Roma tra fede e
potere nella Tosca
di Puccini
Hanno voja a cantà 'sti
libberali
E chiamacce retrogridi e
codini,
Basta a sintì la Tosca de
Puccini
Pe' dije che so' sbaji
madornali!
Che lavoro d'orchestra e de
violini,
Che motivi gustosi e
origginali!
Però li mezzi mejo, li più
fini
So' stati proprio quelli
crericali.
Puccini ch'è 'n artista, un
bon'amico, Pe' vede tutti
quanti entusiasmati,
Ha dovuto ricorre ar tempo
antico!
Li pezzi ch'ânno fatto più
impressione
Defatti, fijo mio, quali so'
stati?!
Tre: Campane, Te-Deum e
Pricissione!!
L’anonimo
autore di questo sonetto in
dialetto romanesco, apparso su La
vera Roma il 21 gennaio
1900, ben individua alcuni tra i
motivi centrali della Tosca
appena una settimana dopo il
debutto al Teatro Costanzi.
Puccini aveva già evocato in
modo affascinante la Parigi
degli artisti ne La Bohème,
e in numerose occasioni
successive, dal Giappone di Madama
Butterfly fino alla Cina
leggendaria di Turandot,
avrebbe dimostrato la sua
abilità sempre crescente
nell’usare mezzi musicali per
descrivere un ambiente in
funzione drammatica, ma in
nessuno di questi casi la
relazione fra il luogo dove
l’opera si svolge e le sorti dei
personaggi è così stretta come
in Tosca. La Roma
papalina ai primi dell’Ottocento
qui scrupolosamente ricreata non
si limita ad essere lo sfondo
per le azioni dei protagonisti,
ma contribuisce a motivare le
loro scelte e la loro ideologia.
Il
primo esempio dell'interazione
fra musica, personaggio e
ambiente avviene nelle battute
iniziali, a sipario ancora
abbassato, con l’anomala
successione discendente di tre
triadi maggiori, dalla tonica,
si bemolle, alla sensibile
abbassata, la bemolle - il primo
fra i tanti dotti riferimenti
alla chiesa di cui l'opera
abbonda - fino a che l'intera
orchestra piomba a tutta forza
sul quarto grado aumentato (mi
naturale). La sequenza è
estremamente violenta, e diverrà
in seguito l'immagine sonora del
barone Vitellio Scarpia, capo
della polizia romana. Ma prima
che tale identità venga
stabilita con precisione dal
testo, i tre accordi determinano
un clima d'inquietudine e
terrore - ulteriormente
accentuato dall'intervallo di
quarta aumentata fra la prima e
l'ultima tdade, il diabolus
in musica dei teorici
medievali - che si legherà
indissolubilmente alla prima
scena offerta allo spettatore,
l'interno della Chiesa di
Sant'Andrea della Valle, dove si
agita con affanno l’evaso
Angelotti.
L'improvviso
ingresso del sagrestano,
personaggio che, al limite della
caricatura, esprime opinioni
codine, oltre a introdurre un
umoristico diversivo, rafforza
la caratterizzazione del
sostrato "clericale" dell'opera.
L’unico vero contrasto, perciò,
è dato da Mario Cavaradossi,
esemplificato nella sua prima
aria “Recondita armonia”: in
coda ad essa il sagrestano lo
definisce “volterrian" (seguace
di Voltaire), termine che,
ripreso più tardi da Scarpia,
estrinseca il credo libertario
di estrazione illuministica che
unisce il pittore ad Angelotti.
Alla
sfera devozionale e romana
appartiene anche Floria Tosca,
amante di Cavaradossi e celebre
cantante, dunque prima donna al
quadrato, che giunge in scena
interrompendo sul nascere la
drammatica agnizione fra il
pittore ed Angelotti. Lo attesta
il mazzo di fiori con cui
intende farsi perdonare in
anticipo dalla Madonna la visita
all’amante per fissare
l'appuntamento serale, e
fors’anche le "peccata" durante
il loro ardente duetto d’amore.
Proprio la straripante
sensualità della protagonista,
di cui la gelosia è un
inevitabile corollario, si lega
a filo doppio al suo bigottismo.
Quando sarà uscita, Cavaradossi,
riprendendo il dialogo con
Angelotti, anticiperà il nucleo
drammatico dell'opera
rivelandogli che “È buona la mia
Tosca, ma credente / al
confessor nulla tiene
celato...”.
Questo
pregnante raccourci ci
mette anche in guardia circa il
pericoloso rapporto tra fede e
politica, poiché l’allusione al
confessore investe in modo
sottile e quasi diretto il
barone Scarpia quando il pittore
si sfoga eroicamente
descrivendone la figura come
quella di un “... Bigotto satiro
che affina / colle devote
pratiche la foia / libertina - e
strumento / al lascivo talento /
fa il confessore e il boia!” I
tre accordi dell’inizio
accompagnano ogni verso di
questo recitativo rafforzando
l'interazione dei molteplici
aspetti della personalità di
Scarpia, dalla violenza sessuale
alla frequentazione delle chiese
che comporta come conseguenza la
sua piena disponibilità a
sollecitare confessioni. Questa
associazione è inoltre una
fulminea sintesi delle
principali condizioni che
rendono possibile la trama di Tosca.
Da
questo punto fino alla fine
dell’atto, come ricorda
l’estensore del sonetto,
prevalgono i “mezzi crericali",
subito attuati col ritorno in
scena del sagrestano alla testa
di un nutrito gmppo di chierici.
Essi vengono a preparare il rito
solenne indetto nelle chiese per
festeggiare la presunta vittoria
delle truppe austriache, alleate
del papato, sopra le milizie di
Bonaparte a Marengo. Il connubio
tra mondanità, politica e fede è
siglato dalle campane, i cui
rintocchi sono una vera
pennellata di colore che ravviva
la danza festosamente
intrecciata dai bimbi e dal
sagrestano in attesa del “doppio
soldo”. Certamente non è baccano
degno di una chiesa, come
afferma ipocritamente
l’autoritario barone Scarpia
che, annunciato dai suoi tre
accordi, irrompe facendo cessare
il festino e mettendo tutti a
zittire nel terrore. Magistrale
coup de théâtre che
cambia radicalmente l’andamento
della parte restante dell’atto,
introducendo un clima di
pressioni e sospetti, e di
argute perfidie. La lunga attesa
del suo ingresso, più volte
annunciato dai tre accordi di
cui la partitura è disseminata e
che lo mantengono costantemente
al centro dell'azione, serve ad
accrescere l'interesse per la
sua figura - si pensi quali
risultati questa tecnica avrebbe
poi ottenuto nella prossima Butterfly,
ma soprattutto in Turandot
- e prova come Puccini abbia
fatto convergere su di lui la
drammaturgia musicale,
nonostante il dramma originale
di Sardou fosse una tipica pièce
da prima donna, com’era Sarah
Bernhardt per la quale fu
scritto nel 1887.
Le
campane tornano a suonare
durante il duetto fra il barone
e Tosca, tornata in chiesa per
comunicare all’amante la sua
indisponibilità per la serata. È
uno dei punti fondamentali per
la caratterizzazione dell’opera,
dato che il loro impiego
travalica il compito realistico
di segnalare l’inizio della
solenne cerimonia, per assumere
quello di simboleggiare
sonoramente il perbenismo
bigotto dei due personaggi,
celandone il desiderio erotico
pur mirante a diversi oggetti.
L’offerta dell’acqua benedetta
da parte del barone alla
cantante è significativa, anche
perchè viene dopo che egli ha
affermato, citando Otello, che
“per ridurre un geloso allo
sbaraglio / Jago ebbe un
fazzoletto ... ed io un
ventaglio".
Il
finale del primo atto è il punto
d'arrivo di questa precisa
strategia drammatica, che ha
ormai saldamente associato in un
unico campo semantico i concetti
di “romanità", fede bigotta,
ipocrisia, potere e corruzione.
Lo svolgersi di una funzione
solenne ha ovviamente valore in
sé come pittura sonora, e si sa
con quanto scrupolo Puccini si
fosse documentato onde
realizzare con precisione
l'effetto che si prefiggeva,
ottenendo dall’amico sacerdote
Pietro Panichelli il cantus
firmus del Te Deum
in uso nel rito romano (alio
modo), mentre per le
preghiere che precedono
l'intonazione collettiva
s’arrangiò invece combinando
qualche antifona. Fu inoltre
preciso nello sfruttare per
tutta la scena l’ossessivo
pedale inferiore ostinato delle
campane gravi come fossero
finalis (si bemolle) e corda di
recita (fa) gregoriane, su cui
si snoda, al tempo di “Largo
religioso”, la sinuosa melodia
di viole e celli. Riuscì così a
ricreare un colore liturgico
tramite l'allusione al
modalismo, conciliandolo con
armonie di settima e nona che
intorbidano l’impianto tonale
per determinare il clima più
adatto ad accogliere il sogno
erotico declamato da Scarpia.
Dopo aver mandato i suoi
scagnozzi dietro la gelosa Tosca
il barone si porta man mano
verso il proscenio. Le sue
riflessioni vengono dunque
rivolte al pubblico, mentre il
cardinale raggiunge l'altar
maggiore, accompagnato dalle
preghiere recitate dai fedeli e
dall’organo che si è aggiunto
all’orchestra. Entrambe le
situazioni crescono
parallelamente fino al
parossismo: il culmine viene
raggiunto quando Scarpia intona
una melodia cromatica, in un
sensuale clima armonico di
triadi aumentate, rivelando alla
fine il suo progetto verso la
coppia: “L‘uno al
capestro, l’altra fra le mie
braccia”. Per qualche istante
resta ancora in faccia al
pubblico, immobile, quasi
guardando nel vuoto, mentre
l‘assemblea intona a voce piena
il Te Deum. Infine si
scuote, come riavendosi da un
sogno, e s'inginocchia unendosi
ai fedeli nel canto dell’inno
più solenne della chiesa: la
riesposizione del cantus
firmus, sottolineata
all’unisono dagli ottoni in
scena e in buca e seguita dai
tre accordi di Scarpia, conclude
clamorosamente l’atto.
A livello simbolico siamo in
presenza di una tra le più
riuscite creazioni di tutto il
teatro musicale di Puccini, la
cui attenzione verso i minimi
dettagli del rito risulta ben
motivata e comprensibile: in tal
modo l’azione stessa si fa
simbolo, la perversione sessuale
di Scarpia s’imprime come
l’altro lato del suo bigottismo
ipocrita, ed entrambe sono
legate all'esercizio del potere
tramite lo sfondo ufficiale
della cerimonia, senza la quale
gli imbarazzanti propositi del
barone perderebbero gran parte
del loro senso. Difficile
sintetizzare meglio le
caratteristiche ufficiali della
romanità papale e politica:
dietro questo finale pucciniano
si avvertono i fantasmi dei
Borgia e dei Carafa, e di tutti
quelli che nel tempo hanno
continuato la loro tradizione.
Il
secondo atto s’apre con un
ritratto privato di Scarpia cui
tende tutta la struttura
musicale che precede l'ingresso
di Cavaradossi, organicamente
basata sui campi tonali
stabiliti dalla sequenza di
triadi del suo tema. La melodia
discendente del breve preludio
che accompagna la sua cena
gravita nell’area della
dominante di la maggiore (mi)
con accordi di tredicesima
(pedale di mi) e tonica (la) in
primo rivolto. Il realistico
inserto della musica in scena
proveniente dalla finestra fatta
spalancare da Scarpia, una
gavotta in re maggiore eseguita
da flauto, viola e arpa, oltre a
rendere più tangibile l’attesa
della diva, serve da spunto al
barone per la breve aria
seguente in la bemolle maggiore
dall’eloquente incipit
“Ha piu forte sapore la
conquista violenta del mellifluo
consenso". La brusca virata a mi
maggiore della parte centrale
(“Bramo ...") ripropone con
maggior forza l'immagine
dell’uomo di potere pronto a
realizzare il suo piano. Durante
l’interrogatorio di Cavaradossi,
da vero burattinaio, chiuderà
realisticamente la finestra
rimasta aperta, interrompendo la
cantata celebrativa dominata
dalla voce di Tosca; poi, dopo
che la diva s’è precipitata
nella stanza, ordinerà l`inizio
della tortura.
Tutta
la scena successiva è basata su
sonorità lancinanti, corte frasi
dei flauti, con viole e celli in
tessiture acute sulle prime
corde, e impegna in drastiche
contrapposizioni vocali soprano
e baritono. Il livello di
parossistica tensione che viene
raggiunto in questi frangenti
impone di valutare Tosca
in un ambito estetico quasi
espressionista. Neppure qui
Puccini perde di vista la
caratterizzazione clericale,
facendo recitare al luogotenente
di Scarpia, Spoletta, alcuni
versi del Dies irae.
Dopo
la confessione di Tosca sul
nascondiglio di Angelotti, viene
l'inutile accensione eroica di
Cavaradossi, poi lo scontro
erotico riprende per culminare
nella violenta e scoperta
dichiarazione di Scarpia ("Già
mi struggea l’amor della diva").
In questo tesissimo contesto il
richiamo dei tamburi militari,
pur frenando lo slancio del
barone, ricorda la scadenza
ricattatoria dell'esecuzione di
Cavaradossi, iinponendo in modo
decisivo la legge di Scarpia, ed
è a questo punto che il soprano
canta il “Vissi d'arte". È noto
come Puccini, dopo averlo
scritto, intendesse eliminarlo,
perché interrompe la continuità
dell'azione. Finì per lasciarlo
ed ebbe ragione, perchè
l’effetto di questo
lamento-preghiera è quello di
dilatare il tempo psicologico,
come se davanti agli occhi di
Tosca passasse in pochi istanti
tutta la sua vita. Ciò è reso
possibile dalla tecnica della
reminiscenza con cui il brano è
costruito. Dall'inizio
salmodiante, accompagnato da
triadi in primo rivolto che
richiamano la tecnica
chiesastica del faux bourdon,
fino alla sezione principale in
mi bemolle maggiore, che è la
ripresa della musica con cui la
donna era entrata in chiesa nel
primo atto, tutto ci parla di un
tempo cristallizzato, un istante
in cui si vorrebbe che il tempo
si fermasse per sempre.
Ma prima di cedere al ricatto,
la cantante si erge a
fronteggiare Scarpia fino a
sovrastarlo, costringendo
l’interprete a fare appello a
tutte le sue risorse di attrice.
Mentre il capo della polizia
compila il salvacondotto risuona
una tragica musica in fa diesis
minore, durante la quale Tosca
afferra il coltello dal tavolo,
poi la liberatoria uccisione del
barone causa ancora qualche
minuto di lacerante tensione
timbrica ad altissimo volume,
frasi smozzicate e acuti tesi al
limite del parlato, e se salva
Tosca dalla violenza sessuale
non la mette al riparo dalla sua
estroversa religiosità: l’atto
si chiude, infatti, con
un’azione pantomimica descritta
in partitura fin nel minimo
dettaglio. Dopo aver strappato
il salvacondotto dalle dita
raggrinzite del cadavere, Tosca,
colta da pietà cristiana,
ricompone la salma, serrandogli
un crocifisso tra le mani e
mettendogli due candelabri a
lato, accompagnata da una musica
rarefatta, in cui i tre
accordi del defunto barone
vengono ripetuti in progressione
fino a raggiungere nel breve
spazio di undici battute il
totale cromatico. Infine i rulli
di tamburo la riscuotono,
inducendola a precipitarsi verso
Castel Sant'Angelo per salvare
Mario. Questa scena di grande
effetto era stata prevista da
Sardou per la Bernhardt, e
l'aver scritto un breve
postludio per mantenerla
conferma la precisa volontà di
Puccini di rafforzare l'ambigua
presenza dell'elemento
clerical-religioso che è il
tratto distintivo dell’opera.
La
musica collega quasi senza
soluzione di continuità questo
finale all’inizio dell'atto
successivo, ambientato sulla
piattaforma di Castel
Sant’Angelo. Gran parte dello
stornello del pastore da fuori
scena è scritta in modo lidio,
alternato al mi maggiore, non
soltanto per ottenere una
connotazione popolaresca, ma per
suggerire un’ulteriore traccia
della presenza di Scarpia
tramite l`intervallo di quarta
aumentata nella melodia dopo che
la sequenza dei tre accordi è
riapparsa puntualinente a
ricordarci che egli ha già
deciso, prima di morire, la
sorte dei protagonisti. In tal
modo tutto questo scorcio si
associa al vero protagonista,
Scarpia appunto, che diviene
vessillifero anche del
successivo ritratto - il
risveglio mattutino della città
eterna, al suono delle sue mille
campane. Roma è simboleggiata da
questo pio conceito, il cui
effetto era stato
scrupolosamente preparato da
Puccini. Egli volle sperimentare
di persona l'atmosfera di
un’alba romana, e sulla scorta
delle impressioni riportate
impiegò campane a undici
differenti altezze dopo averne
individuato l'esatta
intonazione, salvo quella della
nota più grave prodotta dal
campanone di San Pietro (mi-1)
di cui fu informato tramite
Panichelli. La coincidenza fra
questa nota e l’ultima delle tre
triadi di Scarpia non dovrebbe
essere casuale, e in ogni caso
prova quanto stretto sia
l’intreccio fra il protagonista
maschile e l’atmosfera della
città.
Anche
per questo clima affascinante
l'addio alla vita di Cavaradossi
risulta più lancinante, ed è
forse il brano più
rappresentativo dell’arte di
Puccini, moderna e decadente, e
perciò aliena dall’eroismo delle
figure verdiane. Proprio contro
l'opinione di Verdi favorevole a
un inno latino ideato da Luigi
Illica, conosciuto durante una
lettura parigina del soggetto,
Puccini scelse il ricordo
sensuale ed effimero di una
notte d’amore per il congedo del
suo tenore. Atteggiamento
coerente, poiché proprio l’unico
personaggio autenticamente laico
dell’opera non poteva
richiamarsi ad altre religioni,
ad eroismi, o a nostalgie
romane, ma doveva prepararsi a
morire, dopo aver rifiutato il
sacerdote, con disperata
consapevolezza, quella stessa
che minava la sicurezza di tutti
gli uomini intelligenti e
moderni della sua epoca nei
confronti dei valori precedenti.
La
stessa coscienza di una morte
inevitabile ed imminente che
Cavaradossi mantiene, a nostro
avviso, anche di fronte al
salvacondotto sventolato da
Tosca, poiché, se si accetta la
logica con cui l’opera è
costruita, solo un credente può
prestar fede al suo confessore.
La musica fa quanto è in suo
potere, ed è molto, per
contraddire la sicurezza della
donna, e ancora la memoria dei
terribili momenti passati nel
secondo atto rende più teso il
suo racconto, fino a quel salto
al do acuto con cui la lama del
coltello guizza musicalmente
davanti ai nostri occhi.
Frammentario si fa poi il
dialogo, in un modernissimo
caleidoscopio di sensazioni
riflesso dalla musica, e più
forte la voglia di essere
liricamente consolato che il
pittore manifesta alla sua
amante nel loro ultimo duetto.
Ma ancora le onnipresenti
campane con i loro quattro
rintocchi ricordano il tempo
reale. Lo spazio per poche,
celeberrime battute nervose di
Tosca, poi l'ingresso del
plotone d'esecuzione per il
"simulato supplizio". La marcia
in sol maggiore che sorge in
orchestra, al tempo di "Largo
con gravità", accompagna lo
schieramento dei soldati e gli
ultimi gesti con ambigua ironia,
mentre le analogie con la musica
udita quando Scarpia vergava il
ssalvacondotto, e appena dopo la
sua morte, ci preannunciano con
logica implacabile che il povero
pittore non si rialzerà più.
L'ultima tragica gag
quando Mario stramazza a terra:
"Ecco un artista", prima che la
marcia risuoni fortissimo
accompagnando, come fosse una
processione, l'esodo dei
soldati. Infine la scena-simbolo
di tutta l'opera, quando Floria
si lancia dal bastione del
Castello e rende alla città il
suo corpo, dopo aver gridato "O
Scarpia, avanti a Dio". Solo in
questo momento, dopo che il
dramma politico e di bigottismo
si è concluso, la melodia
disperata dell'aria di
Cavaradossi può congedare
l'opera nel segno dell'amore
sensuale, unico valore certo e
reale.
Se in Tosca Puccini fece
assurgere qualsi al rango di
protagonista la Roma papalina
del primo Ottocento, nel
siciliano barone Scarpia che ne
incarna l'immagine all'interno
della costellazione dei
personaggi riuscì a fissare un
ritratto indelebile di questo
mondo bigotto e corrotto. Si sa
come la fonte di Puccini e dei
librettisti Illica e Giacosa, la
Tosca che Victorien
Sardou scrisse per la Bernhardt,
riflettesse l'abitudine del
drammaturgo francese di
reinventare la storia basandosi
su accadimenti reali. Ogni data
e ogni situazione ha dunque un
preciso referente e si pone come
momento credibile del passato
rivissuto artisticamente. Anche
su questa base l’opera rispetta
le unità aristoteliche
svolgendosi l’azione quasi in
tempo reeale, a partire dalla
recita dell’Angelus del
sagrestano a mezzogiorno, e
finendo alle quattro del mattino
successivo. È inoltre osservata
anche l`altra unità, quella di
spazio, dato che i luoghi dei
tre atti distano tra loro poche
centinaia di metri; il mattutino
del terzo atto e l’aria di
Cavaradossi durano quasi quanto
il tempo necessario alla
protagonista, se si trovasse a
Roma e non sulle tavole di un
palcoscenico, per coprire la
distanza che separa Palazzo
Farnese da Castel Sant’Angelo.
Ma la grandezza del lavoro di
Puccini è quella di sfruttare
questa precisione per arricchire
la narrazione, oltrepassando gli
angusti limiti di una recita
teatrale e di un tempo preciso.
Chiunque avesse redatto il
sonetto citato all’inizio
conosceva bene il lavoro di
ricerca compiuto dal musicista,
e sapeva anche a cosa servisse.
Tutto ci porta perciò a
convalidare l'opinione del
biografo Eugenio Gara che si
trattasse di Giggi Zanazzo, il
poeta romano che aveva
attivamente collaborato
stendendo il testo dello
stornello dialettale. Proprio
nella susseguente
rappresentazione del mattutino
Puccini raggiunse il culmine del
suo cogliere il vero mettendolo
al servizio dell’immaginazione
simbolica dello spettatore, e se
parte del valore delle opere
d’arte risiede nel fatto che si
pongano come strumenti per
interpretare il reale, allora
alla Tosca di Puccini
non si può assolutamente negare
il primato dell'aver saputo
rappresentare come nessun altro
lavoro l'autentico spirito di
Roma.
Forse
questo spietato ritratto, oltre
alla presenza di cricche
favorevoli a Mascagni, beniamino
del pubblico capitolino, fu
causa determinante di
consistenti contestazioni e
tumulti prima dell’inizio dello
spettacolo e nel corso della
serata. Ai vizi dei potenti
romani, artisticamente incarnati
dal barone Vitellio Scarpia, il
pubblico era talmente
affezionato da non desiderare
che venissero così palesemente
messi alla berlina.
Ma
ciò non valse ovviamente a
limitare il successo dell’opera,
che nel corso delle repliche si
affermò con inesauribile
vitalità, la stessa che mantiene
al giorno d’oggi. Ciò anche
perché, oltre alla ragione
precedentemente addotta, Puccini
perseguì fedelmente l'intento di
rappresentare una realtà, un
ambiente, dei personaggi,
mettendo la musica a servizio
del dramma e nel farlo, come
d’abitudine, aggiornò il proprio
linguaggio musicale. Tutta
l’invenzione tematica e
l'elaborazione dei motivi hanno
uno spazio più logico, febbrile
e sviluppato del solito, a
partire da un’economia e da un
razionale utilizzo del materiale
che prelude a realizzazioni
strutturali vieppiù ardite e si
pone come uno dei modi di
comporre più colti e avanzati
del suo tempo. Coniugare un
tipico teatro tardo-ottocentesco
come la pièce di Sardou
alla modernità linguistica, che
trovò ardenti estimatori in
Arnold Schönberg e Alban Berg e
un detrattore altrettanto
appassionato in Gustav Mahler, è
un altro degli aspetti di Tosca
che c’inducono a considerarla
come uno dei modi migliori, da
parte del più colto e
internazionale tra i nostri
compositori, di inaugurare il
nuovo secolo.
Michele
Girardi
La Trama
ATTO PRIMO
L'interbo della chiesa di S.
Andrea della Valle
Angelotti,
console della Repubblica Romana
sconfitta dalle truppe
borboniche, è stato catturato
dai monarchici. Scarpia, il
temuto capo della polizia, lo ha
rinchiuso nelle carceri di
Castel S. Angelo. Angelotti, che
è riuscito a fuggire di
prigione, entra nella chiesa e
si nasconde nella cappella di
famiglia dove la marchesa
Attavanti, sua sorella, ha
lasciato per lui quanto
necessario alla fuga.
Entra
in scena Cavaradossi. Nel
ritratto di Maria Maddalena che
il pittore sta portando a
termine lo scandalizzato
sagrestano riconosce la donna
misteriosa che da qualche tempo
si reca spesso in chiesa per
pregare (la marchesa Attavanti).
Cavaradossi riflette sulla
curiosa somiglianza, messa in
evidenza dal ritratto, tra la
sconosciuta e la donna che egli
ama, la cantante Tosca (Aria:
“Recondita armonia"). Angelotti,
amico di Caaaradossi, esce dalla
cappella e il pittore promette
di aiutarlo a mettersi in salvo.
Il
dialogo tra i due uomini viene
interrotto dai richiami
impazienti di Tosca che giungono
dall’esterno della chiesa
(“Mario! Mario!”). Angelotti si
nasconde nuovamente. Tosca,
donna estremamente gelosa, entra
in chiesa e Cavaradossi, dopo
aver fugato i suoi sospetti, le
da appuntamento per quella sera
stessa nella sua villa fuori
città. Non appena Tosca si è
allontanata Angelotti esce dalla
cappella, ma in quel momento un
colpo di cannone sparato da
Castel S. Angelo fa capire che
la sua fuga è stata scoperta. I
due uomini abbandonano in fretta
la chiesa e si dirigono verso la
villa di Cavaradossi.
Giunge
la notizia che l'esercito di
Napoleone è stato sconfitto. I
chierici e i cantori si
riuniscono per celebrare
l'avvenimento con un solenne Te
Deum. Improvvisamente fa
il suo ingresso Scarpia. Da
alcuni indizi il capo della
polizia capisce che Angelotti ha
appena lasciato la chiesa. Tosca
rientra per parlare con
Cavaradossi: l’appuntamento per
la sera è rimandato. La cantante
deve infatti partecipare al
concerto che si terrà a Palazzo
Farnese in presenza della regina
di Napoli per festeggiare la
supposta sconfitta di Napoleone.
Scarpia cerca di attizzare la
gelosia di Tosca facendole
notare il ventaglio che la
marchesa Attavanti ha “perduto"
in chiesa. Ciò desta e accresce
i sospetti di Tosca: la donna
corre Via piangendo decisa a
sorprendere il suo amante e la
marchesa Attavanti nella villa
di Cavaradossi. Scarpia ordina a
Spoletta, uno dei suoi agenti,
di seguirla di nascosto.
Risuonano le note del Te
Deum. Scarpia,
inginocchiato, ripensa ad alta
voce il piano diabolico che
dovrà portare Cavaradossi alla
morte e Tosca nelle sue braccia
(“Va’, Tosca!").
ATTO
SECONDO
La camera di Scarpia
a Palazzo Farnese
La
tavola è imbandita. Scarpia è
seduto, sta cenando. Rimugina
ancora i suoi sinistri disegni e
si abbandona a considerare la
sua natura sensuale (Aria “Ha
più forte sapore”). Cavaradossi,
catturato nella sua villa dagli
uomini di Scarpia, viene
condotto nella stanza. Scarpia
gli intima di rivelare il luogo
dove è nascosto Angelotti, ma
Cavaradossi nega di saper
qualcosa. Da una sala del
palazzo giungono le voci di
Tosca e del coro.
Messa
in allarme da un biglietto che
Scarpia le ha fatto recapitare
al termine della cantata, Tosca
entra nella stanza proprio
mentre Cavaradossi sta per
essere introdotto nella camera
della tortura. Inizialmente
anche la donna nega di conoscere
il nascondiglio di Angelotti,
ma, incapace di sopportare più a
lungo le urla strazianti del suo
amante, alfine lo rivela. La
tortura viene interrotta e
Cavaradossi viene riportato
nella stanza ormai privo di
sensi. In quel momento giunge la
notizia della vittoria di
Napoleone a Marengo: la
precedente notizia era dunque
falsa. Il pittore erompe in un
grido di vittoria, sancendo così
la sua condanna a morte come
traditore. Viene trascinato via
verso il luogo dell’esecuzione.
In
preda ad una profonda
disperazione Tosca chiede a
Scarpia quale sia il prezzo per
la salvezza di Cavaradossi.
Scarpia, ridendo cinicarnente,
le risponde che il prezzo e lei
stessa (Aria: “Già. Mi dicon
venal”). Tosca descrive la sua
natura profondamente religiosa
(Aria: “Vissi d’arte”) e quindi
implora la clemenza di Scarpia.
Giunge Spoletta raccontando che
Angelotti è stato trovato nella
villa di Cavaradossi, ma che ha
preferito togliersi la vita
piuttosto che finire nelle mani
di Scarpia. Quest'ultimo ordina
allora che il corpo del
traditore venga appeso alla
forca e aggiunge che la stessa
sorte attende ora Cavaradossi.
Tosca, sconvolta, fa capire a
Scarpia di esser disposta a
cedere al suo infame ricatto.
Scarpia, fingendo di mutare il
suo intento, ordina a Spoletta
di preparare una finta
esecuzione, “come avvenne con
Palmieri”. Dopo aver firmato un
salvacondotto per Tosca e per
Cavaradossi, si avvicina a Tosca
per ottenere il suo "premio", ma
la donna afferra un coltello
posato sulla tavola e lo pugnala
a morte.
ATTO
TERZO
Gli spalti di Castel
S. Angelo
Dopo
un breve preludio orchestrale un
coro di campane dalle chiese
vicine annuncia l’alba ormai
imminente. In lontananza si ode
il canto d’un pastore (“Io de’
sospiri").
Cavaradossi
viene condotto dalla sua cella
agli spalti e i suoi ricordi
tornano ancora una volta al suo
amore per Tosca (Aria: “E
lucevan le stelle”). La donna
giunge poco dopo, gli racconta
come potranno fuggire insieme e
come Scarpia abbia trovato, per
sua mano, la fine che meritava.
Poi spiega al suo amante come
simulare la caduta e la morte
durante la finta fucilazione. Il
plotone di esecuzione sale a
passo di marcia sulla
piattaforma, si allinea e apre
il fuoco.
Cavaradossi
cade a terra e i soldati si
allontanano marciando. Tosca
lascia trascorrere qualche
istante, poi chiama Cavaradossi
perchè si rialzi. Allarmata dal
suo silenzio, solleva il
mantello che i soldati avevano
gettato su di lui e si rende
conto del crudele inganno di
Scarpia. Nel frattempo
l’assassinio del capo della
polizia è stato scoperto.
Spoletta e i soldati corrono
verso la piattaforma per
arrestare Tosca. Ma la donna
sale sul parapetto e si lancia
verso la morte.
Mosco Carner
(Traduzione: Guido
Barbieri)
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