DG - 1 LP - 427 614-1 - (p) 1989
DG - 1 CD - 427 614-2 - (p) 1989

MIRELLA FRENI






Giuseppe VERDI (1813-1901) Aida - "Ritorna vincitor!"
7' 08"

Un ballo in maschera - "Ecco l'orrido campo"
10' 13"

Don Carlos - "Tu che la vanità"
12' 08"

Otello - "Canzone del salice"
12' 53"

Otello - "Ave Maria"
6' 01"
Giacomo PUCCINI (1858-1924) Manon Lescaut - "Sola, perduta, abbandonata"
4' 49"

Madama Butterfly - "Un bel dì, vedremo"
4' 59"

La Bohème - "Mi chiamano Mimì"
5' 17"

Turandot - "Tu che di gel sei cinta"
2' 48"





 
Mirella FRENI
PHILHARMONIA ORCHESTRA
Giuseppe SINOPOLI
 






Luogo e data di registrazione
Watford Town Hall, London (Gran Bretagna):
- agosto 1988
- aprile 1987 (Madama Butterfly)
Kingsway Hall, London (Gran Bretagna) - dicembre 1983 / gennaio 1984 (Manon Lescaut)


Registrazione: live / studio
studio

Produced by
Wolfgang Stengel

Co-Producer
Claudia Hamann

Balance Engineer
Klaus Hiemann

Editing
Reinhard Karwatky

Prima Edizione LP
Deutsche Grammophon | 427 614-1 | LC 0173 | 1 LP - 66' 47" | (p) 1989 | Digital

Prima Edizione CD
Deutsche Grammophon | 427 614-2 | LC 0173 | 1 CD - 66' 47" | (p) 1989 | DDD


Note
I brani da "Madama Butterfly" e "Manon Lescaut" sono tratti dalle pubblicazioni Deutsche Grammophon rispettivamente del 1988 (423 567-1) e del 1984 (413 893-1).















Molti ricordano Angeli senza paradiso, un film che evoca la vita di Schubert. In esso si rivelò la soavissima voce di Martha Eggerth, artista d’alta categoria e esecutrice sublime delle melodie schubertiane che commossero il mondo della musica. Ascoltando Mirella Freni risento l’eco di quella Voce eterea. Deliziosa e patetica Mimì e scintillante Adina nell’Elisir d’amore, la Freni ha dato mirabile dimostrazione della sua virtù canora e interpretativa. Ha voluto, recentemente, cimentarsi nella parte di Desdemona. Ammirevole spirito di sacrificio quello della Freni, che ha dato gentile impronta alla figura della protagonista e prova di sorprendentc versatilità.” Nel 1976 l’arguto e acuto analizzatore di voci Giacomo Lauri Volpi aggiornava il suo celebre breviario Voci parallele dipingendo in pochi tratti una Mirella Freni che si riteneva, ragionevolmente, al culmine della carriera. Oggi si può sottoscrivere sia il giudizio ammirato che la constatazione sorprendente d’una carriera tuttora al massimo: gli anni Settanta erano la stagione d’oro del soprano modenese (almeno così pensavano, con l’orgoglio di quanti li avevan vissuti da spettatori entusiasti e assidui, amici e esperti)? Un decennio dopo, un po’ increduli ma altrettanto persuasi, viviamo con gli anni Ottanta la stagione di platino: una stagione in cui la “sorprendente versatilità” rilevata da Lauri Volpi è deflagrata con l’eterna giovinezza di questa voce in attività artistica pluridecennale ma con l’intatto piacere del debutto.
Nuovi ruoli e ripensamcnti su quelli storici - basti pensare a Cio-Cio-San o Micaela - s’intrecciano con naturalezza musicale e altissima coscienza professionale. Di solito col passare degli anni l’interprete tende a restringere il repertorio attorno ai cavalli di battaglia. Per lei è il contrario: “forse perché mi sono trattenuta da giovane, ora ho voglia di sfogarmi”, ammette non senza civetteria, mentre ripassa il russo di Eugenio Onieghin e di La dama di picche, l’italiano veristico di Adriana Lecouvreur e di Suor Angelica, ultima felice conquista pucciniana. E in effetti la sua carriera è stata segnata da estrema circospezione, e pochi “errori”. Quando è capitato “non ci ho messo molto a tornare indietro”, ricorda Mirella Freni. “È successo con la prima Violetta (Scala, 1964), poi ancora con Elvira di Ernani (Scala, 1982): parti bellissime, gran piacere di cantare e di lavorare con i colleghi. Ma finite le recite, ho rinunciato a altri ingaggi: a Violetta poi sono arrivata, a Elvira no, era una parte troppo faticosa. Se oggi riesco a cantare ancora come dico io, il fatto d’aver saputo rinunciare a certi ruoli ha avuto il suo peso.
E se proprio non voglio rinunciarvi, c’è sempre il disco.”
Nella scelta del repertorio, fin dall’inizio la Freni ebbe l'intelligenza di rispettare la propria voce “ho sempre pensato di essere un ‘lirico’, un soprano col colore e la bellezza della voce”, dice con assoluta coscienza da studiosa del canto. “Il ‘lirico’ deve soprattutto cantare bene, non forzare la voce. Io mi sento d’esserlo, l’ho sempre saputo, ci ho creduto: per questo canto ancora. Sono stata onesta nei confronti della mia voce e dei miei mezzi.” E a proposito del presente recital ricorda: “avevo ventidue-ventitré anni quando ho cantato la mia prima Mimì, al Teatro Duse di Bologna. Mi offersero subito una tournée con Madama Butterfly; nonostante la prospettiva fosse allettante artisticamente e finanziariamente, dissi di no. Cambio mestiere piuttosto che rovinare la mia Voce.” E infatti Madama Butterfly e Un ballo in maschera - “sono parti con troppo declamato drammatico nel registro medio-grave, con rari acuti sul canto e molte impennate brusche” - non hanno mai troVato la strada del palcoscenico. Per fortuna c’è la sala di registrazione: lì le preoccupazioni della Freni vengono accantonate con naturalezza, e allora si scopre il senso d’una consapevolezza interpretativa che sovrasta e s’intreccia di continuo alla squisita lezione di canto. Il percorso esecutivo esplora entrambi i versanti. La meravigliosa costruzione di fraseggi riporta l’attenzione sulla friabilità nervosa della linea vocale pucciniana che s’immerge di continuo nel tessuto orchestrale prelibato a cercare allusioni timbriche non esprimibili in spartito. La preghiera di Liù, come la malinconia paralizzante di Cio-Cio-San, sono come sospinte dalla tensione luminosa della voce verso un’epica espressiva tutt’altro che vittimista. Così come il sogno inventato in diretta nel “Mi chiamano Mimì” tocca le corde dell’emozione secondo quell'impagabile vibrazione adolescenziale, un po’ svagata e capricciosa ma tumultuosamente drammatica, che riconosciamo anche dietro le crinoline settecentesche di Manon.
Tutti sentimenti autentici, un po’ piccolo-borghesi ma forti e inquieti, pucciniani fino alle midolla. Espressioni cariche d’umanità che ricompaiono nella carrellata verdiana. Colore dominante qui è la nostalgia, una miscela poetica connaturata a certi personaggi che la Freni ha letteralmente reinventato. Certo ci volle tutta la forza persuasiva di Herbert Von Karajan per farla approdare a Elisabetta. Ma è difficile oggi immaginare un “Tu che le vanità" di pari intensità nella ferita maliosità, nell’adolescenziale e sbigottito struggimento del richiamo semplice - quasi involontario pensiero ad alta voce - ai luoghi del sogno virginale (“Francia... Fontainebleau... ”). Nell’opera che per tutti i protagonisti - in particolare i due ragazzi illusoriamente promessi sposi e per l’eternità uniti dall’amore - trascorre come un’immagine biografica e affettiva che diventa adulta (addirittura “giunta a sera”, come per Filippo II) senza aver avuto altri spazi all’espansione sentimentale bruciata da diverse Ragion di Stato, e quindi è tutta giocata sul rimpianto ‘privato’ e sul pessimismo, il finale di Elisabetta è una sorta di concentrate prodigioso in cui fatalismo e estreme accensioni giovanili pretendono dall’interprete accenti di soave fragilità e regale tristezza. Accostabili alla fremente e presaga evocazione dell’ultima preghiera di Desdemona, calata in una rovente immedesimazione emotiva che fa vibrare ogni parola, cantata o intenzionalmente rilasciata con colloquiale gesto d’addio alla vita, d’una ragione drammaturgica formidabile: tale che sembra di vederla, questa nostra Desdemona nobilissima e offesa nell’animo, aggirarsi tra letto e inginocchiatoio a riconoscere per l’ultima volta i testimoni d’un amore polverizzato dall’altrui follia, senza che a lei sia stato spiegato il perché.
Negli altri due saggi verdiani la Freni entra con il passo imperioso d’una cantante che sa tracciare le grandi figure drammatiche senza gesti vocali esteriori ma con la minuzia esecutiva. L’affollamento di sentimenti di Aida (un ruolo, riprcso in teatro dopo qualche stagione di ripensamento, che la vede protagonista d’inaudita ricchezza espressiva), i turbamenti notturni di Amelia diventano un sensibile palcoscenico di belcanto e di teatralità vocale nel quale pare di avvertire tutta la strada di studio e approfondimento d’un’interprete completa che non ha ancora smesso di sorprendere e sorprendersi di fronte ai personaggi, come fosse ogni volta la prima.
Angelo Foletto