PHILIPS - 3 LPs - 427 625-1 - (p) 1989
PHILIPS - 3 CDs - 427 625-2 - (p) 1989

PHILIPS - 1 CD - 429 789-2 - (c) 1990

Richard WAGNER (1813-1883)






Tannhäuser
196' 14"
Versione di Parigi








Long Playing & Compact Disc 1
71' 13"


1. Ouverture 10' 50"
*
ERSTER AUFZUG Erste Szene
2. "Naht euch dem Strande" (Chor der Sirenen)
12' 05"

*

Zweite Szene 3. "Geliebter, sag? Wo weilt dein Sinn?" (Venus) 4' 53"



4. "Dit töne Lob! Die Wunder seiìn gepriesen" (Tannhäuser) 2' 47"




5. "Dank deiner Huld, gepriesen sei dein Lieben!" (Tannhäuser) 2' 55"



6. "Geliebter, komm! Sieh dort die Grotte" (Venus) 4' 16"




7. "Stets soll nur dir, nur dir mein Lied ertönen" (Tannhäuser) 1' 51"



8. "Zieh hin, Wahnbetörter, zieh hin!" (Venus) 9' 57"


Dritte Szene 9. "Frau Holda kam aus dem Berg hervor" (Hirt) 2' 40"



10. "Zu dir wall ich, mein Jesus Christ" (Pilgerchor) 7' 05"


Vierte Szene 11. "Wer ist der dort in brünstigem Gebete?" (Landgraf) 5' 22"



12. "Als du in kühnem Sange uns bestrittest" (Wolfram) 6' 30"



Long Playing & Compact Disc 2
70' 53"

ZWEITER AUFZUG Einleitung und Erste Szene 1. "Dich, teure Halle, grüß ich wieder" (Elisabeth) 5' 29"
*

Zweite Szene 2. "Dort ist sie; nahe dich ihr ungestört!" (Wolfram, Tannhàuser, Elisabeth) 8' 54"
*


3. "Gepriesen sei die Stunde" (Elisabeth, Tannhäuser) 4' 10"
*

Dritte Szene 4. "Dich treff ich hier in dieser Halle" (Landgraf) 4' 45"


Vierte Szene 5. "Freudig begrüßen wir die edle Halle" (Chor) 8' 43"
*


6. "Gar viel und schön ward hier in dieser Halle" (Landgraf) 6' 07"



7. "Blick ich umher in diesem edlen Kreise" (Wolfram) 4' 35"



8. "O Wolfram, der du also sangest" (Tannhäuser) 1' 59"



9. "Heraus zum Kampfe mit uns allen!" (Biterolf) 2' 01"



10. "O Himmel! Laß dich jetzt erflehen!" (Wolfram) 1' 58"



11. "Ha! Der Verruchte! Fliehet ihn!" (Tutti) 2' 18"



12. "Zurück von ihm! Nicht ihr seid seine Richter!" (Elisabeth) 7' 15"



13. "Zum Heil den Sündigen zu führen" (Tannhäuser) 4' 20"



14. "Ein furchtbares Verbrechen ward begangen" (Landgraf) 3' 39"



15. "Mit ihnen sollst du wallen" (Landgraf, Sänger, Chor der Ritten) 4' 40"



Long Playing & Compact Disc 3
54' 08"
DRITTER AUFZUG Einleitung 1. Pellegrinaggio di Tannhäuser 8' 37"


Erste Szene 2. "Wohl wußt' ich hier sie im Gebet zu finden" (Wolfram) 2' 53"



3. "Beglückt darf nun dich, o Heimat, ich schauen" (Pilgerchor) 5' 34"



4. "Allmächt' ge Jungfrau! Hör mein Flehen!" (Gebet der Elisabeth) 9' 33"


Zweite Szene 5. "Wie Todesahnung Dämmrung deckt die Lande" (Wolfram) 1' 35"
*


6. "O du mein holder Abendstern" (Wolfram) 3' 01"
*

Dritte Szene 7. "Ich hörte Harfenschlag, wie klang er traurig!" (Tannhäuser) 4' 29"
*


8. "Inbrunst im Herzen, wie kein Büßer noch" (Tannhäusers Erzählung) 8' 42"
*


9. "Dahin zug's mich, wo ich der Wonn und Lust" (Tannhäuser) 2' 20"
*


10. "Willkommen, ungetreuer Mann!" (Venus) 4' 39"
*


11. "Heil! Heil! Der Gnade Wunder Heil!" (Die jüngeren Pilger) 2' 45"
*






 
Matti SALMINEN, HERMANN, Landgraf von Thüringen CHORUS OF THE ROYAL OPERA HOUSE, COVENT GARDEN
Placido DOMINGO, TANNHÄUSER Norbert Balatsch, Chorus master
Andreas SCHMIDT, WOLFRAM VON ESCHENBACH PHILHARMONIA ORCHESTRA

William PELL, WALTHER VON DER VOGELWEIDE Giuseppe SINOPOLI
Kurt RYDL, BITEROLF Conductor's Assitant: Guido Guida
Clemens BIEBER, HEINRICH DER SCHREIBER

Oskar HILLEBRANDT, REINMAR VON ZWETER

Cheryl STUDER, ELISABETH, Nichte des Landgrafen

Agnes BALTSA, VENUS

Barbara BONNEY, EIN JUNGER HIRT

Vier Edelknaben

Margaret STOBART, Jeanette WILSON, Ingrid BAIER, Karen SHELBY
 






Luogo e data di registrazione
Watford Town Hall, London (Gran Bretagna) - aprile/maggio/giugno 1988

Registrazione: live / studio
studio


Executive Producers
Günther Breesy, Wolfgang Stengel

Co-producer
Claudia Hamann

Recording Producer
Wolfgang Stengel

Balance Engineer

Klaus Hiemann

Prima Edizione LP
Deutsche Grammophon | 427 625-1 | 3 LPs - 71' 13", 70' 53" & 54' 08" | (p) 1989 | Digital


Prima Edizione CD
Deutsche Grammophon | 427 625-2 | 3 CDs - 71' 13", 70' 53" & 54' 08" | (p) 1989 | DDD
Deutsche Grammophon | 429 789-2 | 1 CD - 55' 58" | (c) 1990 | DDD | Highlights *


Note
-















Il "Tannhäuser": Un caso limite di ricerca teatrale
Wagner aveva ventotto anni quando s’incontrö la prima volta con la materia composita del Tannhäuser, sul finire del 1841 durante il primo soggiorno parigino; l’opera venne alla luce secondo i passaggi tipici della creativitä wagneriana: abbozzo in prosa del dramma giä nell’estate del 1842, elaborazione del testo poetico nel 1843, composizione musicale conclusa nell’aprile del 1845, in vista della prima esecuzione al Teatro di corte di Dresda il 19 ottobre dello stesso 1845. Il quinquennio che assiste alla gestazione della prima versione dell’opera fu tra i più densi e decisivi della biografia artistica di Wagner: abbandono di Parigi, trionfo di Rienzi all’Opera di Dresda nell’ottobre del 1842, nomina a Kapellmeister di corte nella stessa città sassone: un impegno che assorbì molte energie del compositore e che trova nella direzione dell’Armida di Gluck (1843), con Wilhelmine Schröder-Devrient protagonista, e della Nona Sinfonia di Beethoven (domenica delle Palme del 1846) alcuni dei suoi momenti culminanti. Intanto, nel gennaio del 1843, era andato in scena L’Olandese volante, con accoglienze contrastate, le stesse che seguirono alla prima del Tannhäuser, a testimonianza, dopo il trionfo unanime del Rienzi, delle tensioni e polemiche connesse con la fondazione di un teatro musicale tedesco. Un travaglio che il Tannhäuser mostra con piena evidenza, anche nella vicenda delle sue trasformazioni; in un certo senso, l’opera non fu mai condotta a termine: già a Dresda, nella ripresa del 1847, Wagner modificò il finale per aumentarne la presa teatrale e scenica; nel 1860-61, per l’allestimento a Parigi, Wagner riscrisse quasi del tutto le due prime scene e ritoccò alcuni episodi della disfida dei cantori; e nel 1883, poco prima della morte, disse a Cosima di “essere ancora debitore al mondo del suo Tannhäuser”: certo, ogni volta che Wagner riprendeva in mano un suo lavoro, ritoccava, rifaceva e trasformava; ma il Tannhäuser è un caso limite di ricerca teatrale, di coscienza poetica in via di definizione a contatto con problemi di equilibrio immanenti già nella primitiva concezione dell’opera.
A fondamento della quale stanno due elementi narrativi: la tenzone dei cantori sulla Wartburg, testo risalerite alla metà circa del secolo XIII, raccolto nelle saghe dei fratelli Grimm e utilizzato anche da Hoffmann nei Fratelli di Serapione, e la leggenda di Tannhäuser, tramandata in varie raccolte di poesia popolare, fra cui il celebre Corno magico del fanciullo di Arnim e Brentano (essa pure sfruttata nella produzione letteraria più vicina a Wagner da Tieck, Uhland e Heine); dalla prima si va ai Maestri cantori di Norimberga, con il tema dei generi poetici e dei circoli chiusi che si misurano in gare di poesia, con la figlia del personaggio più autorevole quale premio; dalla seconda si va al Parsifal attraverso il Tristano e Isotta, con la leggenda della liberazione del cantore dal dominio di “Frau Venus” e della montagna incantata attraverso un pellegrinaggio di purificazione. Ma nella materia di queste due leggende, Wagner introduce poi un terzo e decisivo reagente, frutto peculiare del suo universo creativo: il tema della redenzione d’amore dopo il peccato sensuale, dopo la devastazione dell'amour coupable; il peccato, nel Tannhäuser sontuosamente presente nella grotta di Venere, nel Parsifal è sullo sfondo, ma non meno pungente nella ferita di Amfortas; tuttavia, per la sua assoluzione non sarà sufficiente la grazia del Venerdì Santo, ma, secondo le crude leggi delle fosche ballate nordiche, come nell’Olandese volante, richiederà l’incondizionato sacrificio riparatore di una vita umana.
Si può dire che tutto il nucleo drammatico del Tannhäuser sia racchiuso nelle parole che Elisabeth, in una scena capitale del secondo atto, rivolge ai cantori e ai cavalieri che vorrebbero condannare a morte Tannhäuser come reo confesso di connubio con Venere: “L’infelice, che un incantesimo assai potente tiene prigioniero, non potrebbe forse raggiungere la salvezza con l’espiazione e la penitenza in questo mondo?” Elisabeth si considera presago strumento di salvezza, e preannuncia le sue parole come ispirate dalla “volontà di Dio”: lì è il nodo del dramma, nel rapporto che lega Tannhäuser ed Elisabeth, un rapporto già fissato in partenza e non passibile di modificazioni o sviluppi: basta il nome di Elisabeth, pronunciato da Wolfram, perché Tannhäuser si diriga verso la Wartburg all’inizio della vicenda, così come basterà, nell’ultimo atto, lo stesso nome per fugare le seduzioni di Venere e redimere l’anima del cantore: per Tannhäuser, Elisabeth non è una donna da amare, ma una formula magica, un segno di croce che decide la sua sorte (proprio come il nome di “Maria”, madre di Dio, nella scena seconda del primo atto farà precipitare e scomparire lo scenario del Venusberg); anche per Elisabeth, Tannhäuser non è un uomo da amare, ma un’anima da salvare, una idea cui consacrarsi, fino ad allontanare da sé la condizione stessa dell’amore, cioè la vita.
La soppressione della materia amorosa fra i due protagonisti era già un fatto rivoluzionario per le abitudini dell’opera in musica; ma ancora più audace dovette sembrare il suo recupero, in chiave erotica, nel rapporto fra Tannhäuser e la dea Venere: la prorompente energia (non esente, come è stato spesso osservato, da una certa dozzinale esuberanza) con cui Tannhäuser inneggia alle delizie dell’antro di Venere, rispetto alle pruderies di metà ottocento fa pensare all’effetto, nello stesso solido senso di appagamento, prodotto dalle Elegie romane di Goethe di fronte alla poesia amorosa degli anni Novanta del Settecento, intrisa di attenuazioni e crepuscolarismi preromantici. E tale tematica doveva poi ricevere un ulteriore, decisivo incentivo all’epoca dell’allestimento del Tannhäuser a Parigi, città che una lunga tradizione si compiaceva di mettere in rapporto con occasioni e suggestioni erotiche.
Wagner ricevette nel 1860 l'offerta di Napoleone III per allestire Tannhäuser all'Opera, certo anche per l'influenza esercitata sull'imperatore dalla principessa Metternich, moglie dell'ambasciatore austriaco e grande protettrice del compositore; il quale già nei primi mesi del 1860 diresse nella capitale francese tre concerti di musiche proprie al Théâtre Italien, innescando forti avversioni, in gran parte dovute a motivi politici, ma altrettanto forti entusiasmi nel mondo artistico e letterario, e completò quindi il lavoro di revisione dell'opera alla fine del gennaio 1861. Charles Nuitter aveva intanto tradotto l’opera in versi francesi, sotto l’occhio vigile di Wagner, e nello stesso 1860 era pure apparsa una traduzione in prosa a cura di P.A. Challemel-Lacour. Dopo 164 prove, il Tannhäuser “parigino” andòo finalmente in scena il 13, 18 e 24 marzo 1861, con esito, come si sa, disastroso, tanto che Wagner ritirò il lavoro dopo la terza rappresentazione; all'ostilità più accanita, montata sopra tutto dai soci del Jockey Club come dimostrazione contro la principessa Metternich, rispose l’entusiasmo di un ascoltatore come Baudelaire che scrisse un celebre articolo in difesa di Wagner sulla “Revue européenne” del primo aprile 1861. Partì di qui quel flusso di sensibilità e cultura, quel polline simbolista che si irradierà su tutto il panorama del secondo Ottocento e senza il quale Baudelaire, Proust, Renoir, Valéry, Debussy, Pierre Louys e Péguy non sarebbero stati quelli che furono.
L’apporto nuovo messo in atto da Wagner nella Versione parigina del Tannhäuser si compendia essenzialmente nelle due prime scene del primo atto, cioè la scena del Venusberg, nella soppressione dell’intervento di Walther von der Vogelweide durante la gara di canto nell’atto secondo, e nell'aggiunta di alcune battute di raccordo qua e là nel corso dell’opera; tutti questi carnbiamenti, più altri interventi sull’orchestrazione, furono mantenuti quando l'opera, ritradotta in lingua tedesca, fu allestita a Monaco ne 1867. L'intervento maggiore, quello del Venusberg, non è solo rilevante per la lunghezza, che raddoppia l’estensione della prima versione, per l’impegno richiesto al corpo di ballo durante il Baccanale (il maître de ballet dell'Opéra, Petipa, stentava a realizzare quell’audacia e novità di atteggiamenti che Wagner e la musica osée del Baccanale richiedevano), ma sopra tutto per la diversa qualità dell’invenzione e della scrittura musicale: sulla quale, e con questo si dice tutto, si stende ormai l’esperienza compositiva del Tristano e Isotta. Il salto stilistico, quasi vent’anni dopo la versione di Dresda, non poteva non creare nuovi problemi di coerenza che venivano ad aggiungersi alla eterogeneità di fondo già presente nella prima concezione; e non sono mancate severe critiche all’equilibrio generale, che facevano leva proprio sulla superiorità indiscutibile delle parti composte nel 1860-61; ma proprio su questo dissidio stilistico, in anni recenti, Carl Dahlaus ha avuto modo di ribaltare le argomentazioni tradizionali, ferme al fatto musicale puro senza tenere in conto la funzionalità drammaturgica: “L’esigenza della coesione e dell’integrità stilistica è, come in genere tutte le categorie e i principi dell’estetica convenzionale, d'origine classicistica. Ma Wagner, per dirla in breve, era piuttosto un manierista e un teatrante che non un classicista. E la divergenza di stile, che sotto il profilo astrattamente musicale appare un'incoerenza, ossia un difetto estetico, può sotto il profilo drammaturgico-musicale legittimarsi come espressione del contrasto tra il mondo quotidiano e naturale cui Tannhäuser agogna di ritornare e il paradis artificiel in cui Venere lo vuole trattenere: non è un caso che Wagner abbia riscritto la parte di Venere, non però quella di Tannhäuser.”
Dunque, si ritorna sempre alla centralità dell’opera, all’intuizione drammatica che nel rapporto non consumato fra Tannhäuser e Elisabeth raffigura teatralmente lo spaesamento dell’uomo romantico, il conflitto fra nostalgia di redenzione e bramosia che nessuna penitenza può cancellare; i due mondi, Elisabeth e Venus, sono intrecciati, uno richiama l’altro, uno ricorda l’altro e il dissidio risucchia nel suo gorgo le due vittime. Attorno a questo nucleo tutto il resto si aggrega, preparando, potenziando e seguendo il dramma centrale con l’arte del contrasto di cui Wagner è maestro: si senta, ad esempio, con quale regia sonora, con quale fantasmagoria timbrica e spaziale è costruito, nel primo atto, il passaggio alla terza scena, all’atmosfera mattutina e rarefatta del paesaggio di montagna dopo l’aria stagnante di fermentati profumi della grotta di Venere; certo, alcuni brani di Liszt nel quaderno svizzero delle Années de pèlerinage, e la Marcia dei pellegrini in Harold en Italie di Berlioz, avevano spalancato alla musica quei nuovi confini di una poesia della natura già intuiti da Rossini con il Guglielmo Tell; ma Wagner riepiloga tutto ciò, combinando con plastica evidenza il Lied del pastorello, i cori dei pellegrini in cammino, il lieve scampanio delle greggi, le fanfare di caccia del Langravio, che annunciandosi fuori scena e poi avvicinandosi misurano uno spazio di epica grandezza.
Il quadro stilistico del Tannhäuser è composito, le fonti assorbite da Wagner si lasciano ancora individuare e non sono ancora amalgamate nell’unità linguistica dell’Anello del Nibelungo. Elisabeth è una sintesi di Lied e aria italiana; aspira all’ampiezza di questa, ma trova la sua definizione soprattutto nell’integrazione con i sensibili commenti dell’orchestra: la commovente confessione fatta a Tannhäuser nel duetto del secondo atto, dello strano, inspiegabile turbamento arrecatole in passato dai canti di lui, è appunto indagata con l’aiuto determinante dei legni (una scelta di cui giaà l'Ifigenia in Aulide di Gluck aveva dato esempio); e nella grande preghiera dell’atto terzo, “Allmächt’ge Jungfrau” (“Vergine onnipotente”), la considerazione della morte come unica possibilità per salvare l’anima di Tannhäuser è addolcita dalla stessa magia timbrica degli accordi del Sogno d’una notte d’estate di Mendelssohn. Anche in Wolfram confluiscono Lied e aria, ma in modo meno problematico: Wolfram è un artista “umanista”, un erasmiano che non conosce commerci col diavolo e la sua cantabilità scopre ricordi quasi belliniani, mentre un neoclassico rintocco di arpa ne accompagna i nobili trasporti; Wagner lo raffigura in un vero ritratto spirituale con la sola frase “Elisabeth, dürft ich dich nicht geleiten?” (“Elisabeth, non potrei accompagnarti?”), quando la donna, come una martire preraffaellita si allontana da sola in una luce di tramonto; e sopra tutto, ancora una volta, ne fa elemento di contrasto per preparare uno degli episodi decisivi dell’opera, il racconto finale di Tannhäuser: il Lied “Wie Todesahnung... O du mein holder Abendstern” (“Come un presagio di morte... O tu, mia dolce stella della sera”) cantato da Wolfram, tutto trepidante di cristiana melanconia, consente appunto l’approssimarsi silenzioso di Tannhäuser e prepara il tragico capovolgimento di atmosfera stabilito dalla narrazione dell’assoluzione rifiutata. Tanto il Lied di Wolfram è immobile nella sua luce di perla, tanto il racconto di Tannhäuser è solcato di anfratti e folgorazioni, analisi meticolosa di un’odissea psicologica rivolta agli inferi. Ancora lontano dalla visione sistematica dell’Anello, il Tannhäuser aggrega d’istinto scene e momenti attorno alla sua idea centrale; l’incompletezza, l'inadeguatezza avventa dallo stesso Wagner malgrado i rifacimenti è costituzionale, e potrà trovare soddisfazione solo scavando, una per una, nelle conseguenze implicate nel Tristano e Isotta, nei Maestri cantori e nel Parsifal.
Giorgio Pestelli
La trama
ATTO PRIMO
Il sipario si leva mostrando l’interno del Venusberg, un laghetto in una grotta con le pareti ricoperte di vegetazione lussureggiante, popolata da sirene e naiadi. Tannhäuser giace col capo mollemente adagiato sul grembo di Venere, la sua arpa al fianco. Coppie di amanti intrecciano scherzi e danze, stimolati dalle baccanti che ne fomentano l’esaltazione sensuale. Sbucano satiri e fauni che inseguono le ninfe: per frenare l’orgia le tre Grazie comandano agli amorini di scagliare una pioggia di frecce sul groviglio dei corpi avvinti. Calano vapori sulla scena, che diradandosi lasciano intravvedere l’immagine allegorica del ratto d’Europa. Di nuovo scende una nebbia rosea, che si dissolve mostrando Leda col cigno. Scomparsa anche questa visione, e allontanatesi anche le Grazie, Tannhäuser alza il capo, quasi destandosi da un sogno: ha immaginato suoni di campane, simbolo del suo attaccamento all’umanitä che ha lasciato e che ora rimpiange. Con dolcezza Venere gli ricorda la felicitä che ha saputo dargli dopo i tanti affanni sofferti sulla terra, e gli chiede di risentire la melodia con cui l’aveva sedotta. Tannhäuser imbraccia l’arpa, ma nel suo canto ribadisce il desiderio di tornare fra i suoi. Invano Venere gli indica la grotta d’Amore, promettendogli nuove estasi sensuali, egli insiste nel chiedere lo scioglimento dai Vincoli. Torni pure nel mondo crudele che aveva lasciato, a misurarsi coi cavalieri, giä da lui orgogliosamcnte sfidati: Venere predice che dovrä implorare ancora i suoi favori. Con fermezza Tannhäuser dichiara di preferire la morte a nuovi incanti, e che solo nella penitenza poträ trovare pace. La sua salvezza sta nella Vergine Maria, non tra le braccia di Venere.
La dea scompare e con essa la grotta. Tannhäuser è rimasto nella stessa posizione, ma ora si trova al centro di una valle assolata, sul cui sfondo si staglia il Castello della Wartburg. Un giovane pastore intona una canzone in onore di Holda, dea della primavera, accompagnandosi con la zampogna. Vi si sovrappone il canto dei pellegrini, che scendono dal sentiero che mena al castello. Ad essi che si recano a Roma per espiare le proprie colpe il pastore chiede una preghiera per la sua anima. Profondamente scosso Tannhäuser cade in ginocchio: fino a che i suoi peccati non saranno rimessi anch’egli non avrà pace. A questo punto, mentre echeggiano fanfare di caccia, la scena viene mvasa dal Langravio e dai suoi cantori, che riconoscono Tannhäuser e lo salutano amichevolmente. Alle offerte di riunirsi a loro mme un tempo, Tannhäuser si schermisce, ma Wolfram Von Eschenbach li rammenta come il suo canto avesse destato i nobili sentimenti di Elisabeth, la giovane nipotel del Langravio, la quale dal giorno della partenza di Tannhäuser non prova più gioia alcuna. Tannhäuser, commosso, chiede di essere condotto da lei: una nuova vita gli si apre innanzi.
ATTO SECONDO
Il sipario si leva nella sala dei cantori all’interno del castello, luogo che Elisabeth saluta con trasporto ora che ha appreso del ritorno di
Tannhäuser. Quando egli giunge, accompagnato da Wolfram, timidamente vorrebbe allontanarsi, ma il cantore la trattiene con dolcezza. Confusa, Elisabeth rivela l’eccitazione che la sua musica aveva destato in lei, e il vuoto seguito alla sua partenza. Con entusiasmo Tannhäuser replica che è stato il dio d’amore ad ispirare allora la sua arte ed a ricondurlo adesso a lei. Insieme celebrano la sua potenza, poi Tannhäuser si allontana con Wolfram.
Entra il Langravio, che intuisce la felicità della nipote, e quindi giungono le dame, i cavalieri e i nobili invitati ad assistere alla solenne gara dei cantori. Questi s’avanzano e, dopo essersi solennemente inchinati ai presenti, si dispongono a semicerchio in mezzo alla sala. Il Langravio ricorda gli altissimi meriti da essi acquistati dedicandosi alle arti pacifiche, illustrando colla oesia e col canto bellezza, fede e virtù. Adesso celebreranno ancora una volta l’arte in una gara di canto, insieme all’antico compagno
Tannhäuser. Tema della disfida sarà illustrare la vera “natura dell’amore”. Il sorteggio designa Wolfram a iniziare. Egli intona un nobile inno alla maestà dell’amore divino. Nel generale stupore Tannhäuser replica con impeto a Wolfram, rimproverandogli di aver stravolto l’amore: che Wolfram celebri pure un Dio che non potrà mai intendere, egli, dal canto suo, tenterà di bere in eterno alla fonte che accende il desiderio. Il cantore Biterolf inveisce contro tale blasfemo orgoglio, ma Tannhäuser lo affronta con violenza suscitando lo sdegno di tutti i cavalieri. Interviene il Langravio che ordina a Biterolf di riporre la spada, poi è Wolfram che cerca di placare i contendenti rinnovando le lodi all’amore divino. Ma Tannhäuser, in preda alla completa esaltazione, intona un inno a Venere ed esorta tutti a recarsi al Venusberg dove è appagato ogni desiderio amoroso. Indignati, con la spada in pugno, i cavalieri avanzano contro Tannhäuser, ma Elisabeth gli fa da scudo col proprio corpo: una ferita fisica sarebbe nulla per lei in confronto al colpo mortale infertole dalle parole di lui. Mentre la giovane supplica in favore dell’infelice, ritenendolo colpito da incantesimo, poco a poco Tannhäuser torna in sé, riconoscendo la propria colpa. Il Langravio lo bandisce, indicandogli una via di salvezza nel pellegrinaggio verso Roma, onde espiare i suoi peccati: se non ubbidirà essi lo passeranno per le armi. Si ode in lontananza dalla Valle il canto dei pellegrini: profondamente colpito ed animato dalla speranza della redenzione, Tannhäuser si avvia per unirsi a loro.
ATTO TERZO
Dopo che l’Introduzione orchestrale ha descritto il pellegrinaggio di Tannhäuser a Roma, la scena mostra ancora la valle su cui campeggia il castello della Wartburg, in autunno. Elisabeth è assorta in preghiera dinnanzi all’immagine della Vergine, e attende il ritorno di Tannhäuser, nella fiduciosa speranza che sia redento. Wolfram scende dal castello e si unisce a lei. Si odono le voci dei pellegrini, ma il cantore non è con loro: caduta la speranza, Elisabeth invoca Maria perché lenisca il suo dolore e ascolti la sua supplica, perdonando al peccatore. Cala la sera, e Wolfram, rimasto solo, intona un mesto canto accompagnandosi con l’arpa. L’oscurità gli pare un presagio di morte, ma il bagliore di un astro notturno ispira il suo canto che diviene una preghiera per Elisabeth, oramai votata alla morte. Giunge Tannhäuser, stanco e lacerato, e Wolfram si meraviglia che sia tornato in quei luoghi senza essere redento. Ma Tannhäuser, deluso, vuole solo ritornare al Venusberg. Narra a Wolfram del suo pellegrinaggio, durante il quale con ogni mezzo aveva tentato d’espiare il suo peccato. Udite le sue colpe, il papa lo aveva però respinto, pronunciando una severa sentenza: come sul suo bastone mai potrebbero nascere fresche foglie, così l’anima di Tannhäuser mai avrebbe potuto trovare scampo all’eterna condanna. In preda a crescente desiderio amoroso, Tannhäuser invoca Venere perché lo riammetta a godere dell’estasi perdute. E la dea riappare, consolatoria, ma Wolfram ricorda la sorte di Elisabeth, che ora è morta e lo benedice dal cielo. A quel nome Tannhäuser si ferma, come impietrito, mentre si ode in lontananza il coro dei cantori e dei nobili che raccomandano a Dio l’anima di Elisabeth. Ora la sua preghiera è stata esaudita, e mentre Venere scompare di colpo Wolfram conduce l’amico presso il feretro della giovane, portato in scena da un corteo funebre. Tannhäuser esclama “Santa Elisabetta, prega per me!” prima di cadere morto al suolo. In quel momento un gruppo di giovani pellegrini si avanza confermando il miracolo della redenzione di Tannhäuser: il bastone pastorale nella mano del Pastore s’è ricoperto di verde fronda.
Michele Girardi