DG - 1 CD - 437 689-2 - (p) 1993

Franz SCHUBERT (1797-1828)






Symphonie Nr. 8 h-moll, D 759 "Unvollendete"
24' 48"
- 1. Allegro moderato 14' 09"

- 2. Andante con moto 10' 39"





Symphonie Nr. 9 C-dur, D 944
49' 48"
- 1. Andante - Allegro ma non troppo 12' 51"

- 2. Andante con moto 14' 26"

- 3. Scherzo. Allegro vivace - Trio 10' 57"

- 4. Allegro vivace 11' 34"





 
STAATSKAPELLE DRESDEN
Giuseppe SINOPOLI
 






Luogo e data di registrazione
Lukaskirche, Dresden (Germania) - maggio & giugno 1992

Registrazione: live / studio
studio


Produced by
Wolfgang Stengel

Tonmeister (Balance Engineer)
Klaus Hiemann

Editing
Mark Buecker, Hans Kipfer

Prima Edizione LP
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Prima Edizione CD
Deutsche Grammophon | 437 689-2 | LC 0173 | 1 CD - 74' 52" | (p) 1993 | 4D DDD


Note
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Un destino simile accomuna le tre massime espressioni superstiti del sinfonismo schubertiano, ossia le Sinfonie in mi M D 729 (1821), in si m D 759 (1822) e in do M D 944 (marzo 1828): quello di essere affiorate dall’oblio parecchi anni dopo la scomparsa del compositore e, nei primi due casi, in uno stato d’incompiutezza di varia consistenza. Per quanto riguarda la Sinfonia in si m (reperita, come è risaputo, presso Graz nel 1865 dal direttore d’orchestra viennese Johann Herbeck tra le carte di Anselm Hüttenbrenner, musicista e amico di Schubert) tale incompiutezza concerne esclusivamente gli ultimi due movimenti, dei quali sussistono soltanto gli abbozzi di uno scherzo; ciò che consentì l’ingresso trionfale dell'"Allegro moderato" e dell'"Andante con moto" in una tradizione esecutiva avviata in quel medesimo 1865 dallo stesso Herbeck a capo dell’orchestra della Società degli Amici della Musica di Vienna.
Se si considera che la fioritura della grande musica
strumentale da camera di Schubert è sostanzialmente posteriore alla "Sinfonia Incompiuta", e che questa si colloca nel pieno dell’estremo travaglio creativo di Beethoven intento a comporre la Nona Sinfonia e le ultime Sonate per pianoforte, si avrà l’esatta percezione dell’irnportanza stilistica di questo lavoro mirabile, la cui mitica bellezza fu subito acquisita tra le realtà indiscutibili di una fortuna critica schubertiana altrimenti non tanto pacifica. La radicale novità nei confronti di quella tradizione haydniana-primo-beethoveniana perseguita da Schubert nelle sue prime sei Sinfonie qui non potrebbe risultare più lampante. In entrambi i movimenti la forma-sonata, della quale il compositore si professa adepto indefettibile, viene affrontata in uno spirito di totale indipendenza da manierismi postclassici.
Il politematismo del quale è costituito l’incipit del
primo movimento (dove sono riconoscibili tre elementi motivici, rispettivamente affidati ai bassi, ai violini, a oboe e clarinetto) e il procedimento mediante il quale viene introdotto quasi ex abrupto il celebrato secondo episodio cantabile, sono realtà sonatistiche affatto inedite, basate non più sulla dinamica unidirezionale sprigionata dal tema e dalle sue potenzialità elaborative, ma su relazioni analogiche nelle quali entrano in gioco le componenti squisitamente romantiche, della memoria e del wandern, il vagare, anzi, girovagare. In virtù di esse, all`inizio dello sviluppo, dalla inesorabile lapidarietà del motivo scandito dai bassi potranno scaturire la disperata interrogazione di violini e viole e il “crescendo” che porterà al terrificante "fortissimo", dopo il quale la formula in contrattempo che nell'esposizione era servita da accompagnamento al secondo tema potrà riemergere tutta sola, nei flauti e clarinetti, come un nido vuoto trascinato dalla corrente dopo una bufera.
Discorso ben più complesso meriterebbe l'universo
armonico schubertiano che nei confronti con gl'illustri (e deterrenti) esempi concomitanti del classicismo viennese si colloca in termini di una geometria non euclidea. Nell'"Andante" il divagare modulante diviene ininterrotto fluttuare dell’anima, in intimo rapporto con l'acutissimo trascolorare del timbro orchestrale, giusta quella identificazione di suono e di accordo che sarà di Berlioz, Bizet e Debussy, come di Liszt, Wagner, Mahler e Schönberg, in una parola, della musica moderna.
Le sconvolgenti novità che nell'"Incompiuta" esco
no esaltate da un dettato di eccezionale concentrazione e concisione nella Sinfonia in do M D 944 potranno forse risultare circonfuse dall'imponenza abbagliante di un'opera che della Nona beethoveniana, nel frattempo sopravvenuta, riprende la monumentalità ma in termini di assoluta autonomia ed evitando ogni incursione di elementi estranei alla pura dimensione strumentale. Come tante altre musiche schubertiane, anche la "Grande" sinfonia in do maggiore rivedette la luce grazie alle ricerche condotte personalmente da Schumann presse Ferdinand Schubert, il fratello del compositore che custodiva l'autografo. Ancora Schumann ne farà oggetto di un memorabile saggio critico nel 1840, l'anno della sua pubblicazione, mentre sarà Mendelssohn ad imporla non senza difficoltà presso i sodalizi concertistici d`Europa.
Lo scandalo, in senso paolino, dell`avvento della
Sinfonia in do a un anno esatto dalla morte di Beethoven sta principalmente nell`aver investito e sommerso le ideali invenzioni dell`autore della Nona Sinfonia e della Sonata op. 106 per pianoforte di uno spessore, di un colore, di un sapore di realtà: si tratta di quella Natura schellinghiana, promanazione e prolungamento dell’Io, di fronte alla quale Beethoven aveva eretto il duro baluardo dell`Idea, del Messaggio. In Schubert tale ostacolo crolla, e il mondo diviene realtà rivelata senza mediazione alcuna. Il suono del corno che nel finale della "Pastorale" dava voce cosmica a un ideale di razionale armonia universale di cui l`uomo era centro e misura, nell`introduzionc al primo tempo della "Grande" assume la voce stessa delle Grandi Madri che stanno nel profondo, misteriose, suadenti e terrifiche.
La distruzione di ogni mediazione ideologica o sto
ricistica giustifica il ricorrente rifiorire di temi “folclorici”, ma di un folclore tutto immaginario o, come stupendamente spiega Adorno, di un “dialetto senza terra”, quello stesso della voce spettrale che sibila al Wanderer: “Là dove tu non sei, là è la felicità”. Tali motivi vengono disseminati da Schubert un po’ ovunque e con un’impudenza che sfiora la temerarietà occupano i luoghi meno deputati per riceverli. Passi per lo “Scherzo” e il relativo “Trio”: a che altro servirebbero al Nostro, scherzi e trii, se non per farvi fiorire struggenti Ländler? Ma secondi episodi motivici, come quelli dell'"Allegro ma non troppo" e del finale, vere plaghe liriche dilaganti con egoistica prevaricazione nel corpo sonatistico e per di più concepite su indugianti movenze di danza magiara, il primo, e su un ritmo divinamente sventato di marcia militare, il secondo, sono un’aperta provocazione alle leggi del sonatismo beethoveniano e all'ideale purezza e “dignità” dei suoi materiali tematici.
Come già nell’"Incompiuta", motivi così succosi e di per sé imperfettibili rivelano improvvise, insospettabili potenzialità di sviluppi, ordinati non tanto secondo il sistema di un’elaborazione tematica di tipo corrente (che pure sussiste come marginale e non sempre benefico pedaggio alla tradizione), quanto secondo quelle nuove sollecitazioni analogiche cui più sopra accennavamo. Così, la parte iniziale dello sviluppo del finale sarà interamente occupata da un isolato, meraviglioso episodio lirico fiorito da un breve frammento del secondo tema. Così, a metà dell'"Andante con moto", il nostalgico motivo di marcia (che ha il suo alter ego in quello rimpiattato nel cuore del Divertimento all'ungherese per pianoforte a quattro mani) assume gradatamente connotazioni tragicamente minacciose nell’inalterata scansione del suo ritmo, solo attraverso la mutazione dei parametri timbro, massa, armonia.
Proprio perché nella sua struttura ciclica, alta al rigerminare melodico e non condizionata da schemi sonatistici, tutto è pura meraviglia, questo momento centrale si presenta relativamente meno problematico, la cui fatale soavità dal sapore di morte sarà perdutamente perseguita dal Brahms giovane. Maturo, ultimo di una dirompente ricchezza sonora che non passerà inosservata a Schumann, Liszt, Bruckner e soprattutto Mahler è infine il linguaggio orchestrale, nel quale grandiose masse foniche d’urto si alternano a sensuali finezze cameristiche con un senso inedito del colore e delle sue peculiarità espressive.
Giovanni Carli Ballola