DG - 3 LPs - 2741 021 - (p) 1983
DG - 2 CDs - 410 512-2 - (p) 1983

DG - 1 LP - 413 321-1 - (c) 1984
DG - 1 CD - 413 321-2 - (c) 1984

Giuseppe VERDI (1813-1901)






Nabucco (Nabucodonosor)
124' 16"
Dramma lirico in quattro parti (Libretto: Temistocle Solera)








Long Playing 1
43' 10"


1. Sinfonia 7' 28"
*
PRIMA PARTE Introduzione: 2. "Gli arredi festivi già cadono infranti" (Coro)
5' 42"

*

Recitativo e cavatina:
3. "Sperate o figli!" (Zaccaria, Coro) 1' 24"



4. "D'Egitto là sui lidi" (Zaccaria, Coro) 4' 00"




5. "Qual rumore?" (Coro, Ismaele, Zaccaria) 0' 48"
*


6. "Come notte a sol fulgente" (Zaccaria, Coro) 3' 00"

*

Recitativo e terzettino): 7. "Fenena! O mia diletta!" (Ismaele, Fenena) 2' 01"
*


8. "Guerrieri, è preso il Tempio! ... Prode guerrier!" (Abigaille, Fenena, Ismaele) 2' 07"
*


9. "Io t'amava!" (Abigaille, Ismaele, Fenena) 4' 13"
*

Coro: 10. "Lo vedeste?" (Anna, Coro, Zaccaria) 1' 44"


Finale: 11. "Viva Nabucco!" (Abigaille,, Coro, Zaccaria, Ismaele, Nabucco) 3' 03"



12. "Si finga ... Tremin gl'insani del mio furore!" (Nabucco, Fenena, Ismaele, Anna, Zaccaria, Coro, Abigaille) 3' 43"



13. "O vinti, il capo a terra!" (Nabucco, Zaccaria, Ismaele, Abigaille, Anna, Fenena, Coro) 3' 57"



Long Playing 2
33' 41"
PARTE SECONDA Scena I: Scena ed aria: 1. "Ben io t'invenni" (Abigaille) 3' 50"



2. "Anch'io dischiuso un giorno" (Abigaille) 3' 46"



3. "Chi s'avanza?" (Abigaille, Gran Sacerdote, Coro) 1' 08"
*


4. "Salgo già del trono aurato" (Abigaille, Gran Sacertote, Coro) 2' 48"
*

Scena II: Recitativo e preghiera: 5. (Introduzione) 1' 16"



6. "Vieni, o Levita!" (Zaccaria) 1' 01"



7. "Tu sul labbro de' veggenti" (Zaccaria) 2' 58"


Scena II: Coro 8. "Che si vuol? ... Il maledetto non ha fratelli" (Coro, Ismaele) 2' 32"
*

Scena II: Scena e finale: 9. "Deh, fratelli, perdonate!" (Anna, Coro, Zaccaria, Fenena, Ismaele, Abdallo, Gran Sacerdote, Abigaille) 1' 51"



10. "S'appressan gl'instanti" (Nabucco, Abigaille, Ismaele, Fenena, Zaccaria, Anna, Abdallo, Gran Sacerdote, Coro) 3' 24"
*


11. "S'oda or me!" (Nabucco, Fenena, Gran Sacerdote, Zaccaria, Coro) 2' 15"
*


12. "Chi mi toglie il regio scettro?" (Nabucco, Zaccaria, Abigaille) 2' 50"
*
PARTE TERZA Scena I: Introduzione: 13. "É l'Assiria una regina" (Coro) 3' 12"



Long Playing 3
47' 25"

Scena I: Scena e duetto:
1. "Eccesla donna" (Gran Sacerdote, Abigaille, Nabucco, Abdallo) 3' 04"



2. "Donna, chi sei?" (Nabucco, Abigaille) 3' 12"



3. "Oh, di qual'onta aggravasi" (Nabucco, Abigaille) 3' 14"



4. "Ah, qual suon!" (Nabucco, Abigaille) 0' 58"
*


5. "Deh, perdona" (Nabucco, Abigaille) 3' 50"
*

Scena II: Coro e profezia: 6. (Introduzione) 0' 58"



7. "Va, pensiero, sull'ali dorate" (Coro) 3' 53"
*


8. "Oh, chi piange? ... Del futuro nel buio discerno" (Zaccaria, Coro) 3' 53"

PARTE TERZA Scena I: Scena ed aria: 9. (Introduzione) 1' 35"



10. "Son pur queste mie membra!" (Nabucco, Coro) 3' 28"



11. "Dio di Giuda!" (Nabucco, Abdallo, Coro) 3' 55"
*


12. "Cadran, cadranno i perfidi ... O prodi miei, seguitemi" (Abdallo, Coro, Nabucco) 2' 03"
*

Scena II: Finale ultimo: 13. (Introduzione) · "Va, la palma del martirio" (Zaccaria) 2' 38"



14. "Oh, dischiuso è il firmamento!" (Fenena, Coro, Anna, Ismaele, Zaccaria, Gran sacerdote, Nabucco, Abdallo) 3' 05"



15. "Ah, torna Israello" (Nabucco) 1' 41"



16. "Immenso Jehova" (Anna, Fenena, Ismaele, Abdallo, Nabucco, Zaccaria, Gran Sacerdote, Coro) 2' 00"



17. "Oh! chi vegg'io?" (Nabucco, Coro) 0' 50"
*


18. "Su me ... morente ... esanime" (Abigaille, Coro, Zaccaria) 3' 30"
*






 
Piero CAPPUCCILLI, NABUCCO (Nabucodonosor), Re di babilonia CHOR UND ORCHESTER DER DEUTSCHEN OPER BERLIN
Placido DOMINGO, ISMAELE, nipote di Sedecia, Re di Gerusalemme Walter Hagen-Groll, Chorus master
Evgeny NESTERENKO, ZACCARIA, Gran Pontefice degli Ebrei Giuseppe SINOPOLI
Ghena DIMITROVA, ABIGAILLE, schiava, creduta figlia promogenita di Nabucco

Lucia VALENTINI TERRANI, FENENA, figlia di Nabucco

Kurt RYDL, Il GRAN SACERDOTE di Belo


Volker HORN, ABDALLO, vecchio ufficiale del Re di Babilonia

Lucia POPP, ANNA, sorella di Zaccaria

 






Luogo e data di registrazione
SFB, Grosser Sendesaal, Berlin (Germania) - maggio 1982

Registrazione: live / studio
studio


Producetion

Prof. Dr. Hans Hirsch

Coordination
Renate Kupfer, Hanno RInke


Recording Supervision
Wolfgang Stengel

Recording Engineer
Klaus Hiemann

Editing
Christopher Alder

Prima Edizione LP
Deutsche Grammophon | 2741 021 | LC 0173 | 3 LPs - 43' 10", 33' 41" & 47' 25" | (p) 1983 | Digital
Deutsche Grammophon | 413 321-1 | LC 0173 | 1 LP - 61' 15" | (c) 1984 | Digital | Highlights *


Prima Edizione CD
Deutsche Grammophon | 410 512-2 | LC 0173 | 2 CDs - 59' 58" & 63' 53" | (p) 1983 | DDD
Deutsche Grammophon | 413 321-2 | LC 0173 | 1 CD - 61' 15" | (c) 1984 | DDD | Highlights *


Note
Koproduktion mit Sender Freies Berlin















Verdi: Nabucco
"Con quest'opera... ebbe principio la mia carriera artistica"

Nabucco rappresenta il momento epico nella biografia verdiana. Questa biografia dai tratti volutamente sommessi e contenuti, di proposito sempre avvolta in una privacy gelosamente difesa e custodita. Ma con Nabucco non è così. Sulla nascita di quest’opera abbiamo non meno di tre narrazioni, autorizzate o compiute in tempi diversi dallo stesso compositore, che - fatti salvi alcuni particolari estremamente significativi - concordano nella descrizione degli avvenimenti. Il più noto di questi racconti venne registrato da Giulio Ricordi nel 1879 e pubblicato nel 1881, come appendice al sesto capitolo nell’edizione italiana della biografia di Arthur Pougin, la prima narrazione “ufficiale” della vita di Verdi. Alcuni anni prima, nel marzo 1874, il compositore aveva dato in una lettera un succinto resoconto degli inizi della sua carriera all’amico mantovano Opprandino Arrivabene; parlando dell’impresario Merelli nella narrazione della nascita di Nabucco, Verdi dice: “Egli stesso molti mesi dopo mi sforzò quasi a leggere il libretto del Nabucco ed a ritenerlo, e questo lo dice in disteso Lessona nel suo libro Volere è potere al quale Lessona io stesso raccontai questo fatto passeggiando una sera per le colline di Tabiano”.
Il racconto allo scrittore torinese Michele Lessona costituisce quindi la prima versione autorizzata di queste vicende; il libro in cui è incluso, pubblicato nel 1869, vuol essere - sull’esempio del Self-help di Samuel Smiles - una galleria di illustri carriere sorte da più o meno umili origini, didascalicamente proposte ai giovani dell’Italia appena unificata, e tratte quindi dalle differenti regioni che erano venute a formare il nuovo regno. Per l’Emilia il personaggio di maggior spicco è appunto Verdi, che in questo modo, e coscientemente, offre un nuovo contributo alla causa dell’unità d’Italia. Ecco il testo di Lessona che riguarda la composizione di Nabucco:
Il Verdi, appartatosi da tutti, rimase però in Milano [...]. Da mane a sera si buttò a leggere pessimi libri, e per lo piu romanzacci di cui anche allora si stampava gran copia in Milano [...]. Non fece altro dall’ottobre 1840 al gennaio 1841. Una sera di quel mese e di quell’anno, mentre cadeva a falde la neve, uscendo dalla galleria De Cristoforis, s’imbattè nel Merelli, che presolo a braccetto e rimorchiandolo verso la Scala, gli parlò di un grave impiccio in cui si trovava, ricusandosi il maestro Nicolai, che aveva a scrivere un’opera per lui, di accettare un libretto scritto dal Solera e intitolato il Nabucco. -
- Ma io (riprese il Verdi) vi posso toglier subito di briga. Oh non vi rammentate che m’avete lasciato un libretto del Rossi, Il Proscritto? Date questo al Nicolai in cambio del Nabucco.
Il Merelli rese grazie al Verdi dell’offerta, e lo pregò d’accompagnarlo fino al teatro, per vedere se veramente si trovasse là il manoscritto del Proscritto.
Il libretto fu rinvenuto, ed il Merelli fece scivolare in una tasca dell’ampio soprabito del Verdi il manoscritto del Nabucco, dicendogli:
- Dàgli un’occhiata. -
Giunto tardi a casa, ed acceso il lume, il Verdi aperse così alla sbadata quei fogli, e caddegli l’occhio sul coro del terzo atto degli Ebrei in ischiavitù
"Va`, pensiero, sull’ali dorate.”
Egli vi senti subito il biblico Super flumina Babylonis, gittò là il manoscritto, si mise a letto, ma non dormì tutta notte pensando e ripensando a quel coro.
La mattina dopo lesse lutto il dramrna, e sollevandosi colla mente oltre i versi e il libretto, vide, egli appassionato lettore della Bibbia, tutto ciò che era di grandioso in quel concetto. Non ostante riportò lo stesso giorno il manoscrilto al Merelli [...].
- Ebbene? - Gli chiese il Merelli.
- Musicabilissimo (rispose), stupendo argomento.
- Dunque piglialo, e pensaci su.
Il Verdi si peritava e non voleva, ma il buon impresario si levò di slancio, gli ricacciò a forza in tasca il manoscritto, gli pose le mani alle spalle e spingendolo fuori con gentil violenza, richiuse l`uscio.
Il giovane maestro andò a casa col suo dramma, ma lo gittò in un canto senza più guardarlo, e per altri cinque mesi tirò dritto nella lettura dei suoi romanzacci.
Un bel giorno poi, sul finire di maggio, quel benedetto dramma gli ritornò fra mano; rilesse un’ultima scena, della morte di Abigaille (la qual scena fu poi tolta), s’accostò quasi macchinalmente al pianoforte, quel pianoforte che si stava muto da tanto tempo, e musicò quella scena.
Il ghiaccio era rotto [...]. Di lì a tre mesi il Nabucco era composto, finito e di tutto punto qual’è oggi.
Questo racconto differisce nella sostanza da quello a Giulio Ricordi in un solo particolare: la composizione dell’opera non avvenne a casaccio (“un giorno un verso, un giorno l’altro, una volta una nota, un’altra volta una frase ... a poco a poco l’opera fu composta”), bensì ebbe inizio dalla scena finale della morte di Abigaille, che venne omessa in tutte le rappresentazioni ottocentesche dopo la prima alla Scala, e che venne reintrodotta soltanto nelle esecuzioni del nostro secolo. Che la composizione della partitura abbia avuto inizio con la pagina forse meno caratterizzante dell’intera opera è cosa di non poco conto, perché ci dice che la presa di coscienza del tono fondamentale del dramma, e dello stile, del carattere da conferire alla partitura fu una conquista graduale, anche se definitiva; tanto più significativo quest’inizio “anomalo”, in quanto l’impatto iniziale con il libretto era avvenuto nella direzione giusta.
Dalla narrazione autobiografica (quale che ne sia la redazione) risulta ben chiaro ciò che colpisce in maniera particolare il giovane compositore: è il tono biblico del tema, la dimensione iperumana dei personaggi e delle vicende: “lesse tutto il dramma, e sollevandosi colla mente oltre i versi e il libretto, vide, egli appassionato lettore della Bibbia, tutto ciò che era di grandioso in quel concetto”. Una volta identificato il “colore” fondamentale, il significato teatrale più autentico del libretto, la composizione dell’opera procedette speditamente (“Di lì a tre mesi il Nabucco era composto [...]”).
Per il suo libretto Temistocle Solera aveva preso come modello diretto Nabuccodonosor, “Ballo Storico in 5 parti”, rappresentato alla Scala nell’autunno 1838; Antonio Cortesi, che aveva “ideato” il ballo, nell’Avvertimento da lui firrnato, dice che il lavoro era stato “tracciato sopra un Dramma francese che a Parigi ha fatto epoca, e che fra noi venne recentemente tradotto dalla colta penna del sig. G,”. Il “Dramma francese” e Nabuchôdonosor, una pièce in quattro atti di Anicet-Bourgeois et Francis-Cornu, rappresentata per la prima volta all’Ambigu-Comique nell’ottobre 1836: un drammone a forti tinte, sovraccarico di coups de théâtre e di scene ad effetto, il tutto immerso in un colore esotico alternante l’austerità ebraica e le mollezze babilonesi. Leggendo uno dopo l’altro tutti questi testi (dalla pièce del 1836 al libretto di Solera) la chiarezza di impostazione del teatro verdiano già in questa sua primissima fase si rivela in maniera inconfondibile; l’elemento amoroso, che nella pièce francese è accentrato nel rapporto tra Fenena e Ismaele ed ha un’importanza determinante nello svolgimento del dramma, diviene nell’opera un fattore del tutto secondario - e volutamente. Nel racconto a Giulio Ricordi Verdi inserisce un aneddoto estremamente significativo; nella stesura originale del libretto Solera “nel terzo atto [...] aveva fatto un duettino amoroso fra Fenena e Ismaele; a me non piaceva perché raffreddava l’azione e mi sembrava togliesse un po’ alla grandiosità biblica che caratterizzava il dramma”. Verdi vuole che il librettista sostituisca questo duettino con una “profezia pel Profeta Zaccaria”; e Solera puntualmente esegue. Ora, ne la pièce francese, né il ballo di Cortesi, e nemmeno il libretto nella sua stesura definitiva identificano il personaggio di Zaccaria come “profeta”; in tutti questi testi Zaccaria è semplicemente il “gran pontefice degli Ebrei”, senza alcuna particolare virtù di preveggenza; nel testo francese Zaccaria è soltanto e semplicemente un sacerdote; nel ballo di Cortesi, solo nelle scene iniziali “Zaccaria anima i soldati a difendere il sacro tempio”, per scomparire quasi completamente nel seguito dell’azione. Nell'opera verdiana invece sin dall’inizio dell’opera, con la sua “cavatina” di sortita (debitamente articolata nel cantabile iniziale “D’Egitto là sui lidi” e nella cabaletta “Come notte a sol fulgente”), Zaccaria si impone come figura di primo piano che conforta, rincuora, esorta, anima il suo popolo; ne è insomma la guida spirituale ed anche politica; Zaccaria è il “Capo” che conduce la massa debole ed informe, rappresentata dal coro degli Ebrei. È un’immagine che viene progressivamente rafforzata nel corso dell’azione, con la “Preghiera” del secondo atto, “Tu sul labbro de’ veggenti” e, nel terzo, con la “Profezia”, “Del futuro nel buio discerno”, questa - ne siamo sicuri - voluta espressamente da Verdi. In questo modo Zaccaria viene ad avere un numero maggiore di episodi solistici di qualsiasi altro personaggio della partitura, e il rilievo che il compositore gli conferisce è sottolineato da un linguaggio musicale che nettamente lo contraddistingue. Per caratterizzare drammaticamente una figura biblica di condottiero Verdi risale al modello illustre che logicamente gli si imponeva, il Mosè di Rossini; e piuttosto alla traduzione italiana del Moïse et Pharaon (rappresentata più volte a Milano tra il 1835 ed il 1840) che all’originale Mosè in Egitto del 1818. Verdi segue il modello ad un punto tale per cui l’articolazione strutturale della scena iniziale nelle due opere è quasi identica. La lezione del modello rossiniano, oltre che nell’articolazione, si rivela nettamente anche nella scansione, solenne ed ieratica con i suoi ritmi puntati, della parte del basso. Così come Mosè è guida e conforto al popolo ebraico esule in Egitto, altrettanto lo è Zaccaria per gli Israeliti condotti in cattività sulle sponde dell’Eufrate; è proprio per questo che al “Va, pensiero”, al coro il cui testo aveva acceso nella fantasia del giovane compositore la scintilla iniziale della partitura, segue la “Profezia” di Zaccaria che comunica al suo popolo abbattutto nuove speranze. nuovo vigore.
Assai giustamente - mi sembra - Gilles De Van ha messo in relazione questo spirito “profetico” che pervade l’opera verdiana con la nuova funzione, altamente morale, attribuita all’arte musicale da Mazzini nella sua Filosofia della musica; ad una musica dal carattere meramente edonistico il patriota genovese ne contrappone una esaltante e rigeneratrice; egli giunge al punto di domandarsi “perché il coro non dovrebbe essere maggiormente sviluppato nel dramma musicale moderno, e non elevarsi dalla sfera secondaria e passiva che gli è in generale assegnata, alla rappresentazione solenne e totale dell’elemento popolare?".
Ma se questa è indubbiamente una delle chiavi che ci spiegano il divenire - ed il successo, allora come oggi - di Nabucco, non può né deve essere la sola. Giacché i contiitti di situazioni e di personaggi - che costituiscono l’essenza del teatro verdiano, anche in questa sua fase iniziale - si realizzano soprattutto nel protagonista ed in Abigaille. E non sono certo soltanto conflitti tra un personaggio e l’altro, bensì si sviluppano all’interno della storia di ciascuno di essi; da quest’ultimo punto di vista Nabucco è certamente la figura più ricca di contrastanti situazioni, più sfaccettata, più mobile dell’intera partitura, Ed è significativo notare come l’aspetto protervo, violento del personaggio - così com’è individuato nella prima parte dell’opera, dall’entrata in scena a cavallo nel tempio di Gerusalemme sino al momento in cui la folgore divina colpisce e fa impazzire il superbo bestemmiatore - sia realizzato non tanto in episodi musicali conclusi quanto piuttosto attraverso semplici recitativi declamati e soprattutto nei brani d’assieme, per mezzo dei quali la ferocia scatenata di Nabucco, la sua smisurata ybris, vengono ad assumere una dimensione iperumana, soggiogante tutti i personaggi che lo circondano. Ma dal momento in cui una potenza occulta gli toglie ogni potere, e persino il bene dell’intelletto, Nabucco si esprime con un linguaggio musicale che individua con precisione una ricchissima gamma di atteggiamenti: sbalordimento per l’accaduto (Allegro, “Chi mi toglie il regio scettro?”), subito interrotto da una invocazione a Fenena (Adagio, “Oh, mia figlia! ... E tu pur anco”); nel grande duetto del terzo atto con Abigaille, dalla regale dignità iniziale (Allegro vivo, “Donna, chi sei?”), al rimorso per la condanna a morte della figlia diletta (Andante, “Oh, di qual’onta aggravasi”), sino alla supplica disperata (Allegro moderato, “Deh, perdona”); e infine tutto l’inizio del quarto atto: il preludio strumentale che, riepilogando motivi già esposti nel corso dell’opera, dipinge con immediata potenza evocativa gli angosciosi ricordi attraverso i quali passa la mente turbata di Nabucco prima del risveglio; il recitativo accompagnato nel corso del quale egli prende graduale coscienza della propria insania, e della condizione di prigioniero; e infine l’aria, dal cantabile iniziale, a suo modo un’altra preghiera (Largo, “Dio di Giuda”), sino alla compressa cabaletta, che egli divide con il coro (Allegro, “Cadran, cadranno i perfidi”). Per comprendere sino in fondo la forza espressiva di tutti questi momenti isolati, bisogna collocarli e valutarli all’interno delle convenzioni del melodramma italiano ottocentesco, entro le quali agiscono; si vedrà allora ancora una volta con quale libertà, e insieme con quale sicurezza di disegno drammatico Verdi di colta in colta le rispetti oppure le violi; come esempio di tradizione fondamentalmente osservata prenderei il duetto del terzo atto con Abigaille (sebbene la sezione conclusiva sia tutt’altro che una cabaletta!); mentre invece l’esempio più clamoroso di rifiuto di queste convenzioni è costituito dal finale del secondo atto, totalrnente privo di “stretta” conclusiva, e che si chiude invece con il deliquio di Nabucco e la svettante frase di Abigaille che ascende al trono.
Potremrno prendere proprio questa frase, nella sua elementare semplicità, come emblematica dello stile vocale che caratterizza l’altra grande figura di quest’opera. A differenza del personaggio di Nabucco, lungo tutto il corso dell’azione Abigaille è dorninata da una sola, grande passione: la sete di potere e di vendetta, alla quale essa sacrifica ogni suo altro sentimento (questo il significato drammatico del cantabile della grande aria del secondo atto, “Anch’io dischiuso un giorno”, l’unico momento introspettivo del personaggio). Accanto alla diversificata parabola di Nabucco, quella di Abigaille presenta uno sviluppo del tutto lineare, senza deviazioni o momenti contrastanti; la sua caratterizzazione avviene principalmente attraverso la forma delle linee melodiche a lei affidate: sono delle linee angolose, tutte cariche di tensione, costruite in modo preponderante sulle note dell’armonia di base, melodie in cui l’accento forte della misura coincide il più delle volte con il punto culminante dell’arco melodico:

In questa prospettiva stilistica si comprende perché, in tutte le rappresentazioni del secolo scorso, l’episodio conclusivo della partitura venne omesso: è il momento in cui, drammaticamente e musicalmente, Abigaille rinnega se stessa; è una pagina assai bella, una delle cose più fini dell’intera partitura, ma nulla fondamentalmente aggiunge al respiro dell’azione drammatica, e costituisce quasi un anti-climax, dopo lo squarcio a forti tinte del Tutti “Immenso Jeovha”.
Eppure, una volta colte ed accettate tutte queste osservazioni, ci accorgiamo che non abbiamo ancora identificato in pieno la fisionomia stilistica di Nabucco; ci rendiamo conto che quanto è stato detto finora spiega solo in parte la vivacità, la forza persuasiva di quest'opera, la sua straordinaria tenuta teatrale.
E bisognerà ricercare in un’altra dimensione, altrettanto essenziale quanto l'identificazione musicale delle componenti drammatiche, il vigore e insieme la novità di questa partitura: nell’organizzazione complessiva di Nabucco le durate dei singoli episodi e - all’interno di questi - quelle della presentazione e dello sviluppo degli elementi drammatico-musicali che li carattelizzano sono calcolate con impressionante precisione; nulla vi è in quest’opera di troppo lungo o troppo breve, e in questo modo l’attenzione dell’ascoltatore è continuamente tesa; il rapporto fra le durate che la costituiscono è altrettanto preciso ed individuante quanto l’ordine della loro presentazione. Solo un paragone con la partitura dell’Oberto può rivelare sino a che punto l’arte verdiana con Nabucco abbia trovato se stessa; quelle confusioni, incertezze, imprecisioni così evidenti in quella partitura sono qui totalmente scomparse. Ma soprattutto le durate, in Nubucco, sono commisurate al tipo di linguaggio - icastico, a forti tinte, del tutto adatto a questo vasto affresco sonoro - che il compositore coscientemente impiega; e insomma il “grandioso biblico” che aveva fatto scoccare la scintilla alla prima lettura del libretto, realizzato nei termini e nelle dimensioni drammatico-musicali più precise e caratterizzanti.
Questo spiega anche, a ben guardare, le ragioni del successo della pagina più famosa dell’opera. Il “Coro di schiavi ebrei” è anch’esso un’anomalia dal punto di vista formale, in quanto non segue affatto l'organizzazione tipica dei cori d’opera quale veniva realizzata nel melodramma italiano del primo Ottocento. Il testo del coro, una parafrasi del Salmo 136 della Vulgata, si dispone in quattro quartine di decasillabi, la cui strutturazione musicale si identifica con quella che Dallapiccola ha individuato come tipica nella tradizione musicale italiana per la disposizione musicale della quartina poetica: nel primo verso della quartina la Stimmung fondamentale viene definita; nel secondo viene elaborata ed ampliata, senza che da essa tuttavia ci si discosti; “il crescendo emozionale si trova sempre nel terzo verso o sulla terza coppia di versi e [...] questo crescendo può essere raggiunto o per rnezzo di una concitazione ritmica o con una sorpresa di carattere armonico o con la spinta della voce verso l’acuto. È più che frequente che il risultato venga raggiunto dalla somrna di due e anche di tutti e tre questi elementi: in rari casi se ne aggiungerà un quarto, cioè qualche cosa di assolutamente inaspettato dal punto di vista strumentale”; col quarto verso infine la tensione viene allentata e l’edificio sonoro portato a conclusione attraverso la ripresa di idee ed elementi caratterizzanti il primo verso. Tutto questo è verificabile con adamantina chiarezza nel “Va, pensiero”, in quanto Verdi impiega la massa corale non già come una composita compagine polifonica, bensì come un gruppo di voci che canta all’unisono una grande linea melodica; la sola sezione in cui le voci si suddividono per realizzare l’armonia che sottende l’arco melodico è in corrispondenza della terza quartina poetica, per individuare appunto il “dramma” nel momento di massima tensione. È, in definitiva, un coro di organizzazione musicale molto più semplice dei contemporanei cori d’opera; ma la sua funzionalità espressiva non ha bisogno di commenti. Quale fosse in ogni caso la vera natura di questo coro l’aveva capito uno che di queste cose se ne intendeva; era Rossini, che definì appunto il “Va, pensiero” “Una grande aria per soprani, contralti, tenori e bassi”.
Quale peso abbia avuto nell’arte verdiana l’esperienza del Nabucco non sarà chiaro fintantoché ci si ostinerà a parlare di un “primo Verdi” come di un qualche cosa di omogeneo ed uniforme; l'approfondimento delle nostre conoscenze e soprattutto l'affinamento dei nostri strumenti critici ci spingono invece a considerare sempre più il periodo giovanile della produzione verdiana come un caleidoscopio di esperienze, una serie di tentativi in una molteplicità di direzioni, per verificare tecniche di teatro musicale di grande diversità; ma in Nabucco i termini essenziali dello stile verdiano, quelli che lo contraddistinguono da ogni altro, sono già presenti, ed impiegati senza incertezze. Proprio come disse lo stesso Verdi a Giulio Ricordi, nel suo racconto, parlando appunto di Nabucco: “Con quest’opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica”.
Pierluigi Petrobelli
Giuseppe Sinopoli e il primo Verdi
Non era solo il pensiero ad andare sull’ali dorate. L’intero “Nabucco” riempì nel maggio 1982 l’aria berlinese, e ciò avvenne subito in duplice forma: sul palcoscenico della Deutsche Oper e nella sala delle trasmissioni dello SFB (Sender Freies Berlin) che fungeva da studio di registrazione. In tutti e due i casi sul podio c’era Giuseppe Sinopoli.
Ovazioni di mezz’ora al termine di un’opera del primo Verdi diretta da Sinopoli sono diventate ormai da un bel pezzo un fatto all’ordine del giorno. E intanto ci si è quasi dimenticati che tale tripudio è un evento in certo qual modo nuovo e niente affatto ovvio. Giuseppe Sinopoli, con il cuore ardente e a mente fredda, ha voluto contribuire a rivendicare appieno i pregi di un’opera verdiana giovanile, la cui parte orchestrale è stata presa altrettanto sul serio solamente da pochi: con cura amorosa e con intransigenza Sinopoli ha inteso porre nella loro giusta luce aspetti misconosciuti, facendo sprizzare scintille dalla pietra e scoprendo dei colori là dove fino ad ora ci si attendeva in genere di percepire soltanto ritmi.
Nato a Venezia e cresciuto in Sicilia, Sinopoli si è laureato a Padova in psichiatria, e nell’ambiente di Boulez e Donaueschingen si è familiarizzato con l’analisi anche nel campo musicale. Tenace sostenitore della musica moderna e anche compositore di rilievo, Sinopoli è giunto a Verdi per una via apparentemente tortuosa, ma in realtà plausibile e soprattutto dagli esiti felicemente positivi: l'analisi fa sprigionare liberamente le emozioni.
Ciò viene espresso in ogni battuta che il direttore ha provato e registrato a Berlino. Ad esempio, prima del coro iniziale dell’atto III - una marcia in re maggiore - egli spiega alla “banda” e all’orchestra, come al coro, concentrato ed eccitato al tempo stesso, come si devono fraseggiare le terzine e quando vanno inseriti degli accelerandi. Ma se si accende la luce rossa che dà il segnale della registrazione, se il nastro scorre, allora egli vive la partitura con ardore e come dimentico di se stesso.
La fiamma divampa, ma senza bruciare gli interpreti. Nello studio di registrazione Sinopoli stabilisce con l’orchestra un contatto con quella medesima naturalezza della sera precedernte nel teatro d’opera. Egli ha detto una volta: “Il rapporto tra un’orchestra e un direttore deve iniziare come un incontro e culminare nella fusione. Se assumono due posizioni diverse e duramente antitetiche, la causa è fallita.”
Le amichevoli relazioni stabilite da Sinopoli con l’orchestra si tramutano poi in galanteria premurosa quando lavora con Ghena Dimitrova, l’interprete di Abigaille. Nata a Sofia in Bulgaria, la Dimitrova ha fatto il suo debutto in patria appunto in questo personaggio, ha interpretato poi alla Scala di Milano la parte di Amelia nel “Ballo in maschera”, e ha cantato molte volte a Monaco, Vienna e Verona. Nel 1981 ha lavorato per la prima volta con Sinopoli, a Venezia in “Simon Boccanegra". I teatri d’opera europei la conoscono bene. Questa edizione di “Nabucco” ha costituito per lei il noviziato negli studi di registrazione, qui ha saputo unire in modo vivificante bravura e abnegazione. La sua voce non possiede soltanto forza, dominio del registro acuto e di quello basso, ma si caratterizza soprattutto come un fascinoso amalgama di elementi italiani e slavi. Piero Cappuccilli invece è una vecchia volpe degli studi di registrazione. Con la sua tranquillità piena di umorismo e che diffonde tutt’intorno una grande calma, per dirompere poi sempre in furore e cantabilità, egli è divenuto il sostegno dell’ensemble. Evgenj Nesterenko si inserisce in modo caratteristico in tale atmosfera, anche per una sua certa somiglianza e familiarità stilistica con la Dimitrova: anche in Nesterenko queste cantilene, create nel periodo in cui il belcanto cominciava ad incrinarsi, sono pervase al fondo di un timbro slavo.
Felicissimo degli artisti, dei solisti, dell’orchestra e del coro preparato da Walter Hagen-Groll, ma anche un po’ spossato dal lavoro, Sinopoli trova pur sempre il tempo di parlare delle sue idee su Verdi, di questa opera chiave nella vita del compositore e che ne decise il destirio. “In ‘Nabucco’ rni interessa un momento astratto” dice il direttore dopo una seduta di registrazione. “Vorrei rendere evidente come già il primo Verdi radicalizza la retorica. Già Abigaille deve vivere con la tensione tra amore e potere, con la schizofrenia. Lady Macbeth fa un passo avanti; essa non ama più, assolutamente. In ‘Nabucco’ gli affetti sono oggettivati e Verdi parla già attraverso delle maschere come accadrà tante volte in seguito. La musica sembra essere allegra e lieta, ma non lo è poi per niente. Ciò vale particolarmente per il tono apparentemente trionfale delle marce.”
Giuseppe Sinopoli, cui non è per nulla ignota la dialettica, accoglie la sfida rivolta a interpreti e ascoltatori da ogni composizione giovanile. Egli lascia riconoscere nello stile delle prime opere i germi di quello posteriore, senza mai elimiriare il carattere peculiare di una singola opera. Sinopoli trova già in “Nabucco” le prime tracce di quella tecnica che Verdi impiegherà poi ripetutamente, quando per esempio nel primo atto di “Rigoletto” o nell’ultimo del “Ballo in maschera" situazioni catastrofiche prenderanrio il loro avvio o troveranno la loro conclusione nella musica d’un ballo di corte. Ma già quì dietro queste maschere il direttore mostra appunto quello che è il volto inconfondibile del musicista e dell’uomo Verdi: quelle sopracciglia piene di orgoglio, quello sguardo pieno di commiserazione e quella bocca che canta dell’amore e della libertà.
Werner Burkhardt
(Traduzione: Gabriele Cervone)