Oltre che direttore
d’orchestra fra i
più apprezzati della sua
generazione e didatta
prestigioso per
ammissione del suo allievo più
illustre - Arnold Schönberg -
Alexander Zemlinsky fu
compositore assai stimato
nella Vienna tra fine
Ottocento e primo Novecento,
di rango superiore a quello
ufficialmente
assegnatogli da un
secolo, il nostro, pur non
avaro di simpatie verso i
protagonisti della "finis
Austriae".
Benché di quel mondo
Zemlinsky fosse
un esponente esemplare,
gli nocquero da un lato il
confronto ravvicinato con
Mahler, più rappresentativo
nella sua
modernità, dall’altro
l’estraneità ai ‘progressi’
della Scuola di Vienna, che
per lui si fermarono ai
confini della tonalità e ben
prima della dodecafonia.
L'incidenza di
Zemlinsky parve più limitata
rispetto alle tematiche che
lo coinvolsero; quasi si
trattasse di un fenomeno
tipico della sua epoca,
compiuto artisticamente ma
sfumato, da riconsiderare
semmai in seconda battuta.
Prima
che il
riconoscimento giungesse
a toccare momenti importanti
della sua produzione come la
musica da camera e
soprattutto il teatro, oggi
pienamente rivalutato, il
nome di Zemlinsky fu quasi
esclusivamente legato alla Lyrische
Symphonie, in parte
anche per il fortunato
abbinamento con i testi del
filosofo e scrittore indiano
Rabindranath Tagore, Premio
Nobel per la letteratura nel
1913 e poi mito di una certa
avanguardia poetica
novecentesca. Autore di cui
Zemlinsky mise qui in musica
sette poesie in traduzione
tedesca affidandole al canto
alternato di sue solisti e
ad un'orchestra di
proporzioni tanto grandiose
quanto lussureggianti.
Se
la data di composizione
(1922-23) si colloca nel
periodo della piena maturità
di Zemlinsky (compositore
tutt'altro che prolifico, e
portato a meditare bene le
sue scelte), il tono che
pervade l'opera è quello
dell'espressionismo onirico,
impreziosito da uno stile
decorativo di gusto
finemente cesellato. Siamo
in un clima culturale e
musicale sensibilizzato dai
colori esotici dell'ultimo
Mahler (quello del Canto
della terra, più
volte adombrato e
riecheggiato in passi
decisivi) e agitato dal
ricordo delle fantasie
inquiete dello Schönberg dei
Gurrelieder: in
versione più estenuata e
decadente, con uno sguardo
già chiaramente
retrospettivo e velato della
mesta consapevolezza dei
congedi. Il termine lirico
è da intendersi in duplice
senso: ora struggentemente
nostalgico, ora esaltato da
un'ansia liberatoria, come
metafora di un mondo ormai
perduto o idealizzato.
Il
lirismo della Sinfonia
lirica nasce dalla
poesia ardente di Tagore,
declamata in linee sinuose
ed avvolgenti dalle voci
soliste, che ne fanno veri e
propri lamenti di un amore
vagheggiato, ma è di tipo
più simbolico che
realistico, anche nella
sensualità e nell'ebrezza.
Nell'orchestra quel canto
diviene qualcosa d'altro:
desiderio d'appartenenza,
evocazione di una perdita e
sogno d'una riconquista. Da
questo punto di vista
Zemlinsky delinea un
percorso nel quale le
stazioni dei sette canti,
concepiti nella forma di un
dialogo tra solitarii che
sembrano non incontrarsi
mai, si salda intimamente
cin gli interludii sinfonici
che li collegano tra loro in
un unico, omogeneo disegno
formale: la cifra
fondamentale è enunciata nel
preludio, scandito da
accenti fatali e minacciosi,
con espressione insieme
austera e appassionata. Il
rivestimento sinfonico
diviene così commento e
ampliamento della poesia,
sogno di un sogno, estasi di
un desiderio che sopravanza
la morte, per consegnarsi
voluttuosamente al silenzio
dell'oscurità.
La
ricchissima tavolozza
orchestrale, con il suo
eclettismo cosciente, è un
involucro abbagliante che
racchiude una tragica
monocromia e sottintende
un'essenziale unità formale.
A tacere degli evidenti
richiami tematici che
costellano le diverse
sezioni in corrispondenza
delle immagini poetiche, non
sfugge a un'attenta analisi
la costruzione dell'opera
secondo precise coordinate
sinfoniche, sì da combinare
la forma del ciclo
liederistico con quella del
poema sinfonico. Anche
questo aspetto conferma la
volontà di riflettere i
contenuti poetici in una
sorta di contemplazione
estetica, non vissuta in
prima persona ma riflessa in
uno specchio oggettivante di
evocazioni sonore. Come se
tutto fosse un ricordo, un
simbolico vagare tra realtà
e sogno, tra esaltazione e
rassegnazione, fluttuante e
incorporeo.
Sergio
Sablich