Il "Tannhäuser":
Un caso limite di ricerca
teatrale
Wagner aveva
ventotto anni quando
s’incontrö la prima volta
con la materia composita del
Tannhäuser, sul
finire del 1841 durante il
primo soggiorno parigino;
l’opera venne alla luce
secondo i passaggi tipici
della creativitä wagneriana:
abbozzo in prosa del dramma
giä nell’estate del 1842,
elaborazione del testo
poetico nel 1843,
composizione musicale
conclusa nell’aprile del
1845, in vista della prima
esecuzione al Teatro di
corte di Dresda il 19
ottobre dello stesso 1845.
Il quinquennio che assiste
alla gestazione della prima
versione dell’opera fu tra i
più densi e decisivi della
biografia artistica di
Wagner: abbandono di Parigi,
trionfo di Rienzi
all’Opera di Dresda
nell’ottobre del 1842,
nomina a Kapellmeister
di corte nella stessa città
sassone: un impegno che
assorbì molte energie del
compositore e che trova
nella direzione dell’Armida
di Gluck (1843), con
Wilhelmine Schröder-Devrient
protagonista, e della Nona
Sinfonia di Beethoven
(domenica delle Palme del
1846) alcuni dei suoi
momenti culminanti. Intanto,
nel gennaio del 1843, era
andato in scena L’Olandese
volante, con
accoglienze contrastate, le
stesse che seguirono alla
prima del Tannhäuser,
a testimonianza, dopo il
trionfo unanime del Rienzi,
delle tensioni e polemiche
connesse con la fondazione
di un teatro musicale
tedesco. Un travaglio che il
Tannhäuser mostra
con piena evidenza, anche
nella vicenda delle sue
trasformazioni; in un certo
senso, l’opera non fu mai
condotta a termine: già a
Dresda, nella ripresa del
1847, Wagner modificò il
finale per aumentarne la
presa teatrale e scenica;
nel 1860-61, per
l’allestimento a Parigi,
Wagner riscrisse quasi del
tutto le due prime scene e
ritoccò alcuni episodi della
disfida dei cantori; e nel
1883, poco prima della
morte, disse a Cosima di
“essere ancora debitore al
mondo del suo Tannhäuser”:
certo, ogni volta che Wagner
riprendeva in mano un suo
lavoro, ritoccava, rifaceva
e trasformava; ma il Tannhäuser
è un caso limite di ricerca
teatrale, di coscienza
poetica in via di
definizione a contatto con
problemi di equilibrio
immanenti già nella
primitiva concezione
dell’opera.
A fondamento della
quale stanno due elementi
narrativi: la tenzone dei
cantori sulla Wartburg,
testo risalerite alla metà
circa del secolo XIII,
raccolto nelle saghe dei
fratelli Grimm e utilizzato
anche da Hoffmann nei Fratelli
di Serapione, e la
leggenda di Tannhäuser,
tramandata in varie raccolte
di poesia popolare, fra cui
il celebre Corno magico
del fanciullo di Arnim
e Brentano (essa pure
sfruttata nella produzione
letteraria più vicina a
Wagner da Tieck, Uhland e
Heine); dalla prima si va ai
Maestri cantori di
Norimberga, con il
tema dei generi poetici e
dei circoli chiusi che si
misurano in gare di poesia,
con la figlia del
personaggio più autorevole
quale premio; dalla seconda
si va al Parsifal
attraverso il Tristano e
Isotta, con la
leggenda della liberazione
del cantore dal dominio di
“Frau Venus” e della
montagna incantata
attraverso un pellegrinaggio
di purificazione. Ma nella
materia di queste due
leggende, Wagner introduce
poi un terzo e decisivo
reagente, frutto peculiare
del suo universo creativo:
il tema della redenzione
d’amore dopo il peccato
sensuale, dopo la
devastazione dell'amour
coupable; il peccato,
nel Tannhäuser
sontuosamente presente nella
grotta di Venere, nel Parsifal
è sullo sfondo, ma non meno
pungente nella ferita di
Amfortas; tuttavia, per la
sua assoluzione non sarà
sufficiente la grazia del
Venerdì Santo, ma, secondo
le crude leggi delle fosche
ballate nordiche, come nell’Olandese
volante, richiederà
l’incondizionato sacrificio
riparatore di una vita
umana.
Si può dire che
tutto il nucleo drammatico
del Tannhäuser
sia racchiuso nelle parole
che Elisabeth, in una scena
capitale del secondo atto,
rivolge ai cantori e ai
cavalieri che vorrebbero
condannare a morte Tannhäuser
come reo confesso di
connubio con Venere:
“L’infelice, che un
incantesimo assai potente
tiene prigioniero, non
potrebbe forse raggiungere
la salvezza con l’espiazione
e la penitenza in questo
mondo?” Elisabeth si
considera presago strumento
di salvezza, e preannuncia
le sue parole come ispirate
dalla “volontà di Dio”: lì è
il nodo del dramma, nel
rapporto che lega Tannhäuser
ed Elisabeth, un rapporto
già fissato in partenza e
non passibile di
modificazioni o sviluppi:
basta il nome di Elisabeth,
pronunciato da Wolfram,
perché Tannhäuser
si diriga verso la Wartburg
all’inizio della vicenda,
così come basterà,
nell’ultimo atto, lo stesso
nome per fugare le seduzioni
di Venere e redimere l’anima
del cantore: per Tannhäuser,
Elisabeth non è una donna da
amare, ma una formula
magica, un segno di croce
che decide la sua sorte
(proprio come il nome di
“Maria”, madre di Dio, nella
scena seconda del primo atto
farà precipitare e
scomparire lo scenario del
Venusberg); anche per
Elisabeth, Tannhäuser
non è un uomo da amare, ma
un’anima da salvare, una
idea cui consacrarsi, fino
ad allontanare da sé la
condizione stessa
dell’amore, cioè la vita.
La soppressione
della materia amorosa fra i
due protagonisti era già un
fatto rivoluzionario per le
abitudini dell’opera in
musica; ma ancora più audace
dovette sembrare il suo
recupero, in chiave erotica,
nel rapporto fra Tannhäuser
e la dea Venere: la
prorompente energia (non
esente, come è stato spesso
osservato, da una certa
dozzinale esuberanza) con
cui Tannhäuser inneggia alle
delizie dell’antro di
Venere, rispetto alle pruderies
di metà ottocento fa pensare
all’effetto, nello stesso
solido senso di appagamento,
prodotto dalle Elegie
romane di Goethe di
fronte alla poesia amorosa
degli anni Novanta del
Settecento, intrisa di
attenuazioni e
crepuscolarismi
preromantici. E tale
tematica doveva poi ricevere
un ulteriore, decisivo
incentivo all’epoca
dell’allestimento del Tannhäuser
a Parigi, città che una
lunga tradizione si
compiaceva di mettere in
rapporto con occasioni e
suggestioni erotiche.
Wagner ricevette
nel 1860 l'offerta di
Napoleone III per allestire
Tannhäuser all'Opera,
certo anche per l'influenza
esercitata sull'imperatore
dalla principessa
Metternich, moglie
dell'ambasciatore austriaco
e grande protettrice del
compositore; il quale già
nei primi mesi del 1860
diresse nella capitale
francese tre concerti di
musiche proprie al Théâtre
Italien, innescando forti
avversioni, in gran parte
dovute a motivi politici, ma
altrettanto forti entusiasmi
nel mondo artistico e
letterario, e completò
quindi il lavoro di
revisione dell'opera alla
fine del gennaio 1861.
Charles Nuitter aveva
intanto tradotto l’opera in
versi francesi, sotto
l’occhio vigile di Wagner, e
nello stesso 1860 era pure
apparsa una traduzione in
prosa a cura di P.A.
Challemel-Lacour. Dopo 164
prove, il Tannhäuser
“parigino” andòo finalmente
in scena il 13, 18 e 24
marzo 1861, con esito, come
si sa, disastroso, tanto che
Wagner ritirò il lavoro dopo
la terza rappresentazione;
all'ostilità più accanita,
montata sopra tutto dai soci
del Jockey Club come
dimostrazione contro la
principessa Metternich,
rispose l’entusiasmo di un
ascoltatore come Baudelaire
che scrisse un celebre
articolo in difesa di Wagner
sulla “Revue européenne” del
primo aprile 1861. Partì di
qui quel flusso di
sensibilità e cultura, quel
polline simbolista che si
irradierà su tutto il
panorama del secondo
Ottocento e senza il quale
Baudelaire, Proust, Renoir,
Valéry, Debussy, Pierre
Louys e Péguy non sarebbero
stati quelli che furono.
L’apporto nuovo
messo in atto da Wagner
nella Versione parigina del
Tannhäuser
si compendia essenzialmente
nelle due prime scene del
primo atto, cioè la scena
del Venusberg, nella
soppressione dell’intervento
di Walther von der
Vogelweide durante la gara
di canto nell’atto secondo,
e nell'aggiunta di alcune
battute di raccordo qua e là
nel corso dell’opera; tutti
questi carnbiamenti, più
altri interventi
sull’orchestrazione, furono
mantenuti quando l'opera,
ritradotta in lingua
tedesca, fu allestita a
Monaco ne 1867. L'intervento
maggiore, quello del
Venusberg, non è solo
rilevante per la lunghezza,
che raddoppia l’estensione
della prima versione, per
l’impegno richiesto al corpo
di ballo durante il
Baccanale (il maître de
ballet dell'Opéra,
Petipa, stentava a
realizzare quell’audacia e
novità di atteggiamenti che
Wagner e la musica osée
del Baccanale richiedevano),
ma sopra tutto per la
diversa qualità
dell’invenzione e della
scrittura musicale: sulla
quale, e con questo si dice
tutto, si stende ormai
l’esperienza compositiva del
Tristano e Isotta. Il
salto stilistico, quasi
vent’anni dopo la versione
di Dresda, non poteva non
creare nuovi problemi di
coerenza che venivano ad
aggiungersi alla
eterogeneità di fondo già
presente nella prima
concezione; e non sono
mancate severe critiche
all’equilibrio generale, che
facevano leva proprio sulla
superiorità indiscutibile
delle parti composte nel
1860-61; ma proprio su
questo dissidio stilistico,
in anni recenti, Carl
Dahlaus ha avuto modo di
ribaltare le argomentazioni
tradizionali, ferme al fatto
musicale puro senza tenere
in conto la funzionalità
drammaturgica: “L’esigenza
della coesione e
dell’integrità stilistica è,
come in genere tutte le
categorie e i principi
dell’estetica convenzionale,
d'origine classicistica. Ma
Wagner, per dirla in breve,
era piuttosto un manierista
e un teatrante che non un
classicista. E la divergenza
di stile, che sotto il
profilo astrattamente
musicale appare
un'incoerenza, ossia un
difetto estetico, può sotto
il profilo
drammaturgico-musicale
legittimarsi come
espressione del contrasto
tra il mondo quotidiano e
naturale cui Tannhäuser
agogna di ritornare e il paradis
artificiel in cui
Venere lo vuole trattenere:
non è un caso che Wagner
abbia riscritto la parte di
Venere, non però quella di
Tannhäuser.”
Dunque, si ritorna
sempre alla centralità
dell’opera, all’intuizione
drammatica che nel rapporto
non consumato fra Tannhäuser
e Elisabeth raffigura
teatralmente lo spaesamento
dell’uomo romantico, il
conflitto fra nostalgia di
redenzione e bramosia che
nessuna penitenza può
cancellare; i due mondi,
Elisabeth e Venus, sono
intrecciati, uno richiama
l’altro, uno ricorda l’altro
e il dissidio risucchia nel
suo gorgo le due vittime.
Attorno a questo nucleo
tutto il resto si aggrega,
preparando, potenziando e
seguendo il dramma centrale
con l’arte del contrasto di
cui Wagner è maestro: si
senta, ad esempio, con quale
regia sonora, con quale
fantasmagoria timbrica e
spaziale è costruito, nel
primo atto, il passaggio
alla terza scena,
all’atmosfera mattutina e
rarefatta del paesaggio di
montagna dopo l’aria
stagnante di fermentati
profumi della grotta di
Venere; certo, alcuni brani
di Liszt nel quaderno
svizzero delle Années de
pèlerinage, e la
Marcia dei pellegrini in Harold
en Italie di Berlioz,
avevano spalancato alla
musica quei nuovi confini di
una poesia della natura già
intuiti da Rossini con il Guglielmo
Tell; ma Wagner
riepiloga tutto ciò,
combinando con plastica
evidenza il Lied del
pastorello, i cori dei
pellegrini in cammino, il
lieve scampanio delle
greggi, le fanfare di caccia
del Langravio, che
annunciandosi fuori scena e
poi avvicinandosi misurano
uno spazio di epica
grandezza.
Il quadro
stilistico del Tannhäuser
è composito, le fonti
assorbite da Wagner si
lasciano ancora individuare
e non sono ancora amalgamate
nell’unità linguistica dell’Anello
del Nibelungo.
Elisabeth è una sintesi di
Lied e aria italiana; aspira
all’ampiezza di questa, ma
trova la sua definizione
soprattutto
nell’integrazione con i
sensibili commenti
dell’orchestra: la
commovente confessione fatta
a Tannhäuser nel duetto del
secondo atto, dello strano,
inspiegabile turbamento
arrecatole in passato dai
canti di lui, è appunto
indagata con l’aiuto
determinante dei legni (una
scelta di cui giaà l'Ifigenia
in Aulide di Gluck
aveva dato esempio); e nella
grande preghiera dell’atto
terzo, “Allmächt’ge
Jungfrau” (“Vergine
onnipotente”), la
considerazione della morte
come unica possibilità per
salvare l’anima di
Tannhäuser è addolcita dalla
stessa magia timbrica degli
accordi del Sogno d’una
notte d’estate di
Mendelssohn. Anche in
Wolfram confluiscono Lied e
aria, ma in modo meno
problematico: Wolfram è un
artista “umanista”, un
erasmiano che non conosce
commerci col diavolo e la
sua cantabilità scopre
ricordi quasi belliniani,
mentre un neoclassico
rintocco di arpa ne
accompagna i nobili
trasporti; Wagner lo
raffigura in un vero
ritratto spirituale con la
sola frase “Elisabeth, dürft
ich dich nicht geleiten?”
(“Elisabeth, non potrei
accompagnarti?”), quando la
donna, come una martire
preraffaellita si allontana
da sola in una luce di
tramonto; e sopra tutto,
ancora una volta, ne fa
elemento di contrasto per
preparare uno degli episodi
decisivi dell’opera, il
racconto finale di
Tannhäuser: il Lied “Wie
Todesahnung... O du mein
holder Abendstern” (“Come un
presagio di morte... O tu,
mia dolce stella della
sera”) cantato da Wolfram,
tutto trepidante di
cristiana melanconia,
consente appunto
l’approssimarsi silenzioso
di Tannhäuser e prepara il
tragico capovolgimento di
atmosfera stabilito dalla
narrazione dell’assoluzione
rifiutata. Tanto il Lied di
Wolfram è immobile nella sua
luce di perla, tanto il
racconto di Tannhäuser è
solcato di anfratti e
folgorazioni, analisi
meticolosa di un’odissea
psicologica rivolta agli
inferi. Ancora lontano dalla
visione sistematica dell’Anello,
il Tannhäuser aggrega
d’istinto scene e momenti
attorno alla sua idea
centrale; l’incompletezza,
l'inadeguatezza avventa
dallo stesso Wagner malgrado
i rifacimenti è
costituzionale, e potrà
trovare soddisfazione solo
scavando, una per una, nelle
conseguenze implicate nel Tristano
e Isotta, nei Maestri
cantori e nel Parsifal.
Giorgio
Pestelli
Il sipario si leva
mostrando l’interno del
Venusberg, un laghetto in
una grotta con le pareti
ricoperte di vegetazione
lussureggiante, popolata da
sirene e naiadi. Tannhäuser
giace col capo mollemente
adagiato sul grembo di
Venere, la sua arpa al
fianco. Coppie di amanti
intrecciano scherzi e danze,
stimolati dalle baccanti che
ne fomentano l’esaltazione
sensuale. Sbucano satiri e
fauni che inseguono le
ninfe: per frenare l’orgia
le tre Grazie comandano agli
amorini di scagliare una
pioggia di frecce sul
groviglio dei corpi avvinti.
Calano vapori sulla scena,
che diradandosi lasciano
intravvedere l’immagine
allegorica del ratto
d’Europa. Di nuovo scende
una nebbia rosea, che si
dissolve mostrando Leda col
cigno. Scomparsa anche
questa visione, e
allontanatesi anche le
Grazie, Tannhäuser
alza il capo, quasi
destandosi da un sogno: ha
immaginato suoni di campane,
simbolo del suo attaccamento
all’umanitä che ha lasciato
e che ora rimpiange. Con
dolcezza Venere gli ricorda
la felicitä che ha saputo
dargli dopo i tanti affanni
sofferti sulla terra, e gli
chiede di risentire la
melodia con cui l’aveva
sedotta. Tannhäuser
imbraccia l’arpa, ma nel suo
canto ribadisce il desiderio
di tornare fra i suoi.
Invano Venere gli indica la
grotta d’Amore,
promettendogli nuove estasi
sensuali, egli insiste nel
chiedere lo scioglimento dai
Vincoli. Torni pure nel
mondo crudele che aveva
lasciato, a misurarsi coi
cavalieri, giä da lui
orgogliosamcnte sfidati:
Venere predice che dovrä
implorare ancora i suoi
favori. Con fermezza Tannhäuser
dichiara di preferire la
morte a nuovi incanti, e che
solo nella penitenza poträ
trovare pace. La sua
salvezza sta nella Vergine
Maria, non tra le braccia di
Venere.
La dea scompare e
con essa la grotta. Tannhäuser
è rimasto nella stessa
posizione, ma ora si trova
al centro di una valle
assolata, sul cui sfondo si
staglia il Castello della
Wartburg. Un giovane pastore
intona una canzone in onore
di Holda, dea della
primavera, accompagnandosi
con la zampogna. Vi si
sovrappone il canto dei
pellegrini, che scendono dal
sentiero che mena al
castello. Ad essi che si
recano a Roma per espiare le
proprie colpe il pastore
chiede una preghiera per la
sua anima. Profondamente
scosso Tannhäuser
cade in ginocchio: fino a
che i suoi peccati non
saranno rimessi anch’egli
non avrà pace. A questo
punto, mentre echeggiano
fanfare di caccia, la scena
viene mvasa dal Langravio e
dai suoi cantori, che
riconoscono Tannhäuser
e lo salutano
amichevolmente. Alle offerte
di riunirsi a loro mme un
tempo, Tannhäuser
si schermisce, ma Wolfram
Von Eschenbach li rammenta
come il suo canto avesse
destato i nobili sentimenti
di Elisabeth, la giovane
nipotel del Langravio, la
quale dal giorno della
partenza di Tannhäuser
non prova più gioia alcuna.
Tannhäuser,
commosso, chiede di essere
condotto da lei: una nuova
vita gli si apre innanzi.
ATTO SECONDO
Il sipario si leva nella
sala dei cantori all’interno
del castello, luogo che
Elisabeth saluta con
trasporto ora che ha appreso
del ritorno di Tannhäuser.
Quando egli giunge,
accompagnato da Wolfram,
timidamente vorrebbe
allontanarsi, ma il cantore
la trattiene con dolcezza.
Confusa, Elisabeth rivela
l’eccitazione che la sua
musica aveva destato in lei,
e il vuoto seguito alla sua
partenza. Con entusiasmo Tannhäuser
replica che è stato
il dio d’amore ad ispirare
allora la sua arte ed a
ricondurlo adesso a lei.
Insieme celebrano la sua
potenza, poi Tannhäuser
si allontana con
Wolfram.
Entra il Langravio, che
intuisce la felicità della
nipote, e quindi giungono le
dame, i cavalieri e i nobili
invitati ad assistere alla
solenne gara dei cantori.
Questi s’avanzano e, dopo
essersi solennemente
inchinati ai presenti, si
dispongono a semicerchio in
mezzo alla sala. Il
Langravio ricorda gli
altissimi meriti da essi
acquistati dedicandosi alle
arti pacifiche, illustrando
colla oesia e col canto
bellezza, fede e virtù.
Adesso celebreranno ancora
una volta l’arte in una gara
di canto, insieme all’antico
compagno Tannhäuser.
Tema della disfida
sarà illustrare la vera
“natura dell’amore”. Il
sorteggio designa Wolfram a
iniziare. Egli intona un
nobile inno alla maestà
dell’amore divino. Nel
generale stupore Tannhäuser
replica con impeto a
Wolfram, rimproverandogli di
aver stravolto l’amore: che
Wolfram celebri pure un Dio
che non potrà mai intendere,
egli, dal canto suo, tenterà
di bere in eterno alla fonte
che accende il desiderio. Il
cantore Biterolf inveisce
contro tale blasfemo
orgoglio, ma Tannhäuser
lo affronta con violenza
suscitando lo sdegno di
tutti i cavalieri.
Interviene il Langravio che
ordina a Biterolf di riporre
la spada, poi è Wolfram che
cerca di placare i
contendenti rinnovando le
lodi all’amore divino. Ma Tannhäuser,
in preda alla completa
esaltazione, intona un inno
a Venere ed esorta tutti a
recarsi al Venusberg dove è
appagato ogni desiderio
amoroso. Indignati, con la
spada in pugno, i cavalieri
avanzano contro Tannhäuser,
ma Elisabeth gli fa da scudo
col proprio corpo: una
ferita fisica sarebbe nulla
per lei in confronto al
colpo mortale infertole
dalle parole di lui. Mentre
la giovane supplica in
favore dell’infelice,
ritenendolo colpito da
incantesimo, poco a poco Tannhäuser
torna in sé,
riconoscendo la propria
colpa. Il Langravio lo
bandisce, indicandogli una
via di salvezza nel
pellegrinaggio verso Roma,
onde espiare i suoi peccati:
se non ubbidirà essi lo
passeranno per le armi. Si
ode in lontananza dalla
Valle il canto dei
pellegrini: profondamente
colpito ed animato dalla
speranza della redenzione, Tannhäuser
si avvia per unirsi a loro.
ATTO TERZO
Dopo che
l’Introduzione orchestrale
ha descritto il
pellegrinaggio di Tannhäuser
a Roma, la scena mostra
ancora la valle su cui
campeggia il castello della
Wartburg, in autunno.
Elisabeth è assorta in
preghiera dinnanzi
all’immagine della Vergine,
e attende il ritorno di
Tannhäuser, nella fiduciosa
speranza che sia redento.
Wolfram scende dal castello
e si unisce a lei. Si odono
le voci dei pellegrini, ma
il cantore non è con loro:
caduta la speranza,
Elisabeth invoca Maria
perché lenisca il suo dolore
e ascolti la sua supplica,
perdonando al peccatore.
Cala la sera, e Wolfram,
rimasto solo, intona un
mesto canto accompagnandosi
con l’arpa. L’oscurità gli
pare un presagio di morte,
ma il bagliore di un astro
notturno ispira il suo canto
che diviene una preghiera
per Elisabeth, oramai votata
alla morte. Giunge
Tannhäuser, stanco e
lacerato, e Wolfram si
meraviglia che sia tornato
in quei luoghi senza essere
redento. Ma Tannhäuser,
deluso, vuole solo ritornare
al Venusberg. Narra a
Wolfram del suo
pellegrinaggio, durante il
quale con ogni mezzo aveva
tentato d’espiare il suo
peccato. Udite le sue colpe,
il papa lo aveva però
respinto, pronunciando una
severa sentenza: come sul
suo bastone mai potrebbero
nascere fresche foglie, così
l’anima di Tannhäuser mai
avrebbe potuto trovare
scampo all’eterna condanna.
In preda a crescente
desiderio amoroso,
Tannhäuser invoca Venere
perché lo riammetta a godere
dell’estasi perdute. E la
dea riappare, consolatoria,
ma Wolfram ricorda la sorte
di Elisabeth, che ora è
morta e lo benedice dal
cielo. A quel nome
Tannhäuser si ferma, come
impietrito, mentre si ode in
lontananza il coro dei
cantori e dei nobili che
raccomandano a Dio l’anima
di Elisabeth. Ora la sua
preghiera è stata esaudita,
e mentre Venere scompare di
colpo Wolfram conduce
l’amico presso il feretro
della giovane, portato in
scena da un corteo funebre.
Tannhäuser esclama “Santa
Elisabetta, prega per me!”
prima di cadere morto al
suolo. In quel momento un
gruppo di giovani pellegrini
si avanza confermando il
miracolo della redenzione di
Tannhäuser: il bastone
pastorale nella mano del
Pastore s’è ricoperto di
verde fronda.