DG - 1 LP - 427 644-1 - (p) 1990
DG - 1 CD - 427 644-2 - (p) 1990

Maurice RAVEL (1875-1937) Bolero
14' 11"

- Tempo di bolero, moderato assai 14' 11"






Maurice RAVEL Daphnis et Chloé (Fragments symphoniques - 2eme série)

17' 49"

- Lever du jour: Lent 6' 28"


- Pantomime: Lent - Très lent - Vif - Très lent 6' 35"


- Lent - Animé: Danse générale 4' 56"






Claude DEBUSSY (1862-1918) La Mer (Trois esquisses symphoniques)
26' 15"

- I. De l'aube à midi sur la mer: Très lent - Modéré, sans lenteur - Un peu plus mouvementé (Très rythmé) - (En retenant peu à peu) Très lent 9' 48"


- II. Jeux de vagues: Allegro (dans un rythme très souple) - Animé 7' 31"


- III. Dialogue du vent et de la mer: Animé et tumultueux - Très animé 8' 56"






 
Kenneth SMITH, Solo flute (Daphnis et Chloé)

PHILHARMONIA ORCHESTRA
Giuseppe SINOPOLI
 






Luogo e data di registrazione
Watford Town Hall, London (Gran Bretagna) - agosto 1988

Registrazione: live / studio
studio

Executive Producer
Günther Breest

Recording Producer
Wolfgang Stengel

Balance Engineer
Klaus Hiemann

Publisher
Durand S.A., Paris


Prima Edizione LP
Deutsche Grammophon | 427 644-1 | LC 0173 | 1 LP - 58' 53" | (p) 1990 | Digital

Prima Edizione CD
Deutsche Grammophon | 427 644-2 | LC 0173 | 1 CD - 58' 53" | (p) 1990 | DDD


Note
-














Una baudelairiana corrispondenza, del tutto estranea al descrittivismo pittorico, se non in chiave evocativa e atmosferica, esiste tra la musica di Debussy e l’immagine del mare. L’acqua come metafora di ciò che non possiede forma definita, di cosa che disfa incessantemente i propri contorni cancellando ad ogni apparizione quella che un istante prima l’ha preceduta. Musica dove l'inafferrabilità del simbolo si propone come misura di una disposizione poetica: tale, l’intuizione di una marina notturna, gonfia di sordi presagi e screziata di luce proveniente dall’alto, in una scena del Pelléas (II, 3); tali, le alchimie armoniche di Reflets dans l’eau o le seduzioni incantatrici di Sirènes, complementari più che anticipatrici di quelle cui il trittico sinfonico La Mer interamente si consacra.
In una lettera del settembre 1903, dei giorni dunque in cui prende avvio il nuovo lavoro, leggiamo di una predestinazione mancata “Vous ne saviez peut-être
pas que j’avais été promis a la belle carriere de marin”; ma più ci colpisce la confessione “j’ai conservé une passion sincère pour Elle [il mare]”, e soprattutto la frase, rivelatrice di un modo d’intendere la natura astraendo dalla materialità delle forme, “j’ai d’innombrables souvenirs; cela vaut mieux à mon sens qu’une réalité...”. L’elusività del ricordo affermata, quindi, in luogo di qualsiasi modello dei sensi e ad onta dei titoli, peraltro non più che allusivi, posti in testa a ciascuno delle tre Esquisses.
Portata a termine in un tempo non breve, che si protrae fino al marzo del 1905, la partitura scopre i segni di quella passione e fissa i termini del rapporto framusica e natura secondo un’estetica di assoluta originalità, che puntualmente sconcerterà gli ascoltatori dell’epoca. Essa contempla la traduzione di quanto si offre come vago, sfuggente e inafferrabile, in un linguaggio dotato della massima definizione; la rappresentazione dell’inarticolato e dell’indistinto mediante le risorse di una sintassi musicale ordinata con inedita flessibilità, dal procedere ellittico e privo di nessi narrativi, non assoggettato ad altra regola che al libero gioco delle trasformazioni. La raffigurazione dei moti, dall’inarcarsi delle onde ai capricci del vento, dagli sprazzi d’acqua e di luce all’incombere maestoso delle minacce naturali, grazie allo strumento principe di un timbro di inaudita individuazione e trasparenza, lavorato con tale precisione del dettaglio da escludere ogni smagliatura attraverso cui, come avrebbe detto Cezanne, “l`émotion, la lumière, la vérité s’échappe”.
Dei tre movimenti, soltanto il primo De l'aube à midi sur la mer ammette una pacifica divisione in sezioni, differenziate ciascuna per la scelta del metro, del tempo, della tonalità e del contenuto tematico: una Introduzione (ove si annuncia il cosiddetto motivo ciclico, tema modale alla tromba con sordina e al corno inglese, destinato a ritornare anche nell’ultimo brano), quindi due distinte regioni centrali e infine una Coda, che chiude in un incedere solenne di corale. Le invenzioni melodiche, di cui l’intero lavoro si offre come una vera miniera, spaziano dall’inciso tematico essenziale (l’appello che si enuclea in pochi suoni soltanto) alla frase ampia e distesa, o al profilo ripiegato nelle curve dell’arabesco. A questa specie tendono l’ondulato disegno dei legni e la replica in lontananza dei corni ad apertura della prima regione, mentre decisamente vi appartiene, al principio della regione successiva, la frase stupenda dei violoncelli divisi, nel suo snodarsi in un sinuoso festone di terzine.
Del tutto refrattario a ogni partizione risulta invece il secondo movimento, Jeux de vagues, esercizio supremo di frammentazione e di divisionismo sintattico, in un contesto strurnentale dove la dislocazione spaziale dei timbri garantisce a ciascun evento una tersa e limpida individualità. Da ammirare, come alternativo alla tecnica dello sfumato, l’innesto di differenti frammenti quasi per scorrimento reciproco, così che uno ancora non si è esaurito che già l’altro ha avuto inizio. Si comprende qui cosa intendesse Debussy con la curiosa denominazione di Esquisses apposta ai suoi tre brani: non certo l’idea dell’abbozzo o del non finito, ma la ricerca di una forma erratica e nascosta, non sovrapponibile ad alcun modello.
Dialogue du vent et de la mer è costruito su frequenti ritorni del materiale tematico principale (di qui la traccia di un rondò che alcuni hanno voluto riconoscervi) e si svolge, diversamente dall’irrequietezza ritmica dei primi due, su un metro costante e uniforme. I suoi furori atmosferici appaiono animati dalla passione di drammatici crescendo, svelano cupe inquietudini e distese melopee incantatrici. Nel centro, in uno dei momenti più consacrati al mistero che la musica conosca, un pedale grave dei contrabbassi e un armonico dei violini sembrano evocare, con il loro disporsi agli estremi del campo sonoro, uno spazio sconfinato (in parte minima occupato dalla arpe) mentre flauti e oboi dispiegano nel canto il lungo tema declinante del ritornello. Questa illimitata apertura all’infinito sopravvive nei maestosi accordi degli ottoni, prima che l’agitata ripresa di frammenti e di richiami lontani conduca alle solenni battute che, con superba ampiezza di prospettive sinfoniche, concludono il lavoro.

*****
Secondo le estetiche fondate sui concetti della teoria dell’informazione, esisterebbe una diretta corrispondenza fra la capacità che un’opera possiede di generare sorprese e la quantità di significato in essa contenuta, tra l'imprevedibilità dei modi in cui si sviluppa e la sua attitudine a suscitare particolari esperienze emotive e intellettuali.
In quest’ottica il Bolero, fra le musiche più popolari che mai siano state composte, sarebbe allo stesso tempo il brano meno provvisto di senso dell’intera letteratura musicale. Quale carattere d’incertezza sarebbe infatti lecito concedere alle diciotto ripetizioni di un imperturbabile periodo di sedici battute in do maggiore, alternato a una più insinuante contro-melodia d’identica lunghezza (che sfiora appena, senza mai affermarlo chiaramente, il fa minore)? E quale sorpresa potrebbe mai promuovere una scansione ritrnica condotta con implacabile ostinazione dal tamburo, o un’armonia che, salvo alla fine, non abbandona per un istante le maglie inesorabili della tonalità di do?
Ma in un'analisi famosa, quale si legge nel capitolo conclusivo del suo “L’homme nu”, e volta a dimostrare come la musica assuma le strutture e le funzioni del mito, Lévi-Strauss ha chiarito l’esistenza nel Bolero di una fondamentale ambiguità, proprio fra le due caratterizzazioni così elementari e regolari del percorso melodico e della struttura ritmica. Essa consiste nella sfasatura fra le divisioni binarie del discorso musicale (melodia e contro-melodia, consistenti ciascuna in un tema e in una risposta, ambedue di otto battute) e il metro ternario che lo scandisce.
Questa, e altre più sottili opposizioni che l’analisi della pagina suggerisce (le sincopi frequenti nella linearità della melodia, il dualismo fra il ritmo affidato al tamburo e quello, sullo sfondo, del pizzicato degli archi), vengono risolte attraverso l’unico parametro ancora non coinvolto: la prospettiva tirnbrica offerta dalle differenti scelte strumentali (ove si annoverano, fra la più inconsuete, le voci di un oboe d’amore, di un clarinetto piccolo o di un sassofono sopranino) e la crescente intensità dinamica, fino al culmine del pieno orchestrale. Cos' il Bolero, concepito nel 1928 per una destinazione coreografica, trae la sua ragion d’essere anche in sede concertistica da una sorta di sfida tra la sua apparente immobilità e queste minime, inquietanti discrepanze che ne segnano la costruzione. Ma più ancora perché, nato si direbbe come scommessa nei confronti del divieto, ferreo quanto gratuito, contro qualsiasi sviluppo, il brano riesce a caricare di un singolarissimo significato la sola “informazione” che sembra trasrnettere: l’improvvisa modulazione a mi maggiore che, al vertice della tensione accumulata per le ipnotiche reiterazioni del tema, ci solleva dalle sabbie mobili del tono di do. Che questa conclusione ci colga sempre di sorpresa e non smetta di strappare, al culmine di un parossistico crescendo, un liberatorio sospiro di sollievo, è in fondo il segno più sicuro che quella scommessa è stata stravinta.
Daphnis et Chloé, la più vasta partitura orchestrale di Ravel nasce su invito di Diaghilev l’indomani del trionfale debutto parigino dei Balletti Russi. La proposta del coreografo Fokine per una versione degli amori pastorali di Daphnis e Chloé, si ispira a un romanzo greco particolarmente ammirato dalle arcadie settecentesche, e scritto da Longo Sofista (II/III secolo). Pur avendo ottenuto subito alcune modifiche allo svolimento dell’azione, Ravel comincia a lavorare senza molto entusiasmo e con una lentezza che ne protrarrà la composizione, a partire dal 1909, per tre anni.
Sappiamo da un breve schizzo autobiografico come il suo intento fosse di comporre “un vasto affresco musicale, meno preoccupato di arcaismi che di fedeltà a una Grecia di sogno, prossima a quella che gli artisti francesi avevano immaginato alla fine del Settecento”. Se resta un mistero cosa avessero in comune i suoi sogni con il neoclassicismo delle arti figurative, il fatto di parlare di un vasto affresco musicale e soprattutto l’uso che farà per la partitura del titolo di “Sinfonia coreografica”, dicono apertamente di una aspirazione a non sottomettersi alla supremazia della danza. E in effetti le pagine più ispirate coincidono con i momenti in cui l’azione si sospende, con gli episodi che la musica sa ritagliarsi all’interno dell’esile vicenda. Quanto all’altra affermazione sull’assenza di arcaismi, è vero che di greco non vi è in tutto il lavoro che la parola “Eoliphone” (a indicare una curiosa macchina per imitare il vento), mentre le inflessioni modali che vi si incontrano sono una componente nativa della sua invenzione melodica, già in evidenza nella giovanile Habanera.
La seconda delle due Suites ricavate dal Balletto ci riporta alla scena ai margini di un bosco sacro fronteggiato dalle arcaiche figure di pietra di tre Ninfe, nel momento in cui l’oscurità della notte si dirada al chiarore dell’alba. Il mormorio della natura si fa poesia di elemcnti inanimati e di creature, cui una stupenda melodia che nasce dalle profondità dell’orchestra, quasi volesse trarre la propria linfa da un humus sotterraneo, conferisce il senso di una panteistica commozione. Poi, il risveglio di Daphnis vede riunita in un abbraccio la giovane coppia d’innamorati.
Il secondo quadro è una pagina d’incanto raffinato, con l’episodio del vecchio pastore Lammon che narra dell’amore di Pan per la ninfa Syrinx: su una preziosa trama orchestrale lo strumento del dio (tanto più casto del flauto mallarmeano di Debyssy) scioglie nei suoi vocalizzi uno struggente fondo di nostalgia, per lanciarsi quindi in un gioco di festose acrobazie. Autentico trionfo di virtuosismo strurnentale è, infine, l’ultima danza, un dionisiaco baccanale che in uno spigoloso metro di 5/4 solleva a esasperate ondate di crescendo immense quantità di suono. Prova suprema dell’intelligenza di Ravel, se si pensa che a questa immagine di sfrenata festa pagana concorre un lucidissimo calcolo di equilibri e di effetti orchestrali, frutto di una lunga e meticolosa elaborazione.
Ernesto Napolitano