ROMAN
VLAD. Un compositore
indipendente
“Vivo nella
musica da quando ho
memoria.”
Così dice di sé Roman
Vlad, compositore di origine
rumena, dal 1951 cittadino
italiano, pianista
appassionato
divulgatore di opere altrui,
critico musicale e, nel corso
degli anni, presidente e
direttore artistico delle piu
prestigiose
istituzioni musicali italiane
(Maggio Musicalc Fiorentino,
Teatro alla Scala, Festival
Settembre musicadi
Torino, Orchestra Sinfonica
della RAI di Torino, Teatro
dell’Opera di Roma, Festival
di Ravello, Accademia Filarmonica
Romana, etc.)
Nato a Cernauti, Bucovina, nel
1919, inizia a studiare nel
Conservatorio della sua città,
ma quasi subito il metodo
con cui veniva insegnata
l`armonia gli fece lasciarc
quella istituzione per
proseguirc gli studi
privatamente. A 10 anni
aveva già tra le mani la Sonatina
ad usum infantis di
Busoni, poco dopo la Sonata
op. l di Berg, i Klavierstücke op.
19 di Schönberg e tante altre
composizioni assolutameute
inusuali per un giovanissimo
studente.
Dopo il diploma di pianoforte
nel 1938 decise di cambiare
insegnaute e scelse come
maestro Alfredo
Casella, che aveva sentito
suonare nella sua città
natale, restandone eutusiasta.
Si trasferì in Italia, entrò
nella sua
classe all’Accademia di Santa
Cecilia e iniziò così la sua
vita inusicale “italiana”.
La prima affermazionc
importante di Vlad come
compositore risale all'anno in
cui Milloss fece la
coreografia del
suo balletto La dama delle
camelie del 1945. È un
pezzo che fa tesoro
dcll’esperienza della seconda
scuola
viennese, sebbene Vlad non si
sia mai considerato un
compositore dodecafonico.
Pur essendo stato invitato
varie volte a Darmstadt, fin
dalla fondazione, si rifiutò
sempre di andarvi. "Loro
volevano rompere con tutto, ma
io ho sempre creduto che non
si possa tagliarc di netto con
la tradizione, piuttosto la
si può rinnovare
continuamente. Sapevo
benissimo che questo mio
rifiuto a partecipare avrebbe
pregiudicato la mia
carriera di compositore, anche
perché non mi sono mai
accodato neanche al partito
contrario. In questo mi
definirei tra le sedie.
Alla fine comunque ho avuto la
soddisfazione di vedere Boulez
cambiare la sua posizione. E
pensare che l’avevo conosciuto
prima che diventasse Boulez,
quaudo ancora andava a
lavorare in bicicletta..."
Vlad si considera ben definito
dal concetto schönberghiano di
"pantonalità", come qualcosa
di inclusivo e non
esclusivo, poiché non esiste
una non-tonalità, piuttosto ci
sono dei rapporti tonali
diversi. Stravinskij ad
eseinpio, chc è stato amico di
Vlad, diceva di poter essere
forse anti-tonale, cioè di
riuscire a scrivere in modo da
sospendere la tonalità, in un
certo senso ad andarvi contro,
senza abolirla.
Vlad si serve sempre di una
piena libertà compositiva e
non può essere definito un
compositore dodecafonico
ma, dovendo usare questo
termine, per le sue opere si
potrebbe parlare di una sorta
di dodecafonia "svernata".
In questo comprende in pieno
la posizione di Adorno contro
la dodecafonia come schema.
come sistema,
ritenendo che questa avrebbe
acquistato la sua piena
legittimità operativa nel
momento in cui sarebbe stata
assimilata in modo da
diventare del tutto spontanea
e non più proibitiva.
Vlad comunque da sempre
ritiene che nella sua musica
l’aspetto formale debba
convergere con quello
espressivo; non si sente
credente ma estremamente
religioso, con un gran bisogno
di credere. Un verso che ama
ricordare è “fuissem quasi non
essem” (sono stato come se non
ci fossi stato), sul quale ha
composto una delle sue Elegie
Bibliche.
Vlad afferma che quando si
compone certe soluzioni
diventano giuste soltanto se
piacciono all’autore e
potezialmente ad un
ascoltatore ideale e non se
seguono determinate regole.
Citando Schönberg possiamo
dire che un artista vero deve
cercare la verità; questa si
potrebbe definire invertendo
una frase di Tommaso d’Aquino
secondo cui "la verità è
adeguamento del nostro
intelletto a ciò che è fuori
di noi". Per Vlad invece la
verità non è che l'adeguarsi
delle figure rnusicali al
proprio dettato interiore.
I brani
di Vlad del presente CD
vengono eseguiti da due suoi
importanti ed entusiastici
interpreti e destinatari del
suo impegno creativo. Mentre i
lavori per pianoforte presenti
in questo CD sono stati
registrati da Carlo Grante in
studio, l’esecuzione di Le
ciel est vide ebbe luogo
in occasione di un concerto
dell’Orchestra e Coro
dell’Accademia di Santa
Cecilia all’Auditorio Pio di
Roma, ultima volta in cui il
grande direttore italiano
Giuseppe Sinopoli diresse
l'orchestra romana, assumendo
così anche un singolare valore
storico.
Doriana
Attili
Le Cicl est vide
La Cantata per coro c
orchestra “Le Ciel est vide”,
composta nel 1952-1953, è
formulata in doppia versione
in modo da poter cssere
eseguitu sia col testo tedesco
tratto dall”`Erstes
Blumenstück” di Jean Paul
Richter, sia con i versi
francesi desunti da un
frammento del poema “Le Christ
aux Oliviers” in cui Gérard de
Nerval “imita liberamene” la
prosa poetica di Jean Paul.
Il Blumenstück
("Pezzo floreale") di
quest'ultimo, incluso nel
secondo volume del suo Siebenkäs,
ha il sottotitolo “Discorso
del Cristo morto dall’edificio
del mondo che Dio non c’è”. Si
tratta di una terrificante
visione di sogno in cui il
defunto Cristo appare ai morti
per annunciare loro che il
cielo "è vuoto", che non c’è
un eterno Padre, che gli
uomini sono dunque
assolutamente orfani,
assolutamcnte derelitti e soli
in un universe nel quale regna
“il caso folle e dissennato”
per cui l'ordine cosmico deve
ripiombare nel caos, nel
nulla. Jean Paul premette che
“lo scopo di questo poema è la
giustificazione della sua
audacia”. Esso mira infatti a
mostrare agli uomini l'atroce
assurditià di una visione atea
del mondo per renderli
consapevoli dell’immensa
benedizione della fede. E in
calce egli annota: “Se una
volta il mio cuore fosse cosi
infelice e smorto, che in esso
si distruggessero tutti i
sentimenti che affermano
l’esistenza di Dio, allora mi
scuoterei con questo scritto -
ed esso mi guarirebbe e mi
ridarebbe il mio sentire”.
Gérard de
Nerval colloca il “discorso di
Cristo” immaginato dal Jean
Paul nel momento in cui Cristo
si sente abbandonato dal padre
durante la tragica veglia sul
Monte Oliveto. È questo il
“momento di Giobbe” in Cristo,
in momento più umano della sua
vicenda terrena, in cui Egli
condivide per una attimo il
dramma fondamentale della
condizione esistenziale
dell’uomo definita
dall’immanenza del dubbio che
fa venir meno la fede alla cui
necessità, tuttavia, l’uomo
non potrà mai rinunciare. La Cantata
si articola in tre tempi. Nel
primo la dolorosa e vana
invocazione di Dio si alterna
ad allucinate visioni degli
infiniti abissi dell’universo.
Nel secondo tempo coro e
orchestra si dispongono su due
piani distinti: mentre le voci
esprimono l'estrema
disperazione dell’uomo il cui
grido verso Dio resta senza
risposta, gli strumenti
svolgono un impassibile Canone
perpetuo a dodici parti
disposte in modo da
ingenerare, in un incessante
moto uniforme, accordi che
conglobano sempre tutti i
diversi dodici suoni. Le
frizioni di queste note
dissociano il tessuto sonoro,
lo riducono ad un
indifferenziato pulviscolo
sonoro: la massima polimorfia
strutturale si traduce così
nell’assoluta amorfia, simbolo
del “caos, ombra del nulla” di
cui parla il testo. Al caotico
perpetuum mobile del
secondo tempo si contrappone
l'immobile fissità da cui
sembra nascere e in cui si
dissolve l’ultimo tempo, voci
e strumenti intonano qui il
canto della solitudine umana
in un universo dove, come dice
Jean Paul, “l’uomo non è
accanto che a se stesso”.
Nella
sua intrinseca struttura
musicale la Cantata si
configura come una sola,
immensa variazione di un
roteante motivo di tre note,
di cui tutte le possibili
varianti si sommano in serie
dodecafoniche sempre diverse,
capovolgendo così quella legge
della dodecafonia classica per
cui ogni composizione musicale
doveva essere dedotta da
un’unica serie fondamentale.
*****
Nerval,
frammento da "Le Christ
aux oliviers"
"No, Dio non
esiste!
Ho percorso
gli spazi;
E il mio
volo si è perso nelle loro
galassie,
Fino a dove
la vita le sue vene
feconde
Espande in
sabbie d’oro e argentei
flutti:
Ovunque
terra deserta lambita
dalle onde,
E turbini
confusi di oceani
agitati...
Un vago
soffio muove le sfere
vagabonde,
Ma non
esiste spirito in quelle
immensità,
Cercai
l'occhio di Dio, ma non
vidi che un'orbita
Vasta nera
profonda, e invasa dalla
notte
Che ne
irradia sul mondo e sempre
più infittisce;
Immane
arcobaleno circonda il
buio pozzo,
Soglia del
chaos antico di cui nulla
è l'ombra,
Spirale che
risucchia i mondi e le
ore!
Immobile
destino, muta sentinella,
Fredda
necessità!... Caso che,
avanzando
Trai morti
mondi sotto eterna neve
Raggeli,
grado a grado, e
impallidisci il cosmo.
Sai tu ciò
che fai, potenza
originaria,
Degli spenti
tuoi soli, che si urtan
l’un l’altro..,
Saprai lu
trasfondere un soffio
immortale
Da un mondo
che muore a un altro che
rinasce?
Oh padre
mio, sei tu che in me
stesso io sento?
Hai potere
di vincere e di vincer la
morte,
Potevi tu
soccombere sotto un
estremo sforzo
Dell’angelo
di tenebre che colpì
l’anatema?
Poichè mi
sento solo a piangere e
soffrire
E se io
muoio, ahimè, tutto deve
morire."
La prima
esecuzione di Le Ciel
est vide ha avuto
luogo a Torino nel 1954,
sotto la direzione di Nino
Sanzogno. In una recensione
del 1956 ne “Le 4 Dauphins”
(Aix-en-Provence, I
printemps 1956, pp. 82-85)
Giorgio De Maria scriveva:
"Nella
sua Cantata, dove
l'ipotesi di un mondo
privo della trascendenza
lo spinge ad esplorare
dei mondi sonori di un
accento tragico
indescrivibile, il
personaggio del presunto
nihilista è
probabilmente la
creaziane più coraggiasa
osata dalla musica
postespressionista,
paragonabile soltanto a
quella del Sopravvissuto
di Varsavia di
Schoenberg. Si direbbe
che in Vlad l'esperienza
totale della negatività
dell’esistenza, una
volta compiuta, è
proprio quella che gli
ha permesso di affrrare,
e in conseguenza di
superare - le sue
composizioni più recenti
lo attestano - quello
che Mann ha chiamato
'l'imminenza della
sterilità che predispone
al patto col Diavolo’."
|