DG - 1 LP - 410 863-1 - (p) 1984
DG - 1 CD - 410 863-2 - (p) 1984

Robert SCHUMANN (1810-1856)






Symphonie Nr. 2 C-dur, Op. 61
36' 51"
- 1. Sostenuto assai - Allegro, ma non troppo 11' 52"

- 2. Scherzo. Allegro vivace 6' 49"

- 3. Adagio espressivo 11' 16"

- 4. Allegro molto vivace 7' 54"





Manfred, Op. 115
12' 10"
- Ouvertüre 12' 10"





 
WIENER PHILHARMONIKER
Giuseppe SINOPOLI
 






Luogo e data di registrazione
Grosser Saal, Musikverein, Wien (Austria) - giugno 1983

Registrazione: live / studio
studio

Production
Günther Breest

Recording Supervision
Wolfgang Stengel

Recording Engineer
Karl-August Naegler

Editing
Jobst Eberhardt

Prima Edizione LP
Deutsche Grammophon | 410 863-1 | LC 0173 | 1 LP - 50' 31" | (p) 1984 | Digital

Prima Edizione CD
Deutsche Grammophon | 410 863-2 | LC 0173 | 1 CD - 50' 31" | (p) 1984 | DDD

Note
-















Nell’autunno del 1844 Robert Schumann si trasferì con la famiglia da Lipsia a Dresda. In quel periodo il compositore versava in uno stato di forte esaurimento nervoso, e i primi mesi passati a Dresda furono offuscati da ripetuti attacchi di questa malattia: Schumann soffriva di gravi depressioni accompagnate da insonnia e stati d’angoscia. Ma un’operosità instancabile era un suo tratto tipico e così non appena la sua salute migliorò, egli si dedicò intensamente agli studi di contrappunto. Nel 1845 furono composti gli Studi per pianoforte con pedaliera op. 56, le Sei Fughe sul nome BACH op. 60 e le Quattro Fughe op. 72; tutte queste opere sono una testimonianza del confronto creativo di Schumann con l’arte polifonica di Johann Sebastian Bach.
Durante questo periodo così critico Schumann concepì ancora la Seconda Sinfonia in do maggiore op. 61 (nel caso che se ne considerino i tempi di composizione si tratterebbe invece della sua Sinfonia n. 3). “Io l’ho schizzata quando ancora stavo fisicamente molto male” - così poi disse una volta in un colloquio - “e posso senz’altro affermare che era la resistenza opposta dallo spirito ad esercitare qui una sensibile influenza e a far sì che io mi sforzassi di combattere contro le mie condizioni di salute. Il primo movimento è ampiamente improntato a tale contrasto interiore e ha un carattere molto capriccioso e ribelle.” È possibile che tale affinità con Beethoven, che si manifesta soprattutto nel movimento iniziale, sia un sintomo di questo atteggiamento interiore.
La Seconda Sinfonia di Schumann si distingue per ricchezza di fantasia corne per rigore costruttivo. Quella “capacità di combinare in profondità”, che egli ammirava in Bach, dà la propria impronta a diverse parti di questa Sinfonia. Da un punto di vista strutturale colpiscono innanzi tutto le correlazioni tematiche tra i movimenti. Così l`introduzione di tempo lento presenta anticipatamente l’intero materiale tematico del movimento iniziale. Inoltre le solenni sonorità degli ottoni nell’introduzione ritornano anche verso la fine del primo movimento, dello Scherzo e del finale. Nel secondo movimento uno Scherzo irrequieto e fantasioso si alterna con due Trii contrastanti, di cui il primo ha un carattere leggero e giocoso, mentre il secondo ha una trasparenza canieristica. L’Adagio espressivo, senza dubbio uno dei piu bei movimenti lenti di Schumann, offre un’interpretazione romantica della cantabilità bachiana: il motivo iniziale del suo tema così vibrante è ispirato ad un’idea dell’Offerta musicale di Bach (dal Largo della Sonata n. 5). Nel finale Schumann pone di fronte al ditirambico tema principale l’espressiva idea del1’Adagio, che viene sottoposta a trasformazioni fantasiose. Inoltre si ha qui un’ulteriore sorpresa: il nuovo tema, impiegato soprattutto nella seconda parte del movimento, è una citazione d’un Lied di Beethoven, tratto dal ciclo All’amata lontana op. 98. E con un appropriate senso allusivo Schumann riprende la musica del verso “Nimm sie hin denn, diese Lieder” ("Accettali dunque, questi Lieder”)!
Il poema drammatico Manfred di Lord Byron fu assai stirnato nel secolo XIX, quasi quanto il Faust di Goethe. Schumann conobbe il poema byroniano nella primavera del 1848 e ne rimase entusiasta. La personalità scissa, lacerata e tormentata di Manfred lo affascinò. Schumann decise subito di scrivere una specie di musica di scena (costituita di un’Ouverture, diversi melodrammi e alcuni cori), e ne cominciò ben presto la composizione. L’Ouverture, composta nell’ottobre del 1848, è concepita come un ritratto del fervido eroe ed è una delle più significative composizioni di Schumann. Essa colpisce sia per la sua logicità di struttura e per la sua ricchezza di sfumature che per la sua intensità espressiva. Non esiste quasi un’altra composizione di Schumann in cui temi fortemente antitetici, elementi melodici e ritmici in reciproco contrasto, rudi conflitti dinamici, passaggi misteriosamente smorzati e violente esplosioni ernozionali riescano a conferire ad un’idea drammatica una qualità espressiva più convincente che quella dell’Ouverture di Manfred.
Constantin Floros
(Traduzione: Gabriele Cervone)
Alcune note su sanità e malattia nell'invenzione schumanniana a proposito della II Sinfonia
Con Schumann inizia, e con tutte le conseguenze, l’attacco ineluttabile del soggetto ai suoi mezzi di espressione, lo scontro delle tendenze psicosoggettive col materiale depositato dalla storia.
Certo Schumann, da parte della miopia “accademica” che quegli attacchi e scontri non intende, è oggetto di sospetti e critiche limitative che abbracciano l'armonia, l'orchestrazlone, la forma. Ora, il suono schumanniano non nasce da una calibratura dell’orchestra in funzione di un’equa distribuzione dei pesi fonici e timbrici, in rapporto all’analisi armonica e come amplificazione verticale del basso, bensì si forma a priori, intuitivamente, come un bagliore percettivo autonomo.
In questo senso non è tanto, ad esempio, il flauto o la tromba che vengono utilizzati in funzione di una orchestrazione globale, quanto è l’idea psicosoggettiva evocativa del flauto o della tromba che entrano autonomamente nella struttura armonica, portando il loro suono e il loro carattere specifico. Insomma si vuole qui pensare, e forse per la prima volta, insieme a Berlioz, nella storia della musica, a una corrispondenza evocativa dell’immagine timbrica dettata dalla sfera mobile psicologica, con la prima istanza del fatto compositivo.
Le forme paranoico-ossessive schumanniane vanno lette non solo come un dato di cronaca biografica di carattere medico, ma come una delle componenti e delle istanze fondamentali del suo fatto compositivo.
Qui comporre diventa non solo un fatto liberatorio di spinte centrifughe anelanti ad affermazioni d’identità ed a esteriorizzazioni volontaristiche dell’io in cerca di affermazione di potenza, bensì la traccia di una frenesia instabile oscillante tra le csaltazioni ascensionali e positive e gli sprofondamenti ipocondriaci di un soggetto in cui la labilità psichica trovava nella vorticosa instabilità del materiale musicale una sua amplificazione. C’è una “morbidità” quasi perversa nella definizione sonora della nostalgie schumanniane, sia che esse siano storiche, come i fantasmi bachiani nella parte centrale del terzo movimento, sia che ricadano nella sfera del privato, cioè in quel cantarsi addosso, in quel ributtarsi dentro il cervello e dentro la carne un canto che non è dello Spirito, che non è parto dell’equilibrio delle Nature, che non è Estetica, ma antropologia minata e fremente.
Circa cinque annj prima (nel 1840) avrebbe scritto a Clara durante la stesura del Liederkreis su testi di Heine. “... i suoni, la musica mi uccidono in questo momento, sento che potrei morirne. Ah Clara, che felicità divina scrivere per il canto. Ed il canto è sempre della notte: “Vorrei cantare come l’usignolo, fino a morirne”.
Sarebbe ora di smettere di fabbricare continuamente passaporti di sublimazione del corpo attraverso la “profondità” dello Spirito. Il corpo ha degli abissi molto più terrificanti e le lacerazioni tragiche della memoria, o i ponti buttati tra sfere associative inabituali, sono momenti con cui il nostro presente è obbligato continuamente a confrontarsi. In questo senso, e viva Dio, l’arte schumanniana non è la “grande Arte” , quella collegata con le Immobilità astrali dello Spirito, bensì quella che si agita dietro i sobbalzi di una materia minata dalla instabilità psicologica, ma, appunto per questo, nostra, tragicamente attuale.
Sarebbe ora di smettere di giudicare la musica del secolo 19° una faccenda solo di temi e di forme, e di giudicarla più o meno grande, più o meno riuscita solo in virtù della sola corrispondenza tecnica, teorica e astratta a questi parametri.
In questo senso Schumann non passerebbe l’esame; i suoi temi sono spesso brevi o faticosamente sbalzati, spesso costruiti su ritmi continuativamente e ossessivamente puntati, le sue armonie a volte giustapposte senza funzionalità chiarita, le sue forme fatte a pezzi, frantumate, e riincollate con difficoltà.
Il tentativo di creare rapporti o equilibri formali nasce sempre dall’esterno, è artificioso, dolorosamente faticoso e dove, come nel finale, la ripartizione dei periodi è più chiara, più regolare, più simmetrica, è proprio là che la linea globale della forma appare meno convincente.
“Solo nell’ultirna parte mi sentivo rinascere” scriveva Schumann a Otten nel dicernbre 1845 ed è strano che la risoluzione della malattia abbia spento quel terribile fuoco inventivo che bruciava dal di dentro le forme già esistenti e le scuoteva violentemente sotto l’impulso di una febbre eccitante e demoniaca, nei precedenti movimenti. Lo Scherzo recupera il senso della danza storicamente deposto in quella forma altrove che nel 3/4 trasformato adesso in 2/4. E lo recupera “deviandolo”: la frenesia del “continuum” ritrnico dei primi violini s’inchioda periodicamente con le crome degli altri archi, chiodi infuocati che penetrano in un cervello sconvolto dal ritmo ossessivo di una danza infernale. Il recupero del ritmo ternario nel trio è un'apparente quiete, la coda riporterà quella danza al più elevato grado di sopportagione fisica.
È chiaro che l’equilibrio assoluto della forma e la perfezione igienica dell’orchestrazione, quella stessa che faceva esclamare a Mendelssohn, che era bene lavarsi le mani dopo aver sfogliato una partitura di Berlioz, la cediamo volentieri di fronte al bagliore dell’inquietudine schumanniana che in quelle bianche prigioni non riusciva a rinchiudersi, non per scolare incapacità, quanto per psicologica strutturazione che quella scolarità scartava.
Ma il canto che con quella scolarità non aveva da lottare, ma gli volava al di sopra, l’Eusebio irrecuperabilmente e tragicamente melanconico, si librava nel terzo movimento negli abissi più desolati e inconsolabili di quelle regioni dell’anima che sono tutte umane, tutte appassionatamente terrene. E quando la memoria s’insinua, quando i contrappunti bachiani appaiono, nella parte centrale, come lunghissime dita di ragno che tessono nella notte una crudele tela d’argento, segnata, nel cantabile a tratti sincopato che risponde, dalla bava stanca della notte afosa che precede la rugiada del mattino, allora la tristezza ed il terrore insieme sono inenarrabili.
Quando il canto riapparirà ai legni sarà imprigionato da questa tela di ragno che lo soffocherà, lo renderà definitivamente perduto. I rassicuranti corali-maschera di marca luterana in cui trova conforto la spinta trionfalista e ingenua dell’ultimo movimento, sono ben lontani dalla forza inventiva dell’Adagio malato.
Ma laddove il clarinetto compare per riproporre il secondo tema rovesciato che altro non è che il tema dell’Adagio stravolto dall'accelerazione temporale e dall’inversione degli intervalli, la sanità e Vequilibrio cedono, per un attimo, il passo alla memoria personale di quello stato di turbamento e di malattia, e quindi precisamente, a quel tema d’allora che di tale rnalattia appunto è la traccia scolpita.
Giuseppe Sinopoli