Mahler sia mancata la forza, anzi proprio il primo tema del «Veni creator Spiritus» è meraviglioso, e geniale è l'idea di ravvivare coi tromboni, nelle battute che seguono subito dopo il coro, l'intervallo «morto» - per dirla con Riemann - di settima che, separato da una pausa, si presenta tra i primi due membri di frase. Ma quell'appello, nel suo oggettivo significato formale, si riferisce alla musica stessa: invocare la venuta dello Spirito significa pregare che la composizione sia ispirata. Scambiando il Santissimo con se stessa, l'Ottava confonde l'arte con la religione, rientrando in quella falsa coscienza che va dai Meistersinger fino al Palestrina di Pfitzner e a cui soggiacciono anche le concezioni ideali di Schoenberg, l`eroe della Glückliche Hand come l'Eletto della Jakobleiter. Mahler era sensibile più di ogni altro compositore del suo tempo alle commozioni collettive, e la tentazione che ne derivava di innalzare direttamente ad assoluto e di glorificare il collettivo, che egli sentiva risuonare in ogni sua fibra, era quasi strapotente: e Mahler commise il delitto di non opporlesi.
Parole dure, parole severe, ma anche sincere, come sono sempre quelle di Adorno, nei momenti decisivi dei suoi saggi. Fino a che punto Mahler, questo della Ottava, le abbia meritate, oggi non saprei dire neppure io. Forse è ancora troppo presente, forse siamo troppo vicini a questa monumentale opera, a tutta l'opera di Mahler per avere la distanza prospettica necessaria per un giudizio interamente e decisamente, sereno.
Questa mia posizione confermo, anche se il Finale dell'Ottava, nella sterminata ampiezza fonica e magniloquenza, sembra fatto apposta per accentuare il giudizio negativo sull'opera, con la sua immagine rettorica, oratoriale, di messaggio collettivo, universale.
E' uno di quegli episodi, forse il più importante, per indicare, scoprire la tendenza all'enfasi, alla esagerazione esasperata, oppure alla concezione riduttiva, quasi introversa, interiorizzata, nella interpretazione dell'intera opera. E certo dall'inclinazione del discofilo verso l'uno o l'altro aspetto, dipende la scelta della versione. Io ne ho studiate e messe a confronto particolarmente due: di Solti e di Kubelik. Mi sembrano quelle che meglio rappresentano le due tendenze: la misurata, ascetica, riduttiva, Kubelik, anche più di Scherchen; la grandiosità equilibrata, la magniloquenza mai volgare, l'accesa foga strumentale, il fasto sinfonico, l”ampiezza barocca, in una visione che tuttavia rimane severa, Solti (pagg. 209/218, batt. 1457/2061).
Se l'Ottava sia rimasta ancora un enigma o se come spero, qualche punto almeno di questo enigma sia riuscito a chiarire, non so dire con certezza. So per certo, anche se è la sola certezza che ho sull'Ottava, che questa Sinfonia, sul cammino di Mahler, verso le frontiere della nuova musica, è una parentesi: non voglio dire una frattura, anche se comincio a pensarlo. Una parentesi subito chiusa con la Nona che riprende il discorso interrotto al momento della Settima Sinfonia. Sarà di nuovo, e questa volta definitivamente, interrotto dopo l'Adagio della Decima.




Ottava Sinfonia (Part II): Poco adagio


























Giuseppe PUGLIESE (tratto da "Gustav MAHLER", Nuove Edizioni - © 1977)