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Il 30
ottobre 1822 Schubert iniziò a
stendere la sua sinfonia in si
minore; ma dopo aver ultimato
due movimenti in bella copia e
averne iniziato un terzo, egli
apparentemente la accantonò.
Il manoscritto dei due
movimenti completi entrò in
posscsso dell’amico di
Schubert Anselm Hüttenbrenner,
e rimase presso di lui, nel
cassetto stracolmo di carte di
uno scrittoio, per più di
quarant'anni. Soltanto nel
1865 Hüttenbrenner lo consegnò
al direttore d’orchestra
Johann Herbeck, che diresse la
prima esecuzione dell’opera a
Vienna nel dicembre dello
stesso anno.
Alla
perenne domanda per quale
motivo la Sinfonia sia rimasta
incompiuta, non c'è una chiara
risposta. Una possibilità è
che la sinfonia sia stata
terminata, ma che il resto del
manoscritto sia andato perduto
o disperso. Si è anche
supposto che il poderoso
Entr’acte in si minore della
musica per Rosamunda
di Schubert del 1823 sia il
finale mancante della
sinfonia, e in effetti c’è una
corrispondenza con i due
movimenti sia
nell’orchestrazione - i tre
tromboni aggiunti alla
tradizionale orchestra
classica - che nella tonalità.
Ma la spiegazione più
plausibile è che il
venticinquenne compositore non
avesse sufficiente fiducia in
sé per tentare di aggiungere
ai due movimenti già finiti
altri due che li eguagliassero
in drammaticità ed eloquenza,
e nella struttura di così
ampio respiro.
E così
l’opera rimane come è
conosciuta e amata oggi, un
dittico asimmetrico, ma
perfettamente bilanciato:
dapprima un Allegro moderato
nel quale fin dall’inizio si
contrappongono efficacemente
tensione drammatica e serenità
lirica, poi un Andante con
moto in mi maggiore, errabondo
e tumultuoso, che giunge
finalmente alla quiete nella
coda colma di una serenità
ultraterrena.
Le
sinfonie “Italiana” e
“Scozzese” di Mendelssohn
hanno ambedue origine da un
Grand Tour d’Europa che il
giovane compositore intraprese
nel 1829 e nel 1831. La
“Scozzese” non fu completata
prima del 1842; ma l'“Italiana”,
nonostante che il suo ultimo
movimento fosse costato a
Mendelssohn uno sforzo
considerevole - e in effetti
non lo soddisfece mai del
tutto - fu terminata nel marzo
del 1833, e fu eseguita per la
prima volta a Londra due mesi
più tardi. (Il che non impedì
che la “Scozzese” divenisse la
n. 3, l'“Italiana”
la n. 4, e la precedente
“Riforma” la n. 5!)
Questa
sinfonia ci mostra l’Italia
attraverso gli occhi e le
orecchie di un turista
sensibile sia al colore locale
che a un meno tangibile senso
dell’atmosfera. È l’atmosfera
del sud in generale, piuttosto
che specifiche melodie o
orchestrazioni nazionali, che
permea il gioioso movimento
d’apertura in 6/8, nel quale
lo slancio diminuisce solo una
volta, poco prima dell’inizio,
abilmente mascherato, della
ripresa. Il minuetto con trio,
graziosamente all’antica, che
forma il terzo movimento, è
anch’esso non precisamente
localizzato: nel trio e nella
coda ci sono addirittura
allusioni al fatato mondo del
suo Sogno di una notte di
mezza estate.
Il colore
locale gioca un ruolo più
importante negli altri due
movimenti. Il secondo, un
Andante in re minore, è
l'impressione di una
processione religiosa che
Mendelssohn vide a Napoli: il
frammento di canto liturgico
all’inizio dà un’aria di
solennità al procedimento; “il
resto”, ha scritto il
musicologo inglese Donald
Tovey, “è tutto dominato
dall’elemento pittoresco e
processionale”. E il finale,
insolitamente tutto in la
minore, senza mai
un’apparizione della tonalita
maggiore, è un movimento di
danza di enorme vitalità,
spinto in avanti dai ritmi
incessabili del saltarello
romano e della tarantella
napoletana.
Anthony
Burton
(Traduzione: Mirella
Noack-Rofena)
Sogno e
Memoria nell'Incompiuta"
di Schubert
Al di là di qualsiasi
tipologia sentimentale, l'“Incornpiuta”
di Franz Schubert rappresenta
uno dei momenti più
sconcertanti nella letteratura
musicale implicata nella
categoria del funerario. Per
tale s’intende la celebrazione
cultuale del bene perduto. Se
il bene non c’è mai stato, per
essere sempre così
intensamente anelato e mai
raggiunto, esso viene
trasposto in una zona limbica
della coscienza e là posseduto
come sogno.
La
baudelairiana “apparizione
irripetibile di una
lontananza” che Walter
Benjamin trasforma nel
concetto di aura, trova così
nella sfera dell’onirico un
suo modo d’essere.
“L’apparizione” avviene nel
sogno e ivi, annullata
“l’estrema lontananza”,
posseduto il bene.
La realtà
(il risveglio) significherà
rimettere la benda al mondo
delle cose amate, accecarle e
quindi perderle.
Ora la
musica della Sinfonia in si
minore riflette gli stadi
intercorrenti tra
“l'apparizione” del “bene
amato” come sogno o memoria, e
l’urlo dell’“accecamento”,
della perdita.
Sogno e
Memoria, la cui pronunciazione
velatissima è sempre minata
dalla tenuità effimera che
sorregge la loro emergenza da
una parte, e l’urlo improvviso
ed il fremito che nascono
dalla sensazione angosciante
del vuoto e del silenzio
dall’altra, mi pare che
rappresentino uno dei momenti
più fondamentali e tragici
dell’ “Incompiuta”.
Sogno e
Memoria bandiscono ogni
emozionalità diretta (non si
dimentichi che la dinamica del
secondo tema del primo
movimento è pp) e ogni
tendenza epica.
Per
questo ogni volontà
costruttiva viene come
sospesa. I temi appaiono
isolati, come delle monadi, al
di là di qualsiasi rapporto
col tempo. Sono delle melodie
vaganti in cui la idea e la
volontà di sviluppo cedono al
desiderio del canto. Ne nasce
una tristezza indicibile ed il
divino, il celestiale di
Schubert non è che
l'atemporalità della sua
musica, il coincidere
miracolosamente di questi
contenuti, come senza attrito
con una forma-sonata tutta
concretezza di funzioni e di
storicità. La Durchführung,
e forse per la prima Volta,
non è momento
astratto-costruttivo legato
alla concretezza della
temporalità, ma dilatazione
angosciata e angosciante del
carattere vagante del canto
tematico, sottoposto alle
tragiche attrazioni del vacuo,
come all’inizio dello
sviluppo, o alle esaltanti
isterie dell’assenza poi.
Il canto
è solo sogno o memoria. La
fisicità dinamica e
l'espansione vitalistica del
cantabile sono proibiti. Tutto
è trattenuto sull’orlo
dell’abisso del nulla.
I ritmi
ostinati funerari dei
pizzicati delle viole, dei
violoncelli e contrabbassi in
tutta la prima sezione
tematica sono gli orologi
ossessivi della memoria, larve
che invadono i vuoti del
presente. Tutto ciò
analogamente e anche
sostanzialmente altrimenti che
in Mahler.
Se
infatti in questo senso Mahler
rappresenterà alla fine del
secolo il punto focale delle
tendenze lesioniste e
autolesive del soggetto (ormai
in fase di esplicita
“regressione”, imprigionato
dalle scadenze temporali e
tendente ad assimilare le
periodicità ossessive dei
ritmi funerari con la
regolarità inebetita dei Wiegenlieder),
questo accade nel rovello di
una tensione incolmabile e
irriducibile tra i contenuti
dichiaratamente privati e la
forma storica continuamente
dilaniata dalla
incompatibilità tra le
funzioni armonico-formali e i
significati che con essa si
confrontano.
In
Schubert invece si assiste ad
una ineffabile immanenza del
contenuto nella forma
depositata. Il significato
musicale pare così garantito,
per dirla con Adorno, da una
“ontologia della forma” che
fungerebbe da stabilizzatore
delle “tendenze epiche”. Però
non si tratta tanto di
garanzia e di stabilizzazioni
riduttive da parte della forma
sul significato musicale (il
che implicherebbe ancora una
volta una lettura
interpretativa classicista
della sinfonia), quanto di una
immobilizzazione della forma
da parte di quell'Inhalt
che la visita.
Il momento magico di
quest'incontro è il suono di
questa Sinfonia, tutto
schubertiano e
particolarissimo.
Parafrasando
quanto Karl Kraus dice della
“parola” si può dire di quel
suono che ... “quanto più da
vicino lo si ascolta tanto più
lontano esso ascolta”.
Giuseppe
Sinopoli
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