|
Nell’autunno
del 1844 Robert Schumann si
trasferì con la famiglia da
Lipsia a Dresda. In quel
periodo il compositore versava
in uno stato di forte
esaurimento nervoso, e i primi
mesi passati a Dresda furono
offuscati da ripetuti attacchi
di questa malattia: Schumann
soffriva di gravi depressioni
accompagnate da insonnia e
stati d’angoscia. Ma
un’operosità instancabile era
un suo tratto tipico e così
non appena la sua salute
migliorò, egli si dedicò
intensamente agli studi di
contrappunto. Nel 1845 furono
composti gli Studi per
pianoforte con pedaliera op.
56, le Sei Fughe sul nome BACH
op. 60 e le Quattro Fughe op.
72; tutte queste opere sono
una testimonianza del
confronto creativo di Schumann
con l’arte polifonica di
Johann Sebastian Bach.
Durante
questo periodo così critico
Schumann concepì ancora la
Seconda Sinfonia in do
maggiore op. 61 (nel caso che
se ne considerino i tempi di
composizione si tratterebbe
invece della sua Sinfonia n.
3). “Io l’ho schizzata quando
ancora stavo fisicamente molto
male” - così poi disse una
volta in un colloquio - “e
posso senz’altro affermare che
era la resistenza opposta
dallo spirito ad esercitare
qui una sensibile influenza e
a far sì che io mi sforzassi
di combattere contro le mie
condizioni di salute. Il primo
movimento è ampiamente
improntato a tale contrasto
interiore e ha un carattere
molto capriccioso e ribelle.”
È possibile che tale affinità
con Beethoven, che si
manifesta soprattutto nel
movimento iniziale, sia un
sintomo di questo
atteggiamento interiore.
La
Seconda Sinfonia di Schumann
si distingue per ricchezza di
fantasia corne per rigore
costruttivo. Quella “capacità
di combinare in profondità”,
che egli ammirava in Bach, dà
la propria impronta a diverse
parti di questa Sinfonia. Da
un punto di vista strutturale
colpiscono innanzi tutto le
correlazioni tematiche tra i
movimenti. Così l`introduzione
di tempo lento presenta
anticipatamente l’intero
materiale tematico del
movimento iniziale. Inoltre le
solenni sonorità degli ottoni
nell’introduzione ritornano
anche verso la fine del primo
movimento, dello Scherzo e del
finale. Nel secondo movimento
uno Scherzo irrequieto e
fantasioso si alterna con due
Trii contrastanti, di cui il
primo ha un carattere leggero
e giocoso, mentre il secondo
ha una trasparenza
canieristica. L’Adagio
espressivo, senza dubbio uno
dei piu bei movimenti lenti di
Schumann, offre
un’interpretazione romantica
della cantabilità bachiana: il
motivo iniziale del suo tema
così vibrante è ispirato ad
un’idea dell’Offerta
musicale di Bach (dal
Largo della Sonata n. 5). Nel
finale Schumann pone di fronte
al ditirambico tema principale
l’espressiva idea del1’Adagio,
che viene sottoposta a
trasformazioni fantasiose.
Inoltre si ha qui un’ulteriore
sorpresa: il nuovo tema,
impiegato soprattutto nella
seconda parte del movimento, è
una citazione d’un Lied di
Beethoven, tratto dal ciclo All’amata
lontana op. 98. E con un
appropriate senso allusivo
Schumann riprende la musica
del verso “Nimm sie hin denn,
diese Lieder” ("Accettali
dunque, questi Lieder”)!
Il poema
drammatico Manfred di
Lord Byron fu assai stirnato
nel secolo XIX, quasi quanto
il Faust di Goethe.
Schumann conobbe il poema
byroniano nella primavera del
1848 e ne rimase entusiasta.
La personalità scissa,
lacerata e tormentata di
Manfred lo affascinò. Schumann
decise subito di scrivere una
specie di musica di scena
(costituita di un’Ouverture,
diversi melodrammi e alcuni
cori), e ne cominciò ben
presto la composizione.
L’Ouverture, composta
nell’ottobre del 1848, è
concepita come un ritratto del
fervido eroe ed è una delle
più significative composizioni
di Schumann. Essa colpisce sia
per la sua logicità di
struttura e per la sua
ricchezza di sfumature che per
la sua intensità espressiva.
Non esiste quasi un’altra
composizione di Schumann in
cui temi fortemente
antitetici, elementi melodici
e ritmici in reciproco
contrasto, rudi conflitti
dinamici, passaggi
misteriosamente smorzati e
violente esplosioni
ernozionali riescano a
conferire ad un’idea
drammatica una qualità
espressiva più convincente che
quella dell’Ouverture di Manfred.
Constantin
Floros
(Traduzione:
Gabriele Cervone)
Alcune note su
sanità e malattia
nell'invenzione schumanniana
a proposito della II
Sinfonia
Con
Schumann inizia, e con tutte
le conseguenze, l’attacco
ineluttabile del soggetto ai
suoi mezzi di espressione, lo
scontro delle tendenze
psicosoggettive col materiale
depositato dalla storia.
Certo
Schumann, da parte della
miopia “accademica” che quegli
attacchi e scontri non
intende, è oggetto di sospetti
e critiche limitative che
abbracciano l'armonia,
l'orchestrazlone, la forma.
Ora, il suono schumanniano non
nasce da una calibratura
dell’orchestra in funzione di
un’equa distribuzione dei pesi
fonici e timbrici, in rapporto
all’analisi armonica e come
amplificazione verticale del
basso, bensì si forma a
priori, intuitivamente, come
un bagliore percettivo
autonomo.
In questo
senso non è tanto, ad esempio,
il flauto o la tromba che
vengono utilizzati in funzione
di una orchestrazione globale,
quanto è l’idea
psicosoggettiva evocativa del
flauto o della tromba che
entrano autonomamente nella
struttura armonica, portando
il loro suono e il loro
carattere specifico. Insomma
si vuole qui pensare, e forse
per la prima volta, insieme a
Berlioz, nella storia della
musica, a una corrispondenza
evocativa dell’immagine
timbrica dettata dalla sfera
mobile psicologica, con la
prima istanza del fatto
compositivo.
Le forme
paranoico-ossessive
schumanniane vanno lette non
solo come un dato di cronaca
biografica di carattere
medico, ma come una delle
componenti e delle istanze
fondamentali del suo fatto
compositivo.
Qui comporre diventa non solo
un fatto liberatorio di spinte
centrifughe anelanti ad
affermazioni d’identità ed a
esteriorizzazioni
volontaristiche dell’io in
cerca di affermazione di
potenza, bensì la traccia di
una frenesia instabile
oscillante tra le csaltazioni
ascensionali e positive e gli
sprofondamenti ipocondriaci di
un soggetto in cui la labilità
psichica trovava nella
vorticosa instabilità del
materiale musicale una sua
amplificazione. C’è una
“morbidità” quasi perversa
nella definizione sonora della
nostalgie schumanniane, sia
che esse siano storiche, come
i fantasmi bachiani nella
parte centrale del terzo
movimento, sia che ricadano
nella sfera del privato, cioè
in quel cantarsi addosso, in
quel ributtarsi dentro il
cervello e dentro la carne un
canto che non è dello Spirito,
che non è parto
dell’equilibrio delle Nature,
che non è Estetica, ma
antropologia minata e
fremente.
Circa
cinque annj prima (nel 1840)
avrebbe scritto a Clara
durante la stesura del Liederkreis
su testi di Heine. “... i
suoni, la musica mi uccidono
in questo momento, sento che
potrei morirne. Ah Clara, che
felicità divina scrivere per
il canto”.
Ed il canto è sempre della
notte: “Vorrei cantare come
l’usignolo, fino a morirne”.
Sarebbe
ora di smettere di fabbricare
continuamente passaporti di
sublimazione del corpo
attraverso la “profondità”
dello Spirito. Il corpo ha
degli abissi molto più
terrificanti e le lacerazioni
tragiche della memoria, o i
ponti buttati tra sfere
associative inabituali, sono
momenti con cui il nostro
presente è obbligato
continuamente a confrontarsi.
In questo senso, e viva Dio,
l’arte schumanniana non è la
“grande Arte” , quella
collegata con le Immobilità
astrali dello Spirito, bensì
quella che si agita dietro i
sobbalzi di una materia minata
dalla instabilità psicologica,
ma, appunto per questo,
nostra, tragicamente attuale.
Sarebbe
ora di smettere di giudicare
la musica del secolo 19° una
faccenda solo di temi e di
forme, e di giudicarla più o
meno grande, più o meno
riuscita solo in virtù della
sola corrispondenza tecnica,
teorica e astratta a questi
parametri.
In questo
senso Schumann non passerebbe
l’esame; i suoi temi sono
spesso brevi o faticosamente
sbalzati, spesso costruiti su
ritmi continuativamente e
ossessivamente puntati, le sue
armonie a volte giustapposte
senza funzionalità chiarita,
le sue forme fatte a pezzi,
frantumate, e riincollate con
difficoltà.
Il
tentativo di creare rapporti o
equilibri formali nasce sempre
dall’esterno, è artificioso,
dolorosamente faticoso e dove,
come nel finale, la
ripartizione dei periodi è più
chiara, più regolare, più
simmetrica, è proprio là che
la linea globale della forma
appare meno convincente.
“Solo
nell’ultirna parte mi sentivo
rinascere” scriveva Schumann a
Otten nel dicernbre 1845 ed è
strano che la risoluzione
della malattia abbia spento
quel terribile fuoco inventivo
che bruciava dal di dentro le
forme già esistenti e le
scuoteva violentemente sotto
l’impulso di una febbre
eccitante e demoniaca, nei
precedenti movimenti. Lo
Scherzo recupera il senso
della danza storicamente
deposto in quella forma
altrove che nel 3/4
trasformato adesso in 2/4. E
lo recupera “deviandolo”: la
frenesia del “continuum”
ritrnico dei primi violini
s’inchioda periodicamente con
le crome degli altri archi,
chiodi infuocati che penetrano
in un cervello sconvolto dal
ritmo ossessivo di una danza
infernale. Il recupero del
ritmo ternario nel trio è
un'apparente quiete, la coda
riporterà quella danza al più
elevato grado di sopportagione
fisica.
È chiaro
che l’equilibrio assoluto
della forma e la perfezione
igienica dell’orchestrazione,
quella stessa che faceva
esclamare a Mendelssohn, che
era bene lavarsi le mani dopo
aver sfogliato una partitura
di Berlioz, la cediamo
volentieri di fronte al
bagliore dell’inquietudine
schumanniana che in quelle
bianche prigioni non riusciva
a rinchiudersi, non per
scolare incapacità, quanto per
psicologica strutturazione che
quella scolarità scartava.
Ma il
canto che con quella scolarità
non aveva da lottare, ma gli
volava al di sopra, l’Eusebio
irrecuperabilmente e
tragicamente melanconico, si
librava nel terzo movimento
negli abissi più desolati e
inconsolabili di quelle
regioni dell’anima che sono
tutte umane, tutte
appassionatamente terrene. E
quando la memoria s’insinua,
quando i contrappunti bachiani
appaiono, nella parte
centrale, come lunghissime
dita di ragno che tessono
nella notte una crudele tela
d’argento, segnata, nel
cantabile a tratti sincopato
che risponde, dalla bava
stanca della notte afosa che
precede la rugiada del
mattino, allora la tristezza
ed il terrore insieme sono
inenarrabili.
Quando il
canto riapparirà ai legni sarà
imprigionato da questa tela di
ragno che lo soffocherà, lo
renderà definitivamente
perduto. I rassicuranti
corali-maschera di marca
luterana in cui trova conforto
la spinta trionfalista e
ingenua dell’ultimo movimento,
sono ben lontani dalla forza
inventiva dell’Adagio malato.
Ma
laddove il clarinetto compare
per riproporre il secondo tema
rovesciato che altro non è che
il tema dell’Adagio stravolto
dall'accelerazione temporale e
dall’inversione degli
intervalli, la sanità e
Vequilibrio cedono, per un
attimo, il passo alla memoria
personale di quello stato di
turbamento e di malattia, e
quindi precisamente, a quel
tema d’allora che di tale
rnalattia appunto è la traccia
scolpita.
Giuseppe
Sinopoli
|