DG - 1 CD - 437 534-2 - (p) 1993

Ottorino RESPIGHI (1879-1936)






Fontane di Roma - Poema sinfonico
16' 20"
- 1. La fontana di Valle Giulia all'alba 4' 02"

- 2. La fontana del Tritone al mattino 2' 34"

- 3. La fontana di Trevi al meriggio 3' 38"

- 4. La fontana di Villa Medici al tramonto 6' 06"

Pini di Roma - Poema sinfonico
23' 22"
- 1. I pini di Villa Borghese 2' 51"

- 2. Pini presso una catacomba 7' 05"

- 3. I pini del Gianicolo 7' 15"

- 4. I pini della Via Appia *
6' 11"

Feste romane - Poema sinfonico
23' 21"
- 1. Circenses *
4' 51"

- 2. Il Giubileo *
6' 51"

- 3. L'Ottombrata 7' 56"

- 4. La Befana *
5' 43"





 
NEW YORK PHILHARMONIC
Johannes Geffert, organ *

Giuseppe SINOPOLI
 






Luogo e data di registrazione
Manhattan Center, New York (USA) - aprile 1991

Registrazione: live / studio
studio


Producer
Wolfgang Stengel

Tonmeister (Balance Engineer)

Helmut Burk

Editing
Stephan Flock


Prima Edizione LP
-

Prima Edizione CD
Deutsche Grammophon | 437 534-2 | LC 0173 | 1 CD - 65' 20" | (p) 1993 | DDD

Note
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IL TOTEM SONORO DEL NOSTRO TEMPO
Più che una partitura, un totem appunto. Buono per molti usi. Come ossessiva colonna sonora di gratuite (e presaghe) violenze metropolitane nell'Arancia meccanica di Stanley Kubrick. Come manifesto libertario fatto sventolare in occasioni e con significati diversi: in versione elettronica come sigla-inno dell’Unione Europea, in esecuzione mondovisiva come solenne consacrazione della caduta del Muro di Berlino, quando sotto la bacchetta di Leonard Bernstein orchestre e cori per la prima volta riuniti nel finale intonarono con sentimento mai più così fervido l’inno alla loro fratellanza riavuta. Per la circostanza sembra addirittura che i due termini ecumenici, etimologicamente omologhi di Freunde e Freude, “amici” e “gioia”, centrati dai facili versi dell’Inno di Schiller, non potessero sopportare il peso dell’emozione per la patria riconsegnata, e Freude venne sostituita nel canto dalla parola Freiheit - “libertà” appunto.
Cosa aggiungere all’agiografia esplicitamente chiamata dall’ultima Sinfonia di Beethoven? Che buona parte della mitologia in realtà fu frutto di incrostazioni successive, scaturitc anche dalla fama di intangibilità sinfonica dell’ordinale. Tra i grandi sinfonisti del futuro, soltanto Sciostakovic in tempi troppo adiacenti ai nostri per stupire avrebbe agilmente saltato lo steccato del numero nove, non arrestandosi davanti alla barriera storico-emotiva che aveva frenato Bruckner e rallentato l’impeto iconoclasta di Mahler. Ma la leggenda era scritta nel tessuto, e prima ancora nell'architettura priva di riscontri storici, della Sinfonia in re m.
Del resto l'aneddotisino, anticamera inevitabile della mitizzazionc, aveva avuto un terreno spalancato. Ne favorirono la fioritura in tempi lunghi, anzi lunghissimi, di elaboruzionc mentale prima che pratica: più di un anno di lavoro (tra il 1822 e il febbraio 1824), quasi otto di preparazione, poco meno di trenta d’incubazione. Quindi le cronache edificanti nate attorno alla prima esecuzione sotto la direzione dell’autore, il 7 maggio 1824 al Teatro di Porta Carinzia. In realtà il musicista, da anni in preda al silenzio ghiacciato della sua sordità, sedendo a fianco del maestro Ignaz Umlauf, s’era limitato a controllare con lo sguardo l'impegno degli orchestrali. La ripresa del disegno dei timpani nello scherzo (“Molto vivace”) fece scattare l’applauso del pubblico ed interruppe l’esecuzione: Beethoven venne fatto voltare dal contralto solista Caroline Unger in modo da ‘vedere’ l’entusiasmo degli spettatori che avevano accolto senza disagi questa sua provocatoria esplorazione al di là del repertorio c delle forme che lui stesso aveva fondato.
Andare oltre. Oltre la musica, oltre la pratica esecutiva e la concezione della separazione degli stili, oltre le regole del galateo sonatistico e della buona scuola armonica. Oltre il proprio tempo. L'andare oltre, aspirazione di ogni artista autentico, Beethoven l’aveva interpretato con metodica scienza.
Così scavalcare i limiti profilati poco prima pare essere quasi una nevrosi d’autore, esorcizzata nei decenni di isolamento e di sistematica autoanalisi formale e sintattica: una sorta di destino, insomma. Il cosiddetto ‘terzo stile’ beethoveniano, di cui questa monumentale partitura configura l’unico approdo sinfonico, è la rampa di lancio di tutta la musica del diciannovesimo secolo. Mettiamo accanto per analizzarle, ma basta ascoltare con discernimento oltre che con le orecchie, le ultime Sonate per pianoforte, la successione vertiginosa dei Quartetti per archi e le cinque grandi tele musicali che compongono il polittico catalogato come Sinfonia n. 9 in re m., op. 125: troveremo la risposta a qualsiasi interrogativo che riguardi il senso e il destino dell`avanguardia dei suoni. Con o senza implicazioni filosofico-ideologiche. Con o senza distruttive discussioni sul valore e la durata storica del linguaggio delle note. Il mito dell’artista Beethoven sempre in corsa con la storia nasce e si cementa in questo atteggiamento di sfida che pochi altri creatori hanno avuto la forza interiore di portare avanti con la medesima, sofferta ed intrepida, determinazione.
Non ci stupisce allora sapere che questa solenne cattedrale all`uomo e alla sua capacità di creare il futuro col pensiero Beethoven l’avesse portata con sé da almeno tre decenni. La vita per un progetto, quello di una “sinfonia con voci”, accarezzato già a ventidue anni: il giovane compositore era intenzionato a "musicare strofa per strofa l'Inno alla gioia". Lo scrive alla moglie di Schiller, Carlotta, il professore di diritto Fischenich nel gennaio 1793, aggiungendovi un profetico "m’attendo qualcosa di perfetto, perché egli è votato a tutto ciò che è grande e sublime". Il resto è storia. Seguì nel 1795 il lied Gegenliebe, “Amore reciproco", su testo di Gottfried August Bürger, il quale nell’ultima sezione presenta la melodia che risuonerà nella Fantasia in do m per pf., coro  e orch., op. 80 (1808) prima di trasmigrare nell’ultimo movimento della Nona Sinfonia. Altri indizi sono sparsi: alcuni versi dell'Inno alla gioia abbozzati in forma voce-pianoforte in un torso liederistico del 1798-99, e tessere tematiche di eterogenea derivazione balenate nel corso degli anni; l`Ouverture "Namensfeier" (“L'onomastico”), del 1815. ad esempio, contiene materiale melodico scritto nel 1812 per un pezzo sul testo schilleriano. Testimoni muti di questa lenta metamorfosi gli scarabocchi dei Quaderni di conversazione, tra cui compare schizzato nello stesso 1815-16 il disegno destinato a proliferare come scatto energico principale dello scherzo, e vengono tracciate - come furiosamente ispirate - suggestive didascalie: "sinfonia al principio soltanto quattro voci [...] con altre voci, e se possibile fare entrare man mano ogni altro strumento", oppure “Adagio cantico. Canto religioso per una Sinfonia negli antichi modi: Herr Gott dich loben wir (‘Signore Iddio, noi ti lodiamo’). Alleluja in un modo indipendente o come introduzione a una fuga. Forse in questo modo la seconda Sinfonia potrebbe essere caratterizzata con l’entrata delle voci nel finale o già nell’adagio. Decuplicare i violini dell’orchestra nell’ultimo movimento, nel qual caso le parti vocali poi entrano gradatamente. Nell’adagio come testo un mito greco o un cantico di chiesa, nell`allegro festa a Bacco” (1819).
Quest’ultima traccia ci porta all’estate 1822, quando Beethoven avrebbe confidato a Friedrich Rochlitz di essere impegnato su due progetti: una sinfonia 'regolare' per la Società Filarmonica di Londra ed un'altra 'tedesca' con intervento finale sulle parole di un antico corale. Pochi mesi dopo i due programmi confluirono nclla Sinfonia in re m. Accolta con qualche sospetto nell`olimpo del sinfonismo classico, a causa delle intemperanze espressive e delle stravaganze formali. la nuova partitura ci rende partecipi del sue meccanismo di violenta accelerazione linguistica soprattutto allo scoccnre fatale del quarto movimento. Quando lo sguardo al futuro pare fermarsi e invece sta soltanto consegnendo lo slancio risolutivo, la Nona s'ipenna in un riesame, in una rievocazione e ricostruzione del cammino fin lì percorso - forse da tutta la storia del genere-sinfonia - prima di penetrare con un gesto unico il suo e nostro tempo, perforando la corazza strumentale dell'orchestra, complice la voce umana. "Amici, non questi suoni", canta il basso. Il verso fu scritto da Beethoven, non da Schiller. Non poteva essere più chiaro.
Angelo Foletto