Una
baudelairiana corrispondenza,
del tutto estranea al
descrittivismo pittorico, se
non in chiave evocativa e
atmosferica, esiste tra la
musica di Debussy e l’immagine
del mare. L’acqua come
metafora di ciò che non
possiede forma definita, di
cosa che disfa incessantemente
i propri contorni cancellando
ad ogni apparizione quella che
un istante prima l’ha
preceduta. Musica dove
l'inafferrabilità del simbolo
si propone come misura di una
disposizione poetica: tale,
l’intuizione di una marina
notturna, gonfia di sordi
presagi e screziata di luce
proveniente dall’alto, in una
scena del Pelléas (II,
3); tali, le alchimie
armoniche di Reflets dans
l’eau o le seduzioni
incantatrici di Sirènes,
complementari più che
anticipatrici di quelle cui il
trittico sinfonico La Mer
interamente si consacra.
In una
lettera del settembre 1903,
dei giorni dunque in cui
prende avvio il nuovo lavoro,
leggiamo di una
predestinazione mancata “Vous
ne saviez peut-être
pas que j’avais été promis a
la belle carriere de marin”;
ma più ci colpisce la
confessione “j’ai conservé une
passion sincère pour Elle [il
mare]”, e soprattutto la
frase, rivelatrice di un modo
d’intendere la natura
astraendo dalla materialità
delle forme, “j’ai
d’innombrables souvenirs; cela
vaut mieux à mon sens qu’une
réalité...”. L’elusività del
ricordo affermata, quindi, in
luogo di qualsiasi modello dei
sensi e ad onta dei titoli,
peraltro non più che allusivi,
posti in testa a ciascuno
delle tre Esquisses.
Portata a
termine in un tempo non breve,
che si protrae fino al marzo
del 1905, la partitura scopre
i segni di quella passione e
fissa i termini del rapporto
framusica e natura secondo
un’estetica di assoluta
originalità, che puntualmente
sconcerterà gli ascoltatori
dell’epoca. Essa contempla la
traduzione di quanto si offre
come vago, sfuggente e
inafferrabile, in un
linguaggio dotato della
massima definizione; la
rappresentazione
dell’inarticolato e
dell’indistinto mediante le
risorse di una sintassi
musicale ordinata con inedita
flessibilità, dal procedere
ellittico e privo di nessi
narrativi, non assoggettato ad
altra regola che al libero
gioco delle trasformazioni. La
raffigurazione dei moti,
dall’inarcarsi delle onde ai
capricci del vento, dagli
sprazzi d’acqua e di luce
all’incombere maestoso delle
minacce naturali, grazie allo
strumento principe di un
timbro di inaudita
individuazione e trasparenza,
lavorato con tale precisione
del dettaglio da escludere
ogni smagliatura attraverso
cui, come avrebbe detto
Cezanne, “l`émotion, la
lumière, la vérité s’échappe”.
Dei tre
movimenti, soltanto il primo De
l'aube à midi sur la mer
ammette una pacifica divisione
in sezioni, differenziate
ciascuna per la scelta del
metro, del tempo, della
tonalità e del contenuto
tematico: una Introduzione
(ove si annuncia il cosiddetto
motivo ciclico, tema modale
alla tromba con sordina e al
corno inglese, destinato a
ritornare anche nell’ultimo
brano), quindi due distinte
regioni centrali e infine una
Coda, che chiude in un
incedere solenne di corale. Le
invenzioni melodiche, di cui
l’intero lavoro si offre come
una vera miniera, spaziano
dall’inciso tematico
essenziale (l’appello che si
enuclea in pochi suoni
soltanto) alla frase ampia e
distesa, o al profilo
ripiegato nelle curve
dell’arabesco. A questa specie
tendono l’ondulato disegno dei
legni e la replica in
lontananza dei corni ad
apertura della prima regione,
mentre decisamente vi
appartiene, al principio della
regione successiva, la frase
stupenda dei violoncelli
divisi, nel suo snodarsi in un
sinuoso festone di terzine.
Del tutto
refrattario a ogni partizione
risulta invece il secondo
movimento, Jeux de vagues,
esercizio supremo di
frammentazione e di
divisionismo sintattico, in un
contesto strurnentale dove la
dislocazione spaziale dei
timbri garantisce a ciascun
evento una tersa e limpida
individualità. Da ammirare,
come alternativo alla tecnica
dello sfumato, l’innesto di
differenti frammenti quasi per
scorrimento reciproco, così
che uno ancora non si è
esaurito che già l’altro ha
avuto inizio. Si comprende qui
cosa intendesse Debussy con la
curiosa denominazione di Esquisses
apposta ai suoi tre brani: non
certo l’idea dell’abbozzo o
del non finito, ma la ricerca
di una forma erratica e
nascosta, non sovrapponibile
ad alcun modello.
Dialogue
du vent et de la mer è
costruito su frequenti ritorni
del materiale tematico
principale (di qui la traccia
di un rondò che alcuni hanno
voluto riconoscervi) e si
svolge, diversamente
dall’irrequietezza ritmica dei
primi due, su un metro
costante e uniforme. I suoi
furori atmosferici appaiono
animati dalla passione di
drammatici crescendo, svelano
cupe inquietudini e distese
melopee incantatrici. Nel
centro, in uno dei momenti più
consacrati al mistero che la
musica conosca, un pedale
grave dei contrabbassi e un
armonico dei violini sembrano
evocare, con il loro disporsi
agli estremi del campo sonoro,
uno spazio sconfinato (in
parte minima occupato dalla
arpe) mentre flauti e oboi
dispiegano nel canto il lungo
tema declinante del
ritornello. Questa illimitata
apertura all’infinito
sopravvive nei maestosi
accordi degli ottoni, prima
che l’agitata ripresa di
frammenti e di richiami
lontani conduca alle solenni
battute che, con superba
ampiezza di prospettive
sinfoniche, concludono il
lavoro.
*****
Secondo le estetiche
fondate sui concetti della
teoria dell’informazione,
esisterebbe una diretta
corrispondenza fra la capacità
che un’opera possiede di
generare sorprese e la
quantità di significato in
essa contenuta, tra
l'imprevedibilità dei modi in
cui si sviluppa e la sua
attitudine a suscitare
particolari esperienze emotive
e intellettuali.
In
quest’ottica il Bolero,
fra le musiche più popolari
che mai siano state composte,
sarebbe allo stesso tempo il
brano meno provvisto di senso
dell’intera letteratura
musicale. Quale carattere
d’incertezza sarebbe infatti
lecito concedere alle diciotto
ripetizioni di un
imperturbabile periodo di
sedici battute in do maggiore,
alternato a una più insinuante
contro-melodia d’identica
lunghezza (che sfiora appena,
senza mai affermarlo
chiaramente, il fa minore)? E
quale sorpresa potrebbe mai
promuovere una scansione
ritrnica condotta con
implacabile ostinazione dal
tamburo, o un’armonia che,
salvo alla fine, non abbandona
per un istante le maglie
inesorabili della tonalità di
do?
Ma in
un'analisi famosa, quale si
legge nel capitolo conclusivo
del suo “L’homme nu”, e volta
a dimostrare come la musica
assuma le strutture e le
funzioni del mito,
Lévi-Strauss ha chiarito
l’esistenza nel Bolero
di una fondamentale ambiguità,
proprio fra le due
caratterizzazioni così
elementari e regolari del
percorso melodico e della
struttura ritmica. Essa
consiste nella sfasatura fra
le divisioni binarie del
discorso musicale (melodia e
contro-melodia, consistenti
ciascuna in un tema e in una
risposta, ambedue di otto
battute) e il metro ternario
che lo scandisce.
Questa, e
altre più sottili opposizioni
che l’analisi della pagina
suggerisce (le sincopi
frequenti nella linearità
della melodia, il dualismo fra
il ritmo affidato al tamburo e
quello, sullo sfondo, del
pizzicato degli archi),
vengono risolte attraverso
l’unico parametro ancora non
coinvolto: la prospettiva
tirnbrica offerta dalle
differenti scelte strumentali
(ove si annoverano, fra la più
inconsuete, le voci di un oboe
d’amore, di un clarinetto
piccolo o di un sassofono
sopranino) e la crescente
intensità dinamica, fino al
culmine del pieno orchestrale.
Cos' il Bolero,
concepito nel 1928 per una
destinazione coreografica,
trae la sua ragion d’essere
anche in sede concertistica da
una sorta di sfida tra la sua
apparente immobilità e queste
minime, inquietanti
discrepanze che ne segnano la
costruzione. Ma più ancora
perché, nato si direbbe come
scommessa nei confronti del
divieto, ferreo quanto
gratuito, contro qualsiasi
sviluppo, il brano riesce a
caricare di un singolarissimo
significato la sola
“informazione” che sembra
trasrnettere: l’improvvisa
modulazione a mi maggiore che,
al vertice della tensione
accumulata per le ipnotiche
reiterazioni del tema, ci
solleva dalle sabbie mobili
del tono di do. Che questa
conclusione ci colga sempre di
sorpresa e non smetta di
strappare, al culmine di un
parossistico crescendo, un
liberatorio sospiro di
sollievo, è in fondo il segno
più sicuro che quella
scommessa è stata stravinta.
Daphnis
et Chloé, la più vasta
partitura orchestrale di Ravel
nasce su invito di Diaghilev
l’indomani del trionfale
debutto parigino dei Balletti
Russi. La proposta del
coreografo Fokine per una
versione degli amori pastorali
di Daphnis e Chloé, si ispira
a un romanzo greco
particolarmente ammirato dalle
arcadie settecentesche, e
scritto da Longo Sofista
(II/III secolo). Pur avendo
ottenuto subito alcune
modifiche allo svolimento
dell’azione, Ravel comincia a
lavorare senza molto
entusiasmo e con una lentezza
che ne protrarrà la
composizione, a partire dal
1909, per tre anni.
Sappiamo
da un breve schizzo
autobiografico come il suo
intento fosse di comporre “un
vasto affresco musicale, meno
preoccupato di arcaismi che di
fedeltà a una Grecia di sogno,
prossima a quella che gli
artisti francesi avevano
immaginato alla fine del
Settecento”. Se resta un
mistero cosa avessero in
comune i suoi sogni con il
neoclassicismo delle arti
figurative, il fatto di
parlare di un vasto affresco
musicale e soprattutto l’uso
che farà per la partitura del
titolo di “Sinfonia
coreografica”, dicono
apertamente di una aspirazione
a non sottomettersi alla
supremazia della danza. E in
effetti le pagine più ispirate
coincidono con i momenti in
cui l’azione si sospende, con
gli episodi che la musica sa
ritagliarsi all’interno
dell’esile vicenda. Quanto
all’altra affermazione
sull’assenza di arcaismi, è
vero che di greco non vi è in
tutto il lavoro che la parola
“Eoliphone” (a indicare una
curiosa macchina per imitare
il vento), mentre le
inflessioni modali che vi si
incontrano sono una componente
nativa della sua invenzione
melodica, già in evidenza
nella giovanile Habanera.
La
seconda delle due Suites
ricavate dal Balletto ci
riporta alla scena ai margini
di un bosco sacro fronteggiato
dalle arcaiche figure di
pietra di tre Ninfe, nel
momento in cui l’oscurità
della notte si dirada al
chiarore dell’alba. Il
mormorio della natura si fa
poesia di elemcnti inanimati e
di creature, cui una stupenda
melodia che nasce dalle
profondità dell’orchestra,
quasi volesse trarre la
propria linfa da un humus
sotterraneo, conferisce il
senso di una panteistica
commozione. Poi, il risveglio
di Daphnis vede riunita in un
abbraccio la giovane coppia
d’innamorati.
Il
secondo quadro è una pagina
d’incanto raffinato, con
l’episodio del vecchio pastore
Lammon che narra dell’amore di
Pan per la ninfa Syrinx: su
una preziosa trama orchestrale
lo strumento del dio (tanto
più casto del flauto
mallarmeano di Debyssy)
scioglie nei suoi vocalizzi
uno struggente fondo di
nostalgia, per lanciarsi
quindi in un gioco di festose
acrobazie. Autentico trionfo
di virtuosismo strurnentale è,
infine, l’ultima danza, un
dionisiaco baccanale che in
uno spigoloso metro di 5/4
solleva a esasperate ondate di
crescendo immense quantità di
suono. Prova suprema
dell’intelligenza di Ravel, se
si pensa che a questa immagine
di sfrenata festa pagana
concorre un lucidissimo
calcolo di equilibri e di
effetti orchestrali, frutto di
una lunga e meticolosa
elaborazione.
Ernesto
Napolitano
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