Nascita, vita e
avventure della "Signora
Pinkerton"
Madama
Butterfly è il sesto
spartito di Giacomo Puccini.
Dopo l'esordio lusinghiero con Le
Villi (1884) e il meno
felice Edgar (1889) il
vero grande successo e il primo
grande risultato erano arrivati
con la terza opera, Manon
Lescaut (1893), ancora
legata al tardo romanticismo ma
già estranea al mondo di Verdi;
la quarta, La Bohème
(1896), si distaccò da quanto
esisteva fin allora, e creò un
teatro musicale non più del
tutto ottocentesco e già
orientato, col suo nervoso e
agile discorso (un inquieto
sinfonismo, solo apparentemente
vocalistico) verso l’ormai
vicino Novecento. Sempre, ormai,
con grande successo mondiale
seguirono la Tosca
(1900), poi, a tre mesi una
dall’altra, nel 1904 le due
prime versioni di Madama
Butterfly (le altre
seguirono fino al 1907); poi
l’opera “western” La
fanciulla del West (1910),
La rondine (1917), il Trittico
(Il tabarro, Suor
Angelica, Gianni
Schicchi, 1918), Turandot
(1924, data postuma nel 1926 con
finale completato da Franco
Alfano sugli abbozzi di
Puccini). Nello scegliere ll
soggetto della sua sesta opera
(quella che sarebbe stata poi Madama
Butterfly) Puccini aveva
esitato a lungo. Scegliere il
testo letterario dal quale far
trarre il libretto da musicare,
per Puccini fu sempre una
indagine difficile e
attentissima. È un aspetto della
sua indole di artista scrupoloso
e minuzioso, tanto diversa da
quella idea di “facilità”
suggerita da alcuni lati della
sua produzione.
Prima
di trovare a Londra il soggetto
della Butterfly, Puccini
aveva esaminato e scartato, tra
gli altri, il romanzo Cento
anni di Giuseppe Rovani,
l‘Adolphe di Benjamin
Constant, La locandiera
di Goldoni (musicata poi da
Mario Persico), Cyrano de
Bergerac (musicato poi da
Alfano), Notre-Dame de Paris
di Victor Hugo, Da una casa
di morti di Dostojevski
(musicato poi da Janáček),
perfino Pelléas et Melisande
di Maeterlinok (ma stava
musicandolo Debussy) e anche una
Maria Antonietta, e
finanche Tartarin de
Tarascon di Daudet: questi
ultimi due, fino a metterli in
lavorazione per poi piantarli in
asso. Ci fu anche un nuovo
tentativo di accordarsi con
D’Annunzio, ancora fallito; le
sensibilità dei due erano troppo
diverse e: “troppa distillazione
ubriaca, e io voglio restare in
gamba”, aveva scritto Puccini a
Illica.
Infine,
nell’estate del 1900, a Londra
per recite di Tosca,
Puccini venne indotto a vedere
un “dramma giapponese"
dell’americano David Belasco
tratto da un racconto di un
altro americano, John Luther
Long: Madam Butterfly.
AI Duke of York Theatre, Puccini
pur non capendo l’inglese (e men
che mai il patois
anglonipponico di maniera), si
entusiasmò al soggetto e al suo
effetto patetico, e alla fine si
precipitò ad abbracciare Belasco
e soprattutto a chiedergli il
permesso di musicare il
soggetto. Belasco disse subito
di sì all‘“impulsive
Italian” che aveva il non
piccolo vantaggio di essere già
celebre.
Racconto
e pièce di teatro erano
nati da una moda letteraria
“giapponesca” viva da almeno
quindici anni, e da un romanzo
in cui Pierre Loti, al secolo
Julien Viaud, ex ufficiale della
Marina francese, raccontava una
sua esperienza in Giappone,
dove, secondo una abitudine
alquanto colonialista, gli
ufficiali delle marine
occidentali ivi distaccati
"sposavano" a pagamento e a
termine una ragazza giapponese
più o meno di piacere, secondo
le leggi del paese. Da quando,
nel 1854, le cannoniere del
commodoro Perry avevano imposto
i traffici occidentali, oppio
compreso, ai porti giapponesi
(poi aperti ufficialmente agli
stranieri solo nel 1868), gli
occidentali si consideravano in
terra di conquista e agivanodi
conseguenza.
Il
libro di Viaud-Loti, Madame
Chrysanthème, diede spunto
al racconto di Long, dove si
mescolava l’avventura di Loti a
Nagasaki con un fatto accaduto
davvero; malgrado la bomba
atomica del 1945, a Nagasaki c’è
ancora, su una collina sopra la
città, la casetta dove il fatto
avvenne; ed è diventata una
specie di museo turistico
"Puccini-Butterfly". Tra la
protagonista di Loti e quella di
Long-Belasco c’era qualche
differenza; la Chrysanthème di
Loti si affrettava a verificare
il danaro lasciatole dal
"marito", mentre lui, in
partenza definitiva, era ancora
fuori dell’uscio; invece presso
i due scrittori americani
esplodeva una “tragedy of
Japan”, per cui la giapponesina,
dopo essersi illusa di esser
davvero amata, di esser davvero
la moglie americana
dell’ufficiale USA, e dopo
averne avuto un bambino, si
uccideva col rituale Harakiri
quando scopriva che lui l’aveva
lasciata e aveva sposato
un’americana autentica.
Prima
di cominciare il lavoro, Puccini
meditò ancora per qualche mese,
mentre si intrecciavano le
trattative editoriali per
definire il lato commerciale
dell’operazione. Poi convoco i
librettisti, ancora (per
l’ultima volta) Luigi Illica e
Giuseppe Giacosa come per Bohème
e per Tosca; e cominciò
la tipica collaborazione-lotta
tra Puccini e i due letterati.
Non meno di Verdi, se non ancora
di più, Puccini esponeva le sue
idee sull’impianto drammatico,
anzi le imponeva, dettando la
sua volontà su tutto.
Probabilmente Puccini non si
scriveva i libretti da sé
soltanto perché si riteneva non
abbastanza letterato, malgrado
le tante poesie che aveva
l’abitudine di scrivere, più
spesso scherzose e goliardiche,
ma talvolta patetiche e cupe.
Ma, a parte ciò, il vero autore
dell’opera e non soltanto della
musica, era lui. Questo costava
ai librettisti non pochi
dispiaceri e complicate fatiche.
Esigente e difficile con se
stesso (vedere i suoi
pentitissimi,
scarabocchiatissimi abbozzi,
terrore dei copisti di Casa
Ricordi), non era meno spietato
con i suoi collaboratori.
Anche
stavolta non fu diverso.
Il
dramma di Belasco era in un
atto; Puccini ideò di premettere
un prologo, che sarebbe poi
diventato il primo atto;
immaginò poi di far seguire due
atti “belli lunghi" (così
scriveva a Giulio Ricordi), uno
collocato in America e l’altro
in Giappone, derivandone il
contenuto dal racconto di Long;
infine si concentrò soltanto sul
Giappone. I librettisti si erano
illusi di aver lavoro meno
tormentato del solito. Si
sbagliavano. Però non potevano
immaginare che a Puccini, fin
allora accolto, alla peggio,
cordialmente (Edgar) e
ormai avviato ai trionfi
mondiali, potesse toccare il
fiasco che invece subì.
Tra le questioni che sorsero
durante il lavoro c’era quella
della suddivisione: due atti
"belli lunghi" o tre atti
normali? Illica aveva ideato una
diversione al consolato
americano che avrebbe dovuto
formare l’atto centrale; però
Puccini nel novembre 1902
spiegava a Giulio Ricordi,
l’editore-papa, che "il
Consolato era un grave sbaglio,
il dramma deve correre alla fine
senza interruzioni, serrato,
efficace, terribile..." Come poi
da questo ideale di “serrato”
Puccini, Illica e Giacosa
potessero arrivare al primo atto
come venne presentato alla
Scala, pieno di dispersioni, non
è facile capire. Comunque, né
Ricordi né Giacosa erano
convinti dei due atti "belli
lunghi", anche se Puccini, nel
dichiarare che "il primo dura
un'ora buona, il secondo un'ora
e più", aggiungeva: "Ma quanta
efficacia!". Oggi, a versione
originaria riascoltata, possiamo
giudicare che avesse ragione
Puccini sotto certi aspetti (con
intuizione allora alquanto
inattuale), ma che per altri
avessero ragione i librettisti e
l’editore. Il disaccordo si
inasprì: Giacosa si dimise,
spiegando con molta chiarezza
perché, secondo lui, "tra la
vana attesa notturna e il
riapparire di Pinkerton" ci
volesse "una calata di sipario".
Ma la spuntò Puccini; dopo il
fiasco, si giudicò che avesse
avuto torto, almeno presso il
pubblico di allora, un pubblico
non abituato alle durate d’atto
wagner-straussiane, un pubblico
che cercava i pezzi chiusi e li
vedeva anche dove non c’erano, e
che spezzettava gli atti con
applausi a scena aperta
chiamando alla ribalta, se il
brano era piaciuto molto, anche
l'autore.
Quasi
assieme al lavoro per la Butterfly,
Puccini aveva dato inizio anche
ad un’altra attività non
professionale, quella di
automobilista pioniere; tra i
primi in Italia aveva comperato
“un” (come si diceva allora)
automobile, una De Dion Bouton
di potenza media; a quella
sarebbero seguite altre auto in
buon numero, fino alla costosa,
elegante, veloce e avveniristica
Lancia “Lambda” 2000 del 1924.
Non
poteva immaginare che sia la Butterfly
sia l’auto gli avrebbero
procurato due dei peggiori
momenti della sua vita. Cominciò
l’auto: una serataccia invernale
del 1903 il musicista finì fuori
strada con la vettura; se la
cavò per un pelo; trovato sotto
la macchina capovolta, pieno di
fratture, dovette rimanere in
carrozzella per molto, e poi
ancora a lungo con una gamba
ingessata, tanto che quando potè
rimettersi a comporre, dovette
far venire a Torre del Lago un
pianoforte a coda per potervi
infilare sotto l'arto col gesso,
diversamente quell'ingombro
rigido avrebbe urtato nel
cassone dei pianoforti verticali
che il maestro adoperava
abitualmente, com’è il Foerster
che è tuttora nella casa-museo
di Torre.)
Già
quel periodo non era stato dei
piu tranquilli per lui, c’erano
dissapori familiari anche dovuti
a una delle sue scappate
erotiche; l’incidente d’auto non
soltanto interruppe il lavoro
per Butterfly, ma cadde
su un uomo già affaticato, e
dovette compromettere la sua
efficienza non solamente fisica.
Nel
foggiare l’opera, Puccini aveva
badato molto all‘ambientazione
giapponese dandole molto spazio
(anche troppo, vedremo); ma
aveva anche accentuato un
aspetto che nei testi d’origine
era meno intenso: il sentimento
ingenuo della protagonista,
l’amore genuino per il “marito”
americano. La musmè di
Pierre Loti, la Chrysanthème,
non ne provava affatto, come
abbiamo visto. Sviluppando
quanto accadeva nel racconto di
Long e nel dramma di Belasco,
Puccini volle una Cio-Cio-San
imprigionata nell’illusione di
essere amata davvero, di essere
diventata cittadina americana
con pieni diritti, di poter
rivedere il marito e padre del
bambino nato nel frattempo, di
vivere ancora con lui.
Per
dare verità all’ambientazione,
Puccini si era documentato, come
del resto aveva già fatto per la
Roma papale della Tosca;
si era rivolto alI’attrice
giapponese Sada Yakko e alla
moglie dell'ambasciatore del
Giappone a Roma (“la giapponese
ministressa"); aveva raccolto
notizie sugli usi e costumi,
sulle movenze di laggiù, aveva
raccolto motivi musicali
nipponici originali. A questi,
poi, affiancò altri motivi di
tipo giapponese inventati da lui
adoperando le due scale
nipponiche, quella tipicamente
orientale pentafonica antica
(cinque note: due toni, un tono
e mezzo, un tono; come sui tasti
neri del pianoforte, per
intenderci) e l’altra detta
"moderna". Quella antica doveva
piacergli già di per sé, visto
che nella Tosca, dove
l’Oriente non c‘entra, l’aveva
adoperata. La seconda scala si
collegava con un’altra
particolare, che allora era
d’avanguardia, quella esatonale
(sei toni interi) che divenne
piu nota come “scala debussyana”
perché Debussy la adoperò molto
largamente e in maniera
caratteristica. Ma questa,
Puccini aveva cominciato ad
usarla, sia pure moderatamente,
nella Manon Lescaut
(1892-93), dunque
contemporaneamente a Debussy
senza conoscerlo; e anche
Mascagni nell’Iris
(1896), altra opera
“giapponese”.
Del
“caso Puccini” fa parte anche
l’esser stato considerato un
abilissimo assimilatore di
aggiornamenti, soprattutto
dell’area francese
impressionista (Debussy, Ravel);
eppure, in realtà aveva già
cominciato ad usare (sempre
moderatamente, questo sì certi
procedimenti quando i due
francesi erano ancora un
giovinetto e un ragazzetto (vedi
i primi due accordi iniziali di
Le Villi, 1884); dunque
il suo aggiornamento è, almeno
in parte, un evolversi di quelle
tendenze, sia pure incoraggiato
dai risultati tecnici ed
espressivi raggiunti ampiamente
dai colleghi francesi.
Il
maestro aveva riservato cure
speciali all’entrata della
protagonista al primo atto; ne
aveva circondato la voce sempre
più vicina con una
orchestrazione raffinatissima,
quasi cameristica, e aveva
ideato un giro armonico non solo
con accordi esatonali, ma
addirittura con un percorso di
tonalità basato sulla scala
esatonale.
La
prima rappresentazione, ormai
fissata per il 17 febbraio 1904
a Milano, Teatro alla Scala,
trovò Puccini convinto del
lavoro fatto. Alla prova
generale, l’orchestra aveva
applaudito; la protagonista era
Rosina Storchio, una celebrità;
dirigeva Cleofonte Campanini, un
maestro di spicco, amante del
moderno. Eppure, qualcuno non
era d’accordo, c’era qualche
voce presaga di sciagure.
Toscanini, per esempio,
avvertiva che per lui l’opera
era “troppo lunga e
malsagomata", e ammoniva:
"Andrete al macello".
E "macello" è il termine più
adatto per riassumere quella
serata. Tutto divenne occasione
per incrudelire: dalla
messinscena, a credute
reminiscenze dalla Bohème
o dall’Iris di Mascagni.
D’accordo con i librettisti e
con l’editore, Puccini ritirò lo
spaitito quella notte stessa.
In
genere si è sempre creduto che
la Butterfly trionfante
tre mesi dopo al “Grande” di
Brescia e poi applaudita in
tutto il mondo fosse diversa da
quella fischiata alla Scala
soltanto per piccoli ritocchi,
per avere in più un pezzo del
tenore ("Addio, fiorito asil",
poco prima della fine) e
soprattutto perché era in tre
atti invece che in due, avendo
Puccini suddiviso quello che era
il secondo. lMa da pochi anni si
sa e finalmente si scrive che
neppure la Butterfly
acclamata a Brescia era uguale a
quella che si dà oggi, che le
versioni della Butterfly
non sono due ma quattro; e
soprattutto si è potuto sapere e
ascoltare come fosse realmente
la Butterfly fischiata,
perché nel marzo 1982 alla
“Fenice” di Venezia essa è
ritornata in scena, accanto alla
versione abituale, per
confronto.
Lì
per lì il fatto potrebbe anche
non sembrare molto rilevante; in
realtà è il momento culminante
di tutta una operazione dapprima
critico-musicologica e poi,
appunto, di verifica pubblica in
teatro; per effetto di questa
operazione Madama Butterfly
è diventata adesso una delle
chiavi (se non addirittura la
chiave) per capire Puccini e il
suo “caso” (sembra strano,
eppure è esistito un “caso
Puccini”, non ancora
completamente sciolto), per
scoprire meglio e più a fondo
quale sia la sua levatura di
musicista in assoluto, e di
compositore di teatro. La Butterfly
rimane ancora, certamente,
l’opera popolarissima, perfino
disprezzata da certi
pseudoraffinati amanti della
cultura punitiva; continua a
poter piacere, soddistare, ad
essere amata, può legarsi alla
memoria, ai sentimenti, alle
emozioni di chiunque, senza
apparenti complicazioni
intellettuali, solamente col
potere immediato della musica e
dei suoi "motivi" e con le sue
possibilità di effetto vocale,
che com’è noto è un effetto
emotivo; può continuare a
sembrare un’opera facile, per
alcuni fin troppo facile
(aggettivo usato spesso per
Puccini); ma, per effetto di
quella operazione veneziana
legata alle sue differenti
versioni e soprattutto alla
prima, la Butterfly è
diventata l’opera di Puccini più
importante: in certo senso,
grazie anche a quello screanzato
fiasco iniziale. Messa in piena
luce, più delle altre sue opere
ha offerto occasione di studio;
con nuova attenzione sono stati
utilizzati documenti, in buona
parte non nuovi ma finora
trascurati, sugli arnesi di
lavoro di Puccini compositore.
Per questo, adesso, anche
parlando della piu “normale”
esecuzione di Butterfly
non si può evitar di accennare a
questa operazione e al suo
signiticato.)
Come dicevo, tutti credettero e
scrissero che le modifiche (“di
poco conto”) fossero state
soltanto quelle che ho elencato
all’inizio, e che la Butterfly
acclamata a Brescia il 28 maggio
1904, ancora diretta da
Campanini ma con la Krusceniski
protagonista, fosse identica a
quella che si dà adesso
abitualmente. Ma nessuna delle
due cose è vera. D’altra parte,
Puccini stesso, dichiarando
all’inizio: "La mia Butterfly
rimane qual è...", aveva
contribuito a tendere alcune
trappole, che in seguito si
consolidarono e si complicarono.
La modifica più importante era
l’entrata di Cio-Cio-San. Questo
episodio mantenne effettivamente
lo stesso numero di battute, lo
stesso giro di tonalità lungo
una Scala esatonale (la bemolle,
si bemolle, do, re, mi, sol
bemolle) e la stessa
orchestrazione cameristica (un
violino, una viola, un
violoncello, su viole divise e
tremolate, violoncelli e
contrabbassi "pizzicati",
violini divisi, clarinetti e
corni "pp", arpa in suoni
armonici, campanelli, coro
dapprima interno); ma lo spunto,
che era abbastanza statico e
piatto, con pochissimi tocchi
venne trasformato e
trasfigurato: nella nuova
versione la curva melodica è più
fluida, il ritmo diviene
“puntato”, e dunque più
vibrante; e soprattutto, al
posto dell’accordo di tonica
"fermo", quello con la “settima
maggiore” (e con il suo rivolto
agrodolce, la "seconda minore")
dà vita al tutto e crea un
profumo e un fascino che si
proiettano poi su tutta l’opera,
e non soltanto dove questo
motivo riappare. Anche i momenti
successivi, che svolgono via via
il motivo, erano abbastanza
piatti e banali, e presero il
nuovo, ben più alato aspetto.
Spariva così anche una pretesa
reminiscenza della Bohème
(“...il primo sole è mio!”). Per
il resto, Puccini tolse ben poco
dagli spunti ridicoli
antigiapponesi che appesantivano
il primo atto (rimase quasi
tutta la parte di un secondo
zio, l'ubriacone Yakusidé),
eliminò qualche raccordo
orchestrale, divise in due il
famoso secondo atto, aggiunse
"Addio, fiorito asil" per il
tenore al posto di un semplice
"Mi passerà", modificò
radicalmente la seconda parte di
"Tu, tu, piccolo Iddio" ("O a
me, sceso dal trono"),
togliendone alcune frasi belle
ma divaganti e dando slancio
disperato ad una melodia che
prima, stancamente, ricadeva su
se stessa. Abbreviò anche la
pagina finale, rendendo più teso
e più bruciante il suicidio di
Cio-Cio-San, che prima era una
insistita, grave cerimonia.
Queste
modifiche, e soprattutto quella
apparentemente piccola ma
fondamentale dell’entrata di
Cio-Cio-San al primo atto,
davanti al pubblico di Brescia
ressero i pesi morti
antigiapponesi che ancora
gravavano il primo atto: i tre
servitori gialli chiamati da
Pinkerton "i tre musi", una
ancor lunga, grottesca parte
lasciata al secondo zio beone
(specie di riscontro allo zio
bonzo austerissimo), alquanti
episodi dispersivi dove i
giapponesi e i loro costumi
apparivano sciocchi e pitocchi;
e fu il grande successo ben
noto. Però l’opera subì ancora
almeno altre due revisioni, nel
1905 per Londra, e nel 1906 per
Parigi; soltanto allora
sparirono del tutto le apostrofi
ai “tre musi”, lo zio beone
Yakusidé venne ridotto a
pochissime battute, e vennero
eliminati gli assalti dei
ragazzini ai dolci; sparì anche
una diversione conversativa a
metà del grande duetto d’amore
che chiude il primo atto;
inoltre Kate Pinkerton, la
moglie americana, venne limitata
a poco più che una presenza vaga
e per questo ancor più
tragicamente incombente.
L’opera, ormai definita in
tutto, girò il mondo più che
mai; e più che mai si continuò a
credere che le versioni fossero
due, e che quella per Brescia
fosse la definitiva, e si
continuò ad ignorare come fosse
stata in origine l’entrata di
Butterfly. L’abitudine a non
prender sul serio Puccini impedì
di far caso, per esempio, agli
spartiti stampati delle varie
versioni; quelli “diversi”
venivano tutti creduti della
prima, ormai sconoscluta, e ne
nacquero non pochi equivoci.
Rettificati questi equivoci
negli ultimi anni, si è giunti
infine alle verifiche in teatro
a Venezia, come già ricordato. E
in tale occasione parte della
critica si è schierata a favore
della prima versione per quanto
riguarda il secondo atto, in
certo senso più “moderno”,
rischiando però di dimenticare
che tra i gravi difetti del
primo atto quelli musicali
(entrata) si proiettavano su
tutta l’opera, così come su
tutta l’opera si proietta la
luce della sua modifica
"incomparabilmente superiore"
(come giustamente osservava
Fedele D’Amico). Ad ogni modo,
chi considera perfetta la quarta
e ultima versione può
apprezzarla ancor rneglio quando
ne conosca la differenza
soprattutto con la prima e con
la seconda.
Oggi quest’opera che il suo
editore Giulio Ricordi, gran
protettore di Puccini, definiva
“un peso piuma”, si rivela una
delle prove più adatte a
chiarire come Giacomo Puccini,
già etichettato come “musicista
delle sartine“, sia invece uno
dei maggiori maestri nel teatro
musicale del primo Novecento
europeo.
E
ancora una volta, qui Puccini
afferma la quasi miracolosa
efficacia del suo stile "di
conversazione". A ben guardare,
soltanto in poche pagine il
canto si trasforma veramente in
melodia spiegata o in "romanza".
E gli unici brani che la
consuetudine ha considerate come
pezzi chiusi e staccabili, sono
il battutissimo "Un bel dì
vedremo", “Addio, fiorito asil”
e "Tu, tu, piccolo Iddio". Ma il
più conformista e probabilmente
il pezzo per il tenore - una di
quelle pagine che Puccini
chiamava ironicamente "aria del
paltò" perché, poste quasi alla
fine dell’opera, segnavano lo
sgattaiolare dei mariti verso i
guardaroba. “Un bel dì vedremo”
lascia il canto del soprano
sospeso sull’acuto, mentre la
melodia si conclude in
orchestra; “Tu, tu, piccolo
Iddio” non ha conclusione, e
termina su un cedere stanco
dell’orchestra, trafitto da un
dolente e dissonante ribattere
della tromba. Ma quante
impennate emozionanti, per chi
sente il lirismo che c’è in
Puccini unito a tanti altri
aspetti: dal duetto del primo
atto, all'esplodere della gioia
di Cio-Cio-San nel secondo
quando scorge la nave di
Pinkerton; al celebre coro a
bocca chiusa, che nelle versioni
rivedute termina il secondo atto
separato dal terzo. Ma il
momento magico rimane l’entrata
di Cio-Cio-San dove nasce quello
che lungo l'opera diventa il
tema di lei, così come Puccini
lo modificò; da quel profumato,
agrodolce secondo accordo con la
"seconda minore" sembra
sbocciare tutto il fascino
dell’opera e del personaggio.
Era l‘insieme che faceva
sembrare “unanständig”
(sconveniente) quest’opera a
Ferruccio Busoni: i padri del
Novecento musicale talvolta sono
stati anche i genitori dei suoi
pregiudizi. "Peso piuma"? Ma
anche le parti “leggere”
esprimono - e con quale
eleganza! - i giusti sentimenti
dei tenui protagonisti. È stato
detto che da Madama
Butterfly esce un Giappone
da cartolina; ma non va
dimenticato quale senso abbiano
anche le cartoline nelle pieghe
dell’animo umano. E poi, da
quella “cartolina" emergono
trafitture tragiche; quelle che
Puccini ottiene, per esempio,
adoperando a modo suo "accordi
di Tristano" (uno ha anche un
intervallo dissonante in più), o
con l’accordo finale dell’opera
non risolto, che ci fa credere
di udire un’aspra dissonanza,
mentre nella "materia" essa non
è presente: sul si basso
(eravamo in si minore) piomba
l’accordo di sol maggiore
rivoltato, e il fa diesis di si
minore (che in realtà non c’è
più) sembra urtare contro il sol
di quella inattesa scure sonora.
Anche nell’ottenere effetti come
questo Puccini era un maestro
(vedi il finale del secondo atto
della Tosca, col “totale
cromatico” fatto udire
stemperato ma anche amalgamato
idealmente nelle ultime
battute).
Alfredo
Mandelli
dell'Istituto
di Studi Pucciniani
La Trama
ATTO PRIMO
Su una collina presso
Nagasaki il luogotenente
Pinkerton, uno degli
ufficiali della marina
statunitense di stanza nella
città giapponese, ha appena
comprato “per 999 anni” una
casetta e ne prende ora
possesso, accompagnato dal
sensale di matrimoni Goro.
Questi mostra a Pinkerton
tutte le caratteristiche e
singolarità della casetta e
gli presenta i servitori,
anch’essi compresi nel
contratto di acquisto.
Tramite Goro, l‘ufficiale
americano ha anche
“acquistato” una moglie
giapponese, Cio-Cio-San,
detta Butterfly, ed ora sta
attendendo il suo arrivo per
la celebrazione delle nozze
secondo l’uso giapponese
("per novecentonovantanove
anni - salvo a
prosciogliersi ogni mese").
Giunge poco dopo il console
statunitense Sharpless, che
nel brindare con Pinkerton
rimane sorpreso dalla sua
fatua e frivola filosofia
matrimoniale. Sharpless, pur
non avendo visto ancora
Butterfly, ne ha però udito
la voce al consolato qualche
giorno prima e ne è stato
profondamente colpito;
ammonisce ora Pinkerton a
rispettare la sincera
dedizione della sua promessa
sposa. Ma quando Sharpless
brinda alla famiglia lontana
di Pinkerton, questi replica
brindando al giorno in cui
convolerà a nozze con una
"vera sposa amerioana"!
Appaiono quindi
Butterfly e le sue amiche.
In modo assai cortese e
garbato Cio-Cio-San comincia
a conversare con i due
americani: narra loro che
dopo la morte del padre è
rimasta sola con la madre,
cadendo in grande povertà, e
che per sostentarsi è stata
costretta a fare la geisha;
poi rivela la sua età: 15
anni. Insieme col
commissario imperiale e
l’ufficiale di Stato civile
giungono frattanto i
numerosi parenti di
Butterfly, che con i loro
garruli ed anche inopportuni
commenti sugli sposi
ritardano l’inizio della
cerimonia nuziale. Tutto ciò
diverte molto Pinkerton, rna
Goro ne è indispettito e
cerca di ristabilire
l‘ordine e il silenzio.
Prima che la
celebrazione delle nozze
abbia inizio, Butterfly
rivela a Pinkerton di
essersi recata il giorno
prima alla Missione per
convertirsi alla religione
cristiana; così ora potrà
pregare il medesimo Dio del
marito. I due funzionari
giapponesi celebrano il
breve rito nuziale e quindi
fanno ritorno in città,
accompagnati da Sharpless;
ma prima di allontanarsi il
console ammonisce ancora una
volta Pinkerton. I
festeggiamenti nuziali, un
po’ formalistici, cominciano
ad infastidire Pinkerton,
quando irrompe d’improvviso
nel bel mezzo della festa un
parente di Cio-Cio-San, lo
zio Bonzo: ha scoperto che
Butterfly si è convertita al
Cristianesimo e la accusa
davanti a tutti di aver
rinnegato la fede degli avi.
Tutti i parenti si
allontanano indignati,
mentre Butterfly scoppia in
lacrime. Pinkerton, dopo
aver rincuorato la sua
sposa, a poco a poco ne
vince la ritrosia -
nell’incanto della serena
notte stellata riecheggia il
loro appassionato duetto
d'amore.
ATTO SECONDO
Parte prima
Son trasoorsi tre anni da
quando Pinkerton ha lasciato
Nagasaki. Nella casetta
sulla collina è rimasta con
Butterfly solo Suzuki, la
fedele inserviente. Le due
donne sono ridotte in
estrema povertà; ma
Cio-Cio-San, convinta che
Pinkerton tornerà presto,
attende fiduciosa e serena.
Nella casa di Butterfly si
presenta Sharpless,
introdotto da Goro: il
console americano ha
ricevuto una lettera da
Pinkerton e vorrebbe
leggerla a Cio-Cio-San. Ma
le accoglienze premurose e
cerimoniose di lei, quindi
una sua domanda ingenua e
infine l’arrivo del ricco
principe Yamadori,
innamorato di Butterfly, non
consentono in un primo tempo
a Sharpless di leggergliela.
Goro vorrebbe combinare un
matrimonio tra Yamadori e
Cio-Cio-San, ma questa
ribadisce di essere sempre
la moglie di Pinkerton,
anche se per la legge
giapponese non lo è più.
Goro informa poi sottovooe
Yamadori e Sharpless che la
nave di Pinkerton è stata
segnalata nel porto di
Nagasaki. Quando Yamadori si
è allontanato, Sharpless
comincia a leggere, più
volte interrotto da
Butterfly, la lettera di
Pinkerton. Accorgendosi che
Butterfly è sempre
fermamente convinta che
Pinkerton voglia tornare a
lei, il console non ha più
l’animo di continuare la
lettura e le chiede cosa
farebbe se Pinkerton non
tornasse mai più.
Cio-Cio-San rimane sconvolta
a questa domanda e mostra a
Sharpless il bambino che ha
avuto da Pinkerton. Sorpreso
e commosso, Sharpless
promette a Butterfly di
informarne Pinkerton, ancora
ignaro di avere un figlio, e
quindi si allontana.
Si odono intanto
le grida di Suzuki,
indignata per le maligne
insinuazioni di Goro sulla
paternità e legittimità del
bambino di Butterfly.
Adirata, Cio-Cio-San scaccia
Goro. Ma ecco che un colpo
di cannone nel porto
annuncia l’arrivo di una
nave. Suzuki e Butterfly
corrono verso il terrazzo
per vedere: è la “Abramo
Lincoln”, la nave di
Pinkerton! Butterfly sente
che il suo amore e la sua
fede hanno trionfato e,
insieme con Suzuki, comincia
ad adornare la casetta di
fiori colti dal giardino,
per dare il benvenuto a
Pinkerton. Intanto cala la
notte - Butterfly indossa la
sua veste di sposa e, fatti
tre forellini nel paravento
di Carta per guardare giù
per la collina, si prepara a
vegliare con il bambino e
Suzuki fino all’arrivo del
marito.
Parte seconda
Allo spuntar del
giorno, Butterfly è ancor
sempre in attesa, mentre
Suzuki e il bambino si sono
addormentati. Suzuki,
svegliata di soprassalto,
esorta Cio-Cio-San a
prendere un po’ di riposo
insieme col bambino.
Giungono Pinkerton e
Sharpless, ma non vogliono
che Suzuki desti ora la
padrona. Pinkerton apprende
con quanta devozione e
fedeltà Butterfly ha atteso
per tre anni il suo ritorno
- ma ben presto Suzuki
scorge una donna fuori in
giardino, e Sharpless non
può nasconderle la verità:
quella donna è la moglie
americana di Pinkerton, ed
essi son venuti soltanto per
chiedere a Butterfly di
affidar loro il bambino.
Sharpless spera che Suzuki
possa aiutarli ad
intercedere presso
Butterfly. Consapevole della
sventura irreparabile che ha
causato, straziato dal
rimorso, Pinkerton fugge,
lasciando agli altri il
doloroso compito di parlare
con Butterfly e di
convincerla a rinunciare al
bambino.
Cio-Cio-San si è
intanto svegliata ed accorre
precipitosa nella stanza
sperando di incontrare
Pinkerton. Non vedendolo,
interroga Suzuki. Le sue
risposte evasive, il
silenzio di Sharpless e la
presenza in giardino di Mrs
Pinkerton rivelano
indirettamente a Butterfly
la terribile verità. Senza
che nessuno gliel’abbia
chiesto apertamente,
Butterfly comprende che
vogliono ora privarla anche
del figlio. E si dichiara
disposta a consegnare il
bambino a Pinkerton se verrà
a prenderlo lui stesso.
Allontanatisi
Sharpless e Mrs Pinkerton,
Butterfly ordina a Suzuki di
andare a giocare col
barnbino e la spinge fuori.
Rimasta sola, prende il
pugnale con il quale s‘era
suicidato il padre. Sta per
puntarselo alla gola, quando
entra nella stanza il
bambino, spintovi da Suzuki.
Butterfly dà l'addio al
figlio, gli benda gli occhi
e lo pone su una stuoia a
giocare; poi si porta dietro
il paravento e si trafigge -
cade esanime proprio
nell’istante in cui
Pinkerton e Sharpless
accorrono presso di lei.
Kenneth
Chalmers
(Traduzione:
Gabriel Cervone)
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