DG - 2 CDs - 431 775-2 - (p) 1992

DG - 1 CD - 437 547-2 - (p) 1992

Giacomo PUCCINI (1858-1924)






Tosca
121' 37"
Opera in tre atii di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal dramma di Victorien Sardou







Compact Disc 1
46' 17"
ATTO PRIMO
1. "Ah! Finalmente!" (Angelotti, Sagrestano, Cavaradossi) 5' 08"
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2. "Dammi i colori ... Recondita armonia di bellezze diverse!" (Cavaradossi, Sagrestano) 4' 29"

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3. "Gente là dentro!" (Cavaradossi, Angelotti, Tosca) 1' 12"
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4. "Mario! Mario! Mario!" (Tosca, Cavaradossi) 7' 24"

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5. "Ah, quegli occhi!" - "Qual occhio al mondo può star" (Tosca, Cavaradossi) 5' 34"
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6. "È buona la mia Tosca" (Cavaradossi, Angelotti, Sagrestano, Coro) 5' 22"

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7. "Un tal baccano in chiesa!" (Scarpia, Sagrestano, Spoletta) 4' 09"


8. "Tosca? Che non mi veda" (Scarpia, Tosca, Sagrestano) 2' 57"


9. "Ed io venivo a lui tutta dogliosa" (Tosca, Scarpia) 4' 58"


10. Finale I: "Tre sbirri, una carrozza" (Scarpia, Spoletta, Capitolo, Folla) 5' 02"


Compact Disc 2
75' 20"
ATTO SECONDO 1. "Tosca è un buon falco!" (Scarpia, Sciarrone) 3' 22"


2. "Ha più forte sapore" (Scarpia, Sciarrone, Spoletta) 2' 32"


3. "Meno male!" - "Egli è là" (Scarpia, Coro interno, Spoletta, Cavaradossi, Tosca) 2' 47"


4. "Ov'è Angelotti?" (Scarpia, Cavaradossi, Spoletta, Tosca) 2' 58"
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5. "Ed or fra noi parliam da buoni amici" (Scarpia, Tosca) 1' 06"
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6. "Sciarrone, che dice il Cavalier?" (Scarpia, Sciarrone, Tosca, Cavaradossi) 3' 27"


7. "Orsù, Tosca, parlate" (Scarpia, Tosca, Cavaradossi, Spoletta) 3' 49"
*

8. "Nel pozzo, nel giardino!" (Tosca, Scarpia, Sciarrone, Cavaradossi) 1' 42"


9. "Nel pozzo del giardino. Va', Spoletta!" (Scarpia, Cavaradossi, Tosca, Sciarrone) 4' 06"
*

10. "Se la giurata fede debbo tradir" (Scarpia, Tosca) 4' 24"


11. "Vissi d'arte, vissi d'amore" (Tosca, Scarpia) 3' 34"


12. "Vedi, le man giunte io stendo a te!" (Tosca, Scarpia, Spoletta) 3' 31"


13. "E qual via scegliete?" (Scarpia, Tosca) 7' 46"

ATTO TERZO 14. "Io de' sospiri te ne rimanno tanti" (Un pastore) 5' 47"


Le campane suonano mattutino



15. "Mario Cavaradossi? A voi" (Carceriere, Cavaradossi) 3' 44"


16. "E lucevan le stelle" (Cavaradossi) 4' 24"
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17. "Ah! Franchigia a Floria Tosca" (Cavaradossi, Tosca) 3' 03"
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18. "O dolci mani mansuete e pure" (Cavaradossi, Tosca) 5' 53"
*

19. "E non giungono" (Tosca, Cavaradossi, Carceriere) 2' 42"


20. "Come è lunga l'attesa!" (Tosca) 3' 03"
*

21. "Presto, su! Mario!" (Tosca, Spoletta, Sciarrone, Soldati) 1' 29"
*





 
Mirella FRENI, FLORIA TOSCA, celebre cantante CHORUS AND CHILDREN'S CHORUS OF THE ROYAL OPERA HOUSE, COVENT GARDEN
Placido DOMINGO, MARIO CAVARADOSSI, pitttore Robin Stapleton, Chorus Master
Samuel RAMEY, IL BARONE VITELLIO SCARPIA, capo della polizia PHILHARMONIA ORCHESTRA
Bryn TERFEL, CESARE ANGELOTTI, un prigioniero politico evaso Giuseppe SINOPOLI
Anthony LACIURA, SPOLETTA, agente di polizia Musical Assistance: Guido Guida
Angelo VECCIA, UN SAGRESTANO

Ralf LUKAS, SCIARRONE

Bryan SECOMBE, UN CARCERIERE

Lee TIERNAN, UN PASTORE

Un cardinale - Il giudice del fisco - Roberti, esecutore di Giustizia - Uno scrivano - Un ufficiale - Un sergente - Chierici, confratelli, allievi, cantori della Cappella, soldati, birri, dame, nobili, borghesi, popolo
 






Luogo e data di registrazione
All Saints' Church, Tooting, London (Gran Bretagna) - maggio 1990


Registrazione: live / studio
studio


Produced by
Wolfgang Stengel

Copruduction
Pål Christian Moe

Balance Engineer
Klaus Hiemann

Editing
Oliver Rogalla

Publishers
Ricordi, Milano

Prima Edizione LP
-

Prima Edizione CD
Deutsche Grammophon | 431 775-2 | LC 0173 | 2 CDs - 46' 17" & 75' 20" | (p) 1992 | DDD
Deutsche Grammophon | 437 547-2 | LC 0173 | 1 CD - 64' 19" | (p) 1992 | DDD | Highlights *


Note
-















Roma tra fede e potere nella Tosca di Puccini

Hanno voja a cantà 'sti libberali
E chiamacce retrogridi e codini,
Basta a sintì la Tosca de Puccini
Pe' dije che so' sbaji madornali!
Che lavoro d'orchestra e de violini,
Che motivi gustosi e origginali!
Però li mezzi mejo, li più fini
So' stati proprio quelli crericali.
Puccini ch'è 'n artista, un bon'amico, Pe' vede tutti quanti entusiasmati,
Ha dovuto ricorre ar tempo antico!
Li pezzi ch'ânno fatto più impressione
Defatti, fijo mio, quali so' stati?!
Tre: Campane, Te-Deum e Pricissione!!


L’anonimo autore di questo sonetto in dialetto romanesco, apparso su La vera Roma il 21 gennaio 1900, ben individua alcuni tra i motivi centrali della Tosca appena una settimana dopo il debutto al Teatro Costanzi. Puccini aveva già evocato in modo affascinante la Parigi degli artisti ne La Bohème, e in numerose occasioni successive, dal Giappone di Madama Butterfly fino alla Cina leggendaria di Turandot, avrebbe dimostrato la sua abilità sempre crescente nell’usare mezzi musicali per descrivere un ambiente in funzione drammatica, ma in nessuno di questi casi la relazione fra il luogo dove l’opera si svolge e le sorti dei personaggi è così stretta come in Tosca. La Roma papalina ai primi dell’Ottocento qui scrupolosamente ricreata non si limita ad essere lo sfondo per le azioni dei protagonisti, ma contribuisce a motivare le loro scelte e la loro ideologia.
Il primo esempio dell'interazione fra musica, personaggio e ambiente avviene nelle battute iniziali, a sipario ancora abbassato, con l’anomala successione discendente di tre triadi maggiori, dalla tonica, si bemolle, alla sensibile abbassata, la bemolle - il primo fra i tanti dotti riferimenti alla chiesa di cui l'opera abbonda - fino a che l'intera orchestra piomba a tutta forza sul quarto grado aumentato (mi naturale). La sequenza è estremamente violenta, e diverrà in seguito l'immagine sonora del barone Vitellio Scarpia, capo della polizia romana. Ma prima che tale identità venga stabilita con precisione dal testo, i tre accordi determinano un clima d'inquietudine e terrore - ulteriormente accentuato dall'intervallo di quarta aumentata fra la prima e l'ultima tdade, il diabolus in musica dei teorici medievali - che si legherà indissolubilmente alla prima scena offerta allo spettatore, l'interno della Chiesa di Sant'Andrea della Valle, dove si agita con affanno l’evaso Angelotti.
L'improvviso ingresso del sagrestano, personaggio che, al limite della caricatura, esprime opinioni codine, oltre a introdurre un umoristico diversivo, rafforza la caratterizzazione del sostrato "clericale" dell'opera. L’unico vero contrasto, perciò, è dato da Mario Cavaradossi, esemplificato nella sua prima aria “Recondita armonia”: in coda ad essa il sagrestano lo definisce “volterrian" (seguace di Voltaire), termine che, ripreso più tardi da Scarpia, estrinseca il credo libertario di estrazione illuministica che unisce il pittore ad Angelotti.
Alla sfera devozionale e romana appartiene anche Floria Tosca, amante di Cavaradossi e celebre cantante, dunque prima donna al quadrato, che giunge in scena interrompendo sul nascere la drammatica agnizione fra il pittore ed Angelotti. Lo attesta il mazzo di fiori con cui intende farsi perdonare in anticipo dalla Madonna la visita all’amante per fissare l'appuntamento serale, e fors’anche le "peccata" durante il loro ardente duetto d’amore. Proprio la straripante sensualità della protagonista, di cui la gelosia è un inevitabile corollario, si lega a filo doppio al suo bigottismo. Quando sarà uscita, Cavaradossi, riprendendo il dialogo con Angelotti, anticiperà il nucleo drammatico dell'opera rivelandogli che “È buona la mia Tosca, ma credente / al confessor nulla tiene celato...”.
Questo pregnante raccourci ci mette anche in guardia circa il pericoloso rapporto tra fede e politica, poiché l’allusione al confessore investe in modo sottile e quasi diretto il barone Scarpia quando il pittore si sfoga eroicamente descrivendone la figura come quella di un “... Bigotto satiro che affina / colle devote pratiche la foia / libertina - e strumento / al lascivo talento / fa il confessore e il boia!” I tre accordi dell’inizio accompagnano ogni verso di questo recitativo rafforzando l'interazione dei molteplici aspetti della personalità di Scarpia, dalla violenza sessuale alla frequentazione delle chiese che comporta come conseguenza la sua piena disponibilità a sollecitare confessioni. Questa associazione è inoltre una fulminea sintesi delle principali condizioni che rendono possibile la trama di Tosca.
Da questo punto fino alla fine dell’atto, come ricorda l’estensore del sonetto, prevalgono i “mezzi crericali", subito attuati col ritorno in scena del sagrestano alla testa di un nutrito gmppo di chierici. Essi vengono a preparare il rito solenne indetto nelle chiese per festeggiare la presunta vittoria delle truppe austriache, alleate del papato, sopra le milizie di Bonaparte a Marengo. Il connubio tra mondanità, politica e fede è siglato dalle campane, i cui rintocchi sono una vera pennellata di colore che ravviva la danza festosamente intrecciata dai bimbi e dal sagrestano in attesa del “doppio soldo”. Certamente non è baccano degno di una chiesa, come afferma ipocritamente l’autoritario barone Scarpia che, annunciato dai suoi tre accordi, irrompe facendo cessare il festino e mettendo tutti a zittire nel terrore. Magistrale coup de théâtre che cambia radicalmente l’andamento della parte restante dell’atto, introducendo un clima di pressioni e sospetti, e di argute perfidie. La lunga attesa del suo ingresso, più volte annunciato dai tre accordi di cui la partitura è disseminata e che lo mantengono costantemente al centro dell'azione, serve ad accrescere l'interesse per la sua figura - si pensi quali risultati questa tecnica avrebbe poi ottenuto nella prossima Butterfly, ma soprattutto in Turandot - e prova come Puccini abbia fatto convergere su di lui la drammaturgia musicale, nonostante il dramma originale di Sardou fosse una tipica pièce da prima donna, com’era Sarah Bernhardt per la quale fu scritto nel 1887.
Le campane tornano a suonare durante il duetto fra il barone e Tosca, tornata in chiesa per comunicare all’amante la sua indisponibilità per la serata. È uno dei punti fondamentali per la caratterizzazione dell’opera, dato che il loro impiego travalica il compito realistico di segnalare l’inizio della solenne cerimonia, per assumere quello di simboleggiare sonoramente il perbenismo bigotto dei due personaggi, celandone il desiderio erotico pur mirante a diversi oggetti. L’offerta dell’acqua benedetta da parte del barone alla cantante è significativa, anche perchè viene dopo che egli ha affermato, citando Otello, che “per ridurre un geloso allo sbaraglio / Jago ebbe un fazzoletto ... ed io un ventaglio".
Il finale del primo atto è il punto d'arrivo di questa precisa strategia drammatica, che ha ormai saldamente associato in un unico campo semantico i concetti di “romanità", fede bigotta, ipocrisia, potere e corruzione. Lo svolgersi di una funzione solenne ha ovviamente valore in sé come pittura sonora, e si sa con quanto scrupolo Puccini si fosse documentato onde realizzare con precisione l'effetto che si prefiggeva, ottenendo dall’amico sacerdote Pietro Panichelli il cantus firmus del Te Deum in uso nel rito romano (alio modo), mentre per le preghiere che precedono l'intonazione collettiva s’arrangiò invece combinando qualche antifona. Fu inoltre preciso nello sfruttare per tutta la scena l’ossessivo pedale inferiore ostinato delle campane gravi come fossero finalis (si bemolle) e corda di recita (fa) gregoriane, su cui si snoda, al tempo di “Largo religioso”, la sinuosa melodia di viole e celli. Riuscì così a ricreare un colore liturgico tramite l'allusione al modalismo, conciliandolo con armonie di settima e nona che intorbidano l’impianto tonale per determinare il clima più adatto ad accogliere il sogno erotico declamato da Scarpia. Dopo aver mandato i suoi scagnozzi dietro la gelosa Tosca il barone si porta man mano verso il proscenio. Le sue riflessioni vengono dunque rivolte al pubblico, mentre il cardinale raggiunge l'altar maggiore, accompagnato dalle preghiere recitate dai fedeli e dall’organo che si è aggiunto all’orchestra. Entrambe le situazioni crescono parallelamente fino al parossismo: il culmine viene raggiunto quando Scarpia intona una melodia cromatica, in un sensuale clima armonico di triadi aumentate, rivelando alla fine il suo progetto verso la coppia: “Luno al capestro, l’altra fra le mie braccia”. Per qualche istante resta ancora in faccia al pubblico, immobile, quasi guardando nel vuoto, mentre l‘assemblea intona a voce piena il Te Deum. Infine si scuote, come riavendosi da un sogno, e s'inginocchia unendosi ai fedeli nel canto dell’inno più solenne della chiesa: la riesposizione del cantus firmus, sottolineata all’unisono dagli ottoni in scena e in buca e seguita dai tre accordi di Scarpia, conclude clamorosamente l’atto.
A livello simbolico siamo in presenza di una tra le più riuscite creazioni di tutto il teatro musicale di Puccini, la cui attenzione verso i minimi dettagli del rito risulta ben motivata e comprensibile: in tal modo l’azione stessa si fa simbolo, la perversione sessuale di Scarpia s’imprime come l’altro lato del suo bigottismo ipocrita, ed entrambe sono legate all'esercizio del potere tramite lo sfondo ufficiale della cerimonia, senza la quale gli imbarazzanti propositi del barone perderebbero gran parte del loro senso. Difficile sintetizzare meglio le caratteristiche ufficiali della romanità papale e politica: dietro questo finale pucciniano si avvertono i fantasmi dei Borgia e dei Carafa, e di tutti quelli che nel tempo hanno continuato la loro tradizione.
Il secondo atto s’apre con un ritratto privato di Scarpia cui tende tutta la struttura musicale che precede l'ingresso di Cavaradossi, organicamente basata sui campi tonali stabiliti dalla sequenza di triadi del suo tema. La melodia discendente del breve preludio che accompagna la sua cena gravita nell’area della dominante di la maggiore (mi) con accordi di tredicesima (pedale di mi) e tonica (la) in primo rivolto. Il realistico inserto della musica in scena proveniente dalla finestra fatta spalancare da Scarpia, una gavotta in re maggiore eseguita da flauto, viola e arpa, oltre a rendere più tangibile l’attesa della diva, serve da spunto al barone per la breve aria seguente in la bemolle maggiore dall’eloquente incipit “Ha piu forte sapore la conquista violenta del mellifluo consenso". La brusca virata a mi maggiore della parte centrale (“Bramo ...") ripropone con maggior forza l'immagine dell’uomo di potere pronto a realizzare il suo piano. Durante l’interrogatorio di Cavaradossi, da vero burattinaio, chiuderà realisticamente la finestra rimasta aperta, interrompendo la cantata celebrativa dominata dalla voce di Tosca; poi, dopo che la diva s’è precipitata nella stanza, ordinerà l`inizio della tortura.
Tutta la scena successiva è basata su sonorità lancinanti, corte frasi dei flauti, con viole e celli in tessiture acute sulle prime corde, e impegna in drastiche contrapposizioni vocali soprano e baritono. Il livello di parossistica tensione che viene raggiunto in questi frangenti impone di valutare Tosca in un ambito estetico quasi espressionista. Neppure qui Puccini perde di vista la caratterizzazione clericale, facendo recitare al luogotenente di Scarpia, Spoletta, alcuni versi del Dies irae.
Dopo la confessione di Tosca sul nascondiglio di Angelotti, viene l'inutile accensione eroica di Cavaradossi, poi lo scontro erotico riprende per culminare nella violenta e scoperta dichiarazione di Scarpia ("Già mi struggea l’amor della diva"). In questo tesissimo contesto il richiamo dei tamburi militari, pur frenando lo slancio del barone, ricorda la scadenza ricattatoria dell'esecuzione di Cavaradossi, iinponendo in modo decisivo la legge di Scarpia, ed è a questo punto che il soprano canta il “Vissi d'arte". È noto come Puccini, dopo averlo scritto, intendesse eliminarlo, perché interrompe la continuità dell'azione. Finì per lasciarlo ed ebbe ragione, perchè l’effetto di questo lamento-preghiera è quello di dilatare il tempo psicologico, come se davanti agli occhi di Tosca passasse in pochi istanti tutta la sua vita. Ciò è reso possibile dalla tecnica della reminiscenza con cui il brano è costruito. Dall'inizio salmodiante, accompagnato da triadi in primo rivolto che richiamano la tecnica chiesastica del faux bourdon, fino alla sezione principale in mi bemolle maggiore, che è la ripresa della musica con cui la donna era entrata in chiesa nel primo atto, tutto ci parla di un tempo cristallizzato, un istante in cui si vorrebbe che il tempo si fermasse per sempre.
Ma prima di cedere al ricatto, la cantante si erge a fronteggiare Scarpia fino a sovrastarlo, costringendo l’interprete a fare appello a tutte le sue risorse di attrice. Mentre il capo della polizia compila il salvacondotto risuona una tragica musica in fa diesis minore, durante la quale Tosca afferra il coltello dal tavolo, poi la liberatoria uccisione del barone causa ancora qualche minuto di lacerante tensione timbrica ad altissimo volume, frasi smozzicate e acuti tesi al limite del parlato, e se salva Tosca dalla violenza sessuale non la mette al riparo dalla sua estroversa religiosità: l’atto si chiude, infatti, con un’azione pantomimica descritta in partitura fin nel minimo dettaglio. Dopo aver strappato il salvacondotto dalle dita raggrinzite del cadavere, Tosca, colta da pietà cristiana, ricompone la salma, serrandogli un crocifisso tra le mani e mettendogli due candelabri a lato, accompagnata da una musica rarefatta, in cui  i tre accordi del defunto barone vengono ripetuti in progressione fino a raggiungere nel breve spazio di undici battute il totale cromatico. Infine i rulli di tamburo la riscuotono, inducendola a precipitarsi verso Castel Sant'Angelo per salvare Mario. Questa scena di grande effetto era stata prevista da Sardou per la Bernhardt, e l'aver scritto un breve postludio per mantenerla conferma la precisa volontà di Puccini di rafforzare l'ambigua presenza dell'elemento clerical-religioso che è il tratto distintivo dell’opera.
La musica collega quasi senza soluzione di continuità questo finale all’inizio dell'atto successivo, ambientato sulla piattaforma di Castel Sant’Angelo. Gran parte dello stornello del pastore da fuori scena è scritta in modo lidio, alternato al mi maggiore, non soltanto per ottenere una connotazione popolaresca, ma per suggerire un’ulteriore traccia della presenza di Scarpia tramite l`intervallo di quarta aumentata nella melodia dopo che la sequenza dei tre accordi è riapparsa puntualinente a ricordarci che egli ha già deciso, prima di morire, la sorte dei protagonisti. In tal modo tutto questo scorcio si associa al vero protagonista, Scarpia appunto, che diviene vessillifero anche del successivo ritratto - il risveglio mattutino della città eterna, al suono delle sue mille campane. Roma è simboleggiata da questo pio conceito, il cui effetto era stato scrupolosamente preparato da Puccini. Egli volle sperimentare di persona l'atmosfera di un’alba romana, e sulla scorta delle impressioni riportate impiegò campane a undici differenti altezze dopo averne individuato l'esatta intonazione, salvo quella della nota più grave prodotta dal campanone di San Pietro (mi-1) di cui fu informato tramite Panichelli. La coincidenza fra questa nota e l’ultima delle tre triadi di Scarpia non dovrebbe essere casuale, e in ogni caso prova quanto stretto sia l’intreccio fra il protagonista maschile e l’atmosfera della città.
Anche per questo clima affascinante l'addio alla vita di Cavaradossi risulta più lancinante, ed è forse il brano più rappresentativo dell’arte di Puccini, moderna e decadente, e perciò aliena dall’eroismo delle figure verdiane. Proprio contro l'opinione di Verdi favorevole a un inno latino ideato da Luigi Illica, conosciuto durante una lettura parigina del soggetto, Puccini scelse il ricordo sensuale ed effimero di una notte d’amore per il congedo del suo tenore. Atteggiamento coerente, poiché proprio l’unico personaggio autenticamente laico dell’opera non poteva richiamarsi ad altre religioni, ad eroismi, o a nostalgie romane, ma doveva prepararsi a morire, dopo aver rifiutato il sacerdote, con disperata consapevolezza, quella stessa che minava la sicurezza di tutti gli uomini intelligenti e moderni della sua epoca nei confronti dei valori precedenti.
La stessa coscienza di una morte inevitabile ed imminente che Cavaradossi mantiene, a nostro avviso, anche di fronte al salvacondotto sventolato da Tosca, poiché, se si accetta la logica con cui l’opera è costruita, solo un credente può prestar fede al suo confessore. La musica fa quanto è in suo potere, ed è molto, per contraddire la sicurezza della donna, e ancora la memoria dei terribili momenti passati nel secondo atto rende più teso il suo racconto, fino a quel salto al do acuto con cui la lama del coltello guizza musicalmente davanti ai nostri occhi. Frammentario si fa poi il dialogo, in un modernissimo caleidoscopio di sensazioni riflesso dalla musica, e più forte la voglia di essere liricamente consolato che il pittore manifesta alla sua amante nel loro ultimo duetto. Ma ancora le onnipresenti campane con i loro quattro rintocchi ricordano il tempo reale. Lo spazio per poche, celeberrime battute nervose di Tosca, poi l'ingresso del plotone d'esecuzione per il "simulato supplizio". La marcia in sol maggiore che sorge in orchestra, al tempo di "Largo con gravità", accompagna lo schieramento dei soldati e gli ultimi gesti con ambigua ironia, mentre le analogie con la musica udita quando Scarpia vergava il ssalvacondotto, e appena dopo la sua morte, ci preannunciano con logica implacabile che il povero pittore non si rialzerà più.
L'ultima tragica gag quando Mario stramazza a terra: "Ecco un artista", prima che la marcia risuoni fortissimo accompagnando, come fosse una processione, l'esodo dei soldati. Infine la scena-simbolo di tutta l'opera, quando Floria si lancia dal bastione del Castello e rende alla città il suo corpo, dopo aver gridato "O Scarpia, avanti a Dio". Solo in questo momento, dopo che il dramma politico e di bigottismo si è concluso, la melodia disperata dell'aria di Cavaradossi può congedare l'opera nel segno dell'amore sensuale, unico valore certo e reale.
Se in Tosca Puccini fece assurgere qualsi al rango di protagonista la Roma papalina del primo Ottocento, nel siciliano barone Scarpia che ne incarna l'immagine all'interno della costellazione dei personaggi riuscì a fissare un ritratto indelebile di questo mondo bigotto e corrotto. Si sa come la fonte di Puccini e dei librettisti Illica e Giacosa, la Tosca che Victorien Sardou scrisse per la Bernhardt, riflettesse l'abitudine del drammaturgo francese di reinventare la storia basandosi su accadimenti reali. Ogni data e ogni situazione ha dunque un preciso referente e si pone come momento credibile del passato rivissuto artisticamente. Anche su questa base l’opera rispetta le unità aristoteliche svolgendosi l’azione quasi in tempo reeale, a partire dalla recita dell’Angelus del sagrestano a mezzogiorno, e finendo alle quattro del mattino successivo. È inoltre osservata anche l`altra unità, quella di spazio, dato che i luoghi dei tre atti distano tra loro poche centinaia di metri; il mattutino del terzo atto e l’aria di Cavaradossi durano quasi quanto il tempo necessario alla protagonista, se si trovasse a Roma e non sulle tavole di un palcoscenico, per coprire la distanza che separa Palazzo Farnese da Castel Sant’Angelo. Ma la grandezza del lavoro di Puccini è quella di sfruttare questa precisione per arricchire la narrazione, oltrepassando gli angusti limiti di una recita teatrale e di un tempo preciso. Chiunque avesse redatto il sonetto citato all’inizio conosceva bene il lavoro di ricerca compiuto dal musicista, e sapeva anche a cosa servisse. Tutto ci porta perciò a convalidare l'opinione del biografo Eugenio Gara che si trattasse di Giggi Zanazzo, il poeta romano che aveva attivamente collaborato stendendo il testo dello stornello dialettale. Proprio nella susseguente rappresentazione del mattutino Puccini raggiunse il culmine del suo cogliere il vero mettendolo al servizio dell’immaginazione simbolica dello spettatore, e se parte del valore delle opere d’arte risiede nel fatto che si pongano come strumenti per interpretare il reale, allora alla Tosca di Puccini non si può assolutamente negare il primato dell'aver saputo rappresentare come nessun altro lavoro l'autentico spirito di Roma.
Forse questo spietato ritratto, oltre alla presenza di cricche favorevoli a Mascagni, beniamino del pubblico capitolino, fu causa determinante di consistenti contestazioni e tumulti prima dell’inizio dello spettacolo e nel corso della serata. Ai vizi dei potenti romani, artisticamente incarnati dal barone Vitellio Scarpia, il pubblico era talmente affezionato da non desiderare che venissero così palesemente messi alla berlina.
Ma ciò non valse ovviamente a limitare il successo dell’opera, che nel corso delle repliche si affermò con inesauribile vitalità, la stessa che mantiene al giorno d’oggi. Ciò anche perché, oltre alla ragione precedentemente addotta, Puccini perseguì fedelmente l'intento di rappresentare una realtà, un ambiente, dei personaggi, mettendo la musica a servizio del dramma e nel farlo, come d’abitudine, aggiornò il proprio linguaggio musicale. Tutta l’invenzione tematica e l'elaborazione dei motivi hanno uno spazio più logico, febbrile e sviluppato del solito, a partire da un’economia e da un razionale utilizzo del materiale che prelude a realizzazioni strutturali vieppiù ardite e si pone come uno dei modi di comporre più colti e avanzati del suo tempo. Coniugare un tipico teatro tardo-ottocentesco come la pièce di Sardou alla modernità linguistica, che trovò ardenti estimatori in Arnold Schönberg e Alban Berg e un detrattore altrettanto appassionato in Gustav Mahler, è un altro degli aspetti di Tosca che c’inducono a considerarla come uno dei modi migliori, da parte del più colto e internazionale tra i nostri compositori, di inaugurare il nuovo secolo.
Michele Girardi
La Trama
ATTO PRIMO
L'interbo della chiesa di S. Andrea della Valle
Angelotti, console della Repubblica Romana sconfitta dalle truppe borboniche, è stato catturato dai monarchici. Scarpia, il temuto capo della polizia, lo ha rinchiuso nelle carceri di Castel S. Angelo. Angelotti, che è riuscito a fuggire di prigione, entra nella chiesa e si nasconde nella cappella di famiglia dove la marchesa Attavanti, sua sorella, ha lasciato per lui quanto necessario alla fuga.
Entra in scena Cavaradossi. Nel ritratto di Maria Maddalena che il pittore sta portando a termine lo scandalizzato sagrestano riconosce la donna misteriosa che da qualche tempo si reca spesso in chiesa per pregare (la marchesa Attavanti). Cavaradossi riflette sulla curiosa somiglianza, messa in evidenza dal ritratto, tra la sconosciuta e la donna che egli ama, la cantante Tosca (Aria: “Recondita armonia"). Angelotti, amico di Caaaradossi, esce dalla cappella e il pittore promette di aiutarlo a mettersi in salvo.
Il dialogo tra i due uomini viene interrotto dai richiami impazienti di Tosca che giungono dall’esterno della chiesa (“Mario! Mario!”). Angelotti si nasconde nuovamente. Tosca, donna estremamente gelosa, entra in chiesa e Cavaradossi, dopo aver fugato i suoi sospetti, le da appuntamento per quella sera stessa nella sua villa fuori città. Non appena Tosca si è allontanata Angelotti esce dalla cappella, ma in quel momento un colpo di cannone sparato da Castel S. Angelo fa capire che la sua fuga è stata scoperta. I due uomini abbandonano in fretta la chiesa e si dirigono verso la villa di Cavaradossi.
Giunge la notizia che l'esercito di Napoleone è stato sconfitto. I chierici e i cantori si riuniscono per celebrare l'avvenimento con un solenne Te Deum. Improvvisamente fa il suo ingresso Scarpia. Da alcuni indizi il capo della polizia capisce che Angelotti ha appena lasciato la chiesa. Tosca rientra per parlare con Cavaradossi: l’appuntamento per la sera è rimandato. La cantante deve infatti partecipare al concerto che si terrà a Palazzo Farnese in presenza della regina di Napoli per festeggiare la supposta sconfitta di Napoleone. Scarpia cerca di attizzare la gelosia di Tosca facendole notare il ventaglio che la marchesa Attavanti ha “perduto" in chiesa. Ciò desta e accresce i sospetti di Tosca: la donna corre Via piangendo decisa a sorprendere il suo amante e la marchesa Attavanti nella villa di Cavaradossi. Scarpia ordina a Spoletta, uno dei suoi agenti, di seguirla di nascosto. Risuonano le note del Te Deum. Scarpia, inginocchiato, ripensa ad alta voce il piano diabolico che dovrà portare Cavaradossi alla morte e Tosca nelle sue braccia (“Va’, Tosca!").
ATTO SECONDO
La camera di Scarpia a Palazzo Farnese
La tavola è imbandita. Scarpia è seduto, sta cenando. Rimugina ancora i suoi sinistri disegni e si abbandona a considerare la sua natura sensuale (Aria “Ha più forte sapore”). Cavaradossi, catturato nella sua villa dagli uomini di Scarpia, viene condotto nella stanza. Scarpia gli intima di rivelare il luogo dove è nascosto Angelotti, ma Cavaradossi nega di saper qualcosa. Da una sala del palazzo giungono le voci di Tosca e del coro.
Messa in allarme da un biglietto che Scarpia le ha fatto recapitare al termine della cantata, Tosca entra nella stanza proprio mentre Cavaradossi sta per essere introdotto nella camera della tortura. Inizialmente anche la donna nega di conoscere il nascondiglio di Angelotti, ma, incapace di sopportare più a lungo le urla strazianti del suo amante, alfine lo rivela. La tortura viene interrotta e Cavaradossi viene riportato nella stanza ormai privo di sensi. In quel momento giunge la notizia della vittoria di Napoleone a Marengo: la precedente notizia era dunque falsa. Il pittore erompe in un grido di vittoria, sancendo così la sua condanna a morte come traditore. Viene trascinato via verso il luogo dell’esecuzione.
In preda ad una profonda disperazione Tosca chiede a Scarpia quale sia il prezzo per la salvezza di Cavaradossi. Scarpia, ridendo cinicarnente, le risponde che il prezzo e lei stessa (Aria: “Già. Mi dicon venal”). Tosca descrive la sua natura profondamente religiosa (Aria: “Vissi d’arte”) e quindi implora la clemenza di Scarpia. Giunge Spoletta raccontando che Angelotti è stato trovato nella villa di Cavaradossi, ma che ha preferito togliersi la vita piuttosto che finire nelle mani di Scarpia. Quest'ultimo ordina allora che il corpo del traditore venga appeso alla forca e aggiunge che la stessa sorte attende ora Cavaradossi. Tosca, sconvolta, fa capire a Scarpia di esser disposta a cedere al suo infame ricatto. Scarpia, fingendo di mutare il suo intento, ordina a Spoletta di preparare una finta esecuzione, “come avvenne con Palmieri”. Dopo aver firmato un salvacondotto per Tosca e per Cavaradossi, si avvicina a Tosca per ottenere il suo "premio", ma la donna afferra un coltello posato sulla tavola e lo pugnala a morte.
ATTO TERZO
Gli spalti di Castel S. Angelo
Dopo un breve preludio orchestrale un coro di campane dalle chiese vicine annuncia l’alba ormai imminente. In lontananza si ode il canto d’un pastore (“Io de’ sospiri").
Cavaradossi viene condotto dalla sua cella agli spalti e i suoi ricordi tornano ancora una volta al suo amore per Tosca (Aria: “E lucevan le stelle”). La donna giunge poco dopo, gli racconta come potranno fuggire insieme e come Scarpia abbia trovato, per sua mano, la fine che meritava. Poi spiega al suo amante come simulare la caduta e la morte durante la finta fucilazione. Il plotone di esecuzione sale a passo di marcia sulla piattaforma, si allinea e apre il fuoco.
Cavaradossi cade a terra e i soldati si allontanano marciando. Tosca lascia trascorrere qualche istante, poi chiama Cavaradossi perchè si rialzi. Allarmata dal suo silenzio, solleva il mantello che i soldati avevano gettato su di lui e si rende conto del crudele inganno di Scarpia. Nel frattempo l’assassinio del capo della polizia è stato scoperto. Spoletta e i soldati corrono verso la piattaforma per arrestare Tosca. Ma la donna sale sul parapetto e si lancia verso la morte.
Mosco Carner
(Traduzione: Guido Barbieri)