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3 CD's
- 8.573147-49 - (p) 2013
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Carlo GESUALDO da Venosa
(1566-1613)
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IL
QUINTO LIBRO DE' MADRIAGALI, 1611 |
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Compact Disc 1
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Gioite
voi col canto - (a,b,d,f,g) |
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4' 19" |
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S'io
non miro non moro -
(a,b,d,f,g) |
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4' 18" |
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Itene,
o miei sospiri - (a,b,e,f,g) |
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4' 17" |
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Dolcissima mia
vitae - (a,b,c,e,f) |
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3' 43" |
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O dolorosa
gioia - (a,b,c,e,g) |
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4' 49" |
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Qual
fora, donna - (a,b,c,e,g) |
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2' 58" |
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Felicissimo
sonno - (a,b,c,d,g) |
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4' 17" |
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Se vi duol il
mio duolo - (a,b,d,f,g) |
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4' 46" |
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Occhi del mio
cor vita - (a,b,e,f,g) |
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3' 35" |
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Languisce al
fin - (b,c,d,f,g) |
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5' 01" |
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Mercè,
grido piangendo - (a,b,d,f,g) |
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6' 13" |
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O voi troppo
felici - (a,b,c,f,g) |
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2' 36" |
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Correte,
amanti, a prova -
(a,b,c,f,g) |
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3' 40" |
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Asciugate
i begli occhi - (a,b,c,e,g)
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5' 17" |
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Tu
m'uccidi, o crudele -
(a,b,d,f,g) |
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4' 49" |
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Deh,
coprite il bel seno -
(a,d,e,f,g) |
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3' 23" |
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Poichè l'avida
sete |
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6' 09" |
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- Poichè l'avida
sete (part 1) - (a,c,e,f,g) |
2' 30" |
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- Se tu cagion
(part 2) - (a,c,e,f,g) |
3' 39" |
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Compact Disc 2 |
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O tenebroso
giorno - (a,b,e,f,g) |
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3' 08" |
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Se tu fuggi, io
non resto - (a,b,c,d,g)
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2' 21" |
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T'amo mia vita
- (a,b,c,e,g) |
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3' 07" |
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IL
SESTO LIBRO DE' MADRIAGALI, 1611 |
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Se la mia morte
brami - (a,b,d,f,g) |
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6' 43" |
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Beltà, poi che
t'assenti - (a,b,d,f,g) |
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5' 17" |
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Tu piangi, o
Filli mia - (a,b,e,f,g) |
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5' 19" |
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Resta di darmi
noia - (a,d,e,f,g) |
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5' 23" |
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Chiaro
risplender suole -
(a,d,e,f,g) |
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6' 07" |
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Io parto e più
non dissi - (a,b,d,f,g) |
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4' 31" |
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Mille volte il
dì, moro - (a,b,d,f,g) |
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5' 20" |
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O dolce mio
tesoro - (a,b,d,e,g) |
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4' 22" |
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Deh, come
invan, sospiro - (a,b,d,f,g) |
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5' 11" |
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Io pur respiro
- (a,b,d,e,g) |
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4' 42" |
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Alme d'amor
rubelle - (a,d,e,f,g) |
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2' 28" |
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Candido e verde
fiore - (b,d,e,f,g) |
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3' 11" |
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Compact Disc 3 |
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Ardita
zanzaretta - (a,b,d,f,g) |
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4' 40" |
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Ardo per te,
mio bene - (a,b,d,f,g) |
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4' 11" |
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Ancide sol la
morte - (b,d,e,f,g) |
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3' 44" |
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Quel no crudel
- (a,b,d,e,g) |
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3' 01" |
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Moro, lasso, al
mio duolo - (b,d,e,f,g) |
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5' 43" |
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Volan quasi
farfalle - (a,d,e,f,g) |
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3' 17" |
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Al mio gioir il
ciel si fa sereno -
(a,b,d,e,g) |
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2' 44" |
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Tu segui, o
bella Clori - (a,b,d,e,g) |
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3' 29" |
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Ancor che per
amarti - (a,b,d,f,g) |
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4' 17" |
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Già piansi nel
dolore - (a,b,d,f,g) |
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3' 16" |
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Quanto ridente
e bella - (a,b,d,f,g) |
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2' 59" |
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Urtext Music for
this recorfing by Marco Longhini
and Rosaria Chiodini, 2010/11
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DELITIÆ MUSICÆ /
Marco Longhini, Conductor |
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Alessandro
Carmignani, Countertenor
(cantus) (a) |
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Paolo Costa, Countertenor
(quintus) (b) |
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Fabio Fùrnari, Tenor
(quintus-altus) (c) |
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Raffaele Giordani, Tenor
(altus) (d) |
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Paolo Fanciullacci,
Tenor (altus-altus) (e) |
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Marco Scavazza, Baritone
(tenor) (f) |
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Walter Testolin, Bass
(bassus) (g) |
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Luogo
e data di registrazione |
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Chiesa
di Santa Maria Maddalena,
Novaglie, Verona (Italia) - 6-10
luglio 2010 |
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Registrazione:
live / studio |
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studio |
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Producer /
Engineer |
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Lodovico
and Marco Longhini / Michael
Seberich / Corrado Ruzza / Antonio
Scavuzzo |
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Prima Edizione CD |
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NAXOS
- 8.573147-49 - (3 CD's) - durata
74' 10" | 67' 09" | 41' 21" - (p)
2013 - DDD |
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Note |
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Cover
image: Venus Chastising Cupid
by Jan van Bijlert or Bylert
(Museum of Fine arts, Houston,
Texas, USA) |
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Il
Quinto Libro de’Madrigali insieme
con l’ultima pubblicazione di
Carlo Gesualdo “Prencipe di
Venosa”, il Madrigali
a Cinque voci, Libro Sesto, furono
pubblicati entrambi nel 1611 a
Gesualdo, un villaggio (posto
nel centro del sud Italia tra
Napoli e Bari) che prende il
nome proprio dall’antica e
nobile famiglia del nostro
compositore. Al centro del
paese, su una roccia, si erge il
castello privato di famiglia:
per poter stampare questi libri
Gesualdo affidò a Jacopo Carlino
il compito di allestire una
tipografia in un locale del
castello. Queste due
pubblicazioni furono poi
ristampate postume: nel 1613,
nella tipografia genovese di
Giuseppe Pavoni, in una
inconsueta e pregiata versione
che il liutista Simone Molinaro
ci propone “in partitura”
(cioè con le linee melodiche
delle voci stampate insieme, in
modo da poterle leggere e
studiare simultaneamente, come
avviene oggi in una edizione
moderna); e nel 1614 (Quinto
Libro) e 1616 (Sesto
Libro), nella consueta
veste in cinque libri separati
(un libro per ciascun cantante)
nella tipografia veneziana di
Bartolomeo Magni a Venezia
(erede del celebre tipografo
Angelo Gardano).
I due libri, che
potremmo definire “gemelli”,
furono entrambi curati da
Pietro Cappuccio (che eviterà
al principe il triviale lavoro
di redazione che non si addice
al suo stato d’aristocratico):
questi firmerà le dediche a
distanza d’un solo mese l’una
dall’altra. Nelle nostre
precedenti pubblicazioni della
Naxos (dedicate alla
registrazione completa di
tutte le opere profane di
Gesualdo) già osservammo
quanto fosse inopportuno che
un nobile si occupasse della
stampa di musica e dei motivi
per ricorrere ad un curatore
manuale dei propri lavori.
Sappiamo anche quanto fosse
usuale per il nostro principe
gemellare la pubblicazione
delle proprie opere: era già
accaduto nel 1594 quando
furono pubblicati
contemporaneamente, da
Vittorio Baldini a Ferrara, il
Primo e il Secondo
Libro. Se quest’ultimo
era stato il naturale seguito
del Primo (o
viceversa come suppongono
alcuni recenti studi), così il
Sesto prosegue il Quinto
e conclude la poetica di
un genio musicale che non
conosceva limiti nella ricerca
e nella creatività: egli aveva
l’opportunità di sperimentare
e superare i limiti
convenzionali dell’inventiva
musicale, in piena autonomia e
libertà, svincolato da ogni
tipo di assoggettamento. Solo
in questa ottica potremmo
giustificare le geniali
anomalie presenti nella sua
musica polifonica che ancor
oggi stupisce e affascina sia
l’avveduto musicista come
l’ascoltatore amatore.
La grande distanza
tra il Quarto Libro del
1596 e queste due
pubblicazioni del 1611, ci
costringe ad indagare gli
avvenimenti che affiancano
l’intenso lavoro artistico di
Gesualdo: cosa avvenne in quei
lunghi quindici anni di
silenzio editoriale? Tale
periodo coincide con lo
spostamento dell’aerea
d’interesse del compositore da
Ferrara verso Gesualdo. Nel
1594, poco dopo le seconde
nozze, Gesualdo (probabilmente
infastidito dal mondo
bisbetico della vita a corte,
che non gli avrebbe mai
condonato quella sua storia
drammatica o la sua
originalità di vita) lascia
Ferrara con lo scopo di
approfondire le curiosità nel
campo culturale nel nord
Italia: abbandonando la sposa
nella sua città natale, parte
per Venezia dedicandosi a
perdersi nel labirinto delle
calli di quella meravigliosa
città lagunare. Visita le
famose stamperie cittadine
(quelle che pubblicano la
maggior parte delle
composizioni musicali sacre e
profane del tempo), attratto
particolarmente dalla sapiente
arte tipografica di Angelo
Gardano. Il meticoloso
cronista Fontanelli è sempre a
suo fianco con il compito di
riferire la sua vita
quotidiana alla corte degli
Este (era la sua incombenza da
quando il duca Alfonso II lo
inviò per avere maggiori
notizie del suo futuro e
originale parente prima del
suo arrivo a Ferrara; questi
documenta la calorosa
accoglienza da parte del doge
e del patriarca di Venezia, di
cui fu ospite. Accanto al
sontuoso trattamento,
registriamo una certa
curiosità da parte della
nobiltà veneziana a conoscere
da vicino un personaggio così
discusso. Pur tentando
d’evitare, per quanto
possibile, i vari inviti
mondani a favore del tempo
dedicato alla composizione
musicale, avvenne che durante
una cena offerta dal
patriarca, Gesualdo fu
invitato ad ascoltare un
concerto in suo onore: al
termine dell’esecuzione
musicale si alza sulla sedia e
di fronte a tutti rimprovera
il cantante e il
clavicembalista per la pessima
esecuzione, tanto che
Fontanelli confessa: “provai
pena per loro”.
Purtroppo il cronista non si
dilungò a descrivere quali
fossero le mancanze esecutive
che adirarono il principe:
l’occasione poteva essere
fondamentale per conoscere le
scelte esecutive desiderate
dal compositore. Nella grande
quantità di documenti che ci
rimangono, nemmeno una frase
viene spesa riguardo
l’identità della cappella
musicale del principe; non
conosciamo nemmeno l’identità
degli artisti e delle voci che
cantarono realmente i suoi
madrigali. Rimarrà il dubbio
se questi fossero realizzati
anche da strumenti o solo
nella loro originale
concezione “a cappella”.
Chissà se le sue osservazioni
potessero essere simili a
quelle di Vincenzo
Giustinani (1564–1637)
nel suo Discorso sopra
la musica de’ suoi tempi,
1628: “moderare e crescere
la voce forte o piano,
assottigliandola o ingrossandola,
che secondo che veniva a’
tagli, ora con strascinarla,
ora smezzarla, con
l’accompagnamento d’un
soave interrotto sospiro,
ora tirando passaggi lunghi,
seguiti bene, spiccati, ora
gruppi, ora a salti, ora
con trilli lunghi, ora con
brevi, et or con passaggi
soavi e cantati piano,
dalli quali talvolta
all’improvviso si
sentiva echi rispondere, e
principalmente con azione
del viso, e dei sguardi e
de’ gesti che accompagnavano
appropriatamente la musica
e li concetti, e sopra tutto
senza moto della persona e
della bocca e delle mani
sconcioso, che non fusse
indirizzato al fine per il
qual si cantava, e
con far spiccar bene le
parole in guisa tale che
si sentisse anche l’ultima
sillaba di ciascuna parola,
la quale dalli passaggi et
altri ornamenti non fusse
interrotta o soppressa, e
con molti altri particolari
artificj et osservazioni
che saranno a notizia di
persone più
esperimentate di me. E con
queste sì nobili congiunture
i suddetti musici eccellenti
facevano ogni sforzo
d’acquistar fama et la
grazia de’ Prencipi loro
padroni, dalla quale
derivava anche il loro utile”.
Gesualdo fu un
personaggio discusso e amato
già nella sua epoca, ricercato
e temuto allo stesso tempo: se
il suo punto di vista non fu
mai quello della persona
comune, ma quello d’un
personaggio che ci offre un
diverso modo di vedere le
realtà che ci circondano, così
la sua musica percorre strade
non convenzionali, visioni
espressive inedite, dissonanze
che il musico di corte non
poteva assemblare (o non
poteva osare). La sua
posizione sociale, il suo
vissuto, la sua sensibilità e
la sua arguta genialità
artistica lo rendevano
un’affascinante e ambìto
personaggio di cultura. Se
all’epoca il “fascino
dell’assassino” (parafrasando
un termine cinematografico) ne
accentuò l’interesse da parte
della vita salottiera ed
effimera a cavallo del
Seicento, oggi il Gesualdo
musicista attrae maggiormente
rispetto all’episodio che lo
segnò nella vita. All’epoca
colpisce la figura di
Gesualdo, principe, nobile
dell’alta società (educato
agli alti valori aristocratici
di una famiglia di secolare
storia) che ristabilisce
l’onore della sua casata
uccidendo il bene più prezioso
che possiede: l’amore verso
Maria d’Avalos. Egli non fu
mai un uomo del popolo,
vittima e preda d’un proprio
istinto violento (e quindi
condannabile): egli fu
obbligato a compiere un
“delitto d’onore” richiesto
dalle leggi dell’epoca per non
essere deriso da tutti. Quel
gesto, che lo riscattata
nell’onore, lo condannerà
nella società cortigiana.
A questo ritratto
convenzionale addossatogli
dalla società, Gesualdo
risponde rifiutando la vita di
corte e isolando se stesso e
la sua musica. Se nelle
antecedenti opere era
costretto ad indossare il
ruolo di violento uxoricida
vendicativo, portandolo ad
indagare una realtà musicale
rabbiosa, irascibile, furiosa
e turbinosa, ora desidera
mostrare la sua sorte d’essere
umano sofferente, tormentato,
angosciato e afflitto da un
destino che lo torturerà e
strazierà fino alla morte:
quest’uomo, che non aveva
altro amaro riscatto dalla sua
vicenda che ritirarsi nella
musica, desidera farci
partecipi degli incubi e delle
ossessioni di uno stato
d’animo provato, in cui la
morte diventa protagonist
morbosa dei suoi interessi e
della sua poetica. Su ventitrè
madrigali che compongono il Sesto
Libro (un numero
abbondante rispetto alle altre
pubblicazioni) ben tredici
contengono la parola “morte”:
anche se, forzatamente,
vogliamo dimenticare Gesualdo
come violento assassino non
possiamo dimenticare che, la
morte segnerà ferocemente la
vita quotidiana. Come una
maledizione divina subentra
sempre nella sua vita senza
possibilità di scampo.
Nella composizione
di madrigali (che, mai come in
lui, sono frutti assai maturi
e ponderati ma
contemporaneamente asprigni
nel loro sapore) potrà
continuare a parlare di amore
e del rifiuto dell’amore, di
morte e di sofferenza, di
gioia e di dolore: lo farà con
forme asimmetriche,
volutamente non regolari nella
scrittura, segnate da un
dolore che non ammette
equilibrio. Il testo, oltre ad
essere fonte d’ispirazione,
diviene pretesto d’espiazione:
la cultura diviene riscatto
dalla società. I madrigali
descrivono sentimenti intimi
ma non situazioni reali. Se
queste sono state vissute in
maniera reale, la sua arte le
traspone in un mondo irreale,
composto solo da emozioni, non
da cronache di vita. I fatti
appartengono alla vita reale,
i sentimenti come gioia,
dolore, sofferenza e i loro
contrasti che macerano il
nostro cuore, appartengono
all’arte. Non esiste
autobiografia nella sua opera
in quanto la realtà non
esiste: esiste solo il
sentimento e l’espressività.
Tramite l’arte si difese per
rivalutare la propria
immagine: nei madrigali e
nella loro realizzazione
estrema, fisserà un mondo che
non è realtà ma solo essenza
della vita.
Attraverso le
parole, la musica diviene
emozione, sentimento. La sfera
affettiva viene mossa in chi
ascolta. Se il Cinquecento
musicale aveva ricercato
bellezza attraverso un
equilibrio, nelle ultime opere
di Gesualdo assistiamo al
dissesto di tale equilibrio,
verso un’instabilità armonica
e ritmica che offre
all’ascoltatore solo divenire
e mai staticità. L’eccezione
diviene la regola. Mai una
cadenza diviene realmente
conclusiva ma sempre un esito
inaspettato ci coinvolge:
nella concatenazione armonica,
quando modula in toni lontani
da quello che l’orecchio
desidera; nel fluire ritmico,
quando nemmeno l’accordo
finale suggerisce stabilità in
quanto emerge sempre una voce
in ritardo o in sincope
rispetto le altre. Come scrive
Claudio Gallico “l’assunzione
di responsabilità espressiva
lo conduce ad
un’osservazione crudamente
obiettiva di stati dell’animo.
L’espressione, benchè
altamente personalizzata,
soggettivamente determinata,
vive nell’immaginario,
stilizzata in una selva di
finzioni, di maschere.
A quel punto la cultura
rinascimentale è disintegrata”.
Nel Quinto e
Sesto Libro il
rapporto con il testo varierà
rispetto la sua poetica
precedente. Non sarà più il
concetto poetico ad ispirare
la musica ma la suggestione
offerta dalla singola parola:
da essa, e solo da essa,
sgorga musica non più come
effimero “madrigalismo”
pittorico ma quale profondo
significato offerto dalla sua
suggestione. L’affresco
musicale suggerito
dall’immagine poetica si
frammenta sempre di più. Il
risultato ci conduce ad
un’evidente discontinuità del
discorso musicale: le ultime
opere vivranno d’immagini
brevi, interrotte, alternate
da pause (mai così copiose
nella letteratura
madrigalistica), in cui il
silenzio diviene preparazione,
meditazione o sofferenza
interna. Proprio il silenzio
diviene pensiero musicale,
vera essenza della musica o
forse anche negazione d’essa
stessa: voluta, desiderata,
ricercata.
Tali sofferte e
raffinate ricerche musicali
erano destinati a pochi: chi
desiderava conoscere il
principe di Venosa lo
preferiva nella veste
d’assassino della moglie e del
suo amante. Riconoscere in lui
il segno della follia omicida
(da qualche particolare celato
che nessun altro aveva colto),
vederlo camminare
incontrastato e assolto dalla
società (pur essendo un
assassino), era sicuramente
nell’interesse della corte di
Ferrara come in quello della
nobiltà della Serenissima
Repubblica di Venezia che
vivevano entrambi di
pettegolezzi e vociferazioni.
A Ferrara come a Venezia, egli
poteva contare su ferventi
sostenitori (ammiratori del
suo originale genio musicale)
ma contemporaneamente si
doveva difendere da accaniti
moralisti che vedevano in lui
solo il lato violento e
vendicativo. Nascono così
molte maldicenze di cui non
possiamo verificare
l’autenticità: si mormorava,
ad esempio, ch’egli picchiasse
la sua seconda moglie e che
avesse un lungo stuolo di
amanti a causa del suo fascino
d’artista meridionale ombroso.
Forse deluso dal fatto di
potersi rifare una vita nella
città che era definita il
fulcro culturale del mondo, in
quella Ferrara che era la
patria del madrigale, della
musica di Giaches de Wert, di
Luzzasco Luzzaschi,
dell’eccezione esecutiva che
vedeva (al contrario di tutto
il mondo che preferiva voci
maschili) alcune donne
proporsi quale gruppo musicale
chiamato le Dame di
Ferrara, egli ritornerà
nel suo castello a Gesualdo
detestando tutta questa vita.
Lontano da quella corte che
definirà “covo di
vipere”, in quella
località che Fontanelli
descrive come un “paese
ameno et vago alla vista
quanto si possa
desiderare, con un’aria
veramente soave et salubre”,
potrà affidarsi ai suoi
sudditi fedeli e riservati,
dedicarsi finalmente alla
caccia, alla composizione
musicale, ai suoi affari
pubblici e privati del grande
territorio che aveva il
piacere e l’onere di
amministrare.
Ritornerà a Ferrara,
ma solo per curare la
pubblicazione del suo Terzo
e Quarto Libro de’
Madrigali e per la
nascita del figlio Alfonsino
(Gesualdo aveva giá avuto un
figlio da Maria d’Avalos,
Emanuele). Quando la città di
Ferrara passa inesorabilmente
sotto il potere della chiesa
di Roma perdendo la sua
libertà, mentre la famiglia
d’Este si trasferisce a
Modena, la moglie Eleonora e
il figlio Alfonsino,
accompagnati dai suoi
servitori e dall’onnipresente
Fontanelli, si trasferiscono
al castello di Venosa e poi
insieme a Gesualdo. Purtroppo
nel 1598, Alfonsino muore e
secondo alcuni studiosi (che
sostengono che le opere
pubblicate nel 1611 sarebbero
concepite nel periodo
ferrarese), da questo momento
Gesualdo non comporrà alcun
madrigale ma solo opere sacre:
le Sacrae Cantiones (1603)
e i Responsoria
(1611). Nel 1602 muore il
cardinale Alfonso Gesualdo
lasciando tutte le sue
ricchezze a Carlo che divenne
sempre più potente e ricco, ma
contemporaneamente molto solo.
Nel 1607 il primo figlio
Emanuele si sposa con la
contessa boema Maria di
Füstenberg. La gioia di
quest’avvenimento e del nuovo
nipotino, non concessero
felicità e serenità al nostro
compositore aristocratico:
Emanuele per anni non perdona
al padre l’assassinio della
madre, e Gesualdo non
parteciperà alle nozze del
figlio. Un segno di
riconciliazione sembra essere
la visita degli sposi nel
1609, con il perdono da
Emanuele, ma un nuovo colpo
del destino trafigge Gesualdo:
il nipotino muore. Le sventure
non terminano qui, minando
definitivamente il desiderio
di vivere del principe: nel
1611, con la moglie incinta,
Emanuele cade da cavallo
durante una caccia e muore
anch’egli. Maria di Füstenberg
partorirà una femmina,
cagionando la conclusione
della dinastia dei Gesualdo:
appresa la triste notizia, il
principe chiuderà lentamente
il suo clavicembalo, farà
testamento e si rinchiuderà
nella sua stanza senza voler
più vedere nessuno. Morirà
diciotto giorni dopo, l’8
settembre 1611 mentre la
moglie si ritirerà in
convento.
L’abate Michele
Giustiniani nelle sue Lettere
memorabili, 1667,
tratteggia un uomo
costantemente malato e preso
da quel sentimento
d’espiazione da noi già
tratteggiato: “una strana
infermità la quale gli rendeva
soave le percosse che si
faceva nelle tempie e nelle
altri parti del corpo, con
frapporvi un involto di
stracci. Stravagante
ricompensa ch’avendo il
principe con la
melodia e soavità del suo
canto e del suono recato
agli astanti ammiratione e
contento, ricevess’egli
all’incontro nell’interne
sue angoscie ristoro e
quiete da fierissime
battiture”. Alcuni
studiosi affermano che il suo
desiderio perverso di
autopunizione non fosse solo
dovuto alla colpa per
l’uxoricidio, ma anche al
senso di peccato per una
celata vita amorosa: sappiamo
con sicurezza che Gesualdo
ebbe almeno un figlio
concepito al di fuori del
matrimonio, Antonio Gesualdo,
perchè lui stesso lo cita alla
fine del suo testamento, ma
c’è anche chi cita un gravoso
senso di colpa per una
relazione con un bel ragazzo
“atletico”, Castelvietro da
Modena. Se non mancano
documentazioni, a fatica
comprendiamo quali
testimonianze fossero vere e
quali dicerie e pettegolezzi
che (oggi come allora)
affiancano le figure più
eminenti e discusse del tempo.
Sicuramente un principe di
quel livello e di quella
ricchezza aveva l’opportunità
e la possibilità d’avere tutto
ciò che desiderasse, fossero
anche relazioni extraconiugali
con ragazze o ragazzi: come
prescelti, questi avrebbero
goduto della protezione, del
benessere o (come vediamo per
il figlio naturale Antonio)
d’un vitalizio da parte del
ricco padre. Tutto questo,
anche se contrasta con la
delineazione di una persona
afflitta e sempre malata
dell’abate Giustiniani,
potrebbe anche essere vero: il
principe, nelle serate fredde
invernali, avrebbe realmente
gradito farsi riscaldare il
letto e lenire la schiena con
il corpo caldo di graziose
adolescenti o anche
d’avvenenti ragazzi?
Personalmente queste ipotesi
mi ricordano più quelle scene
tardo-romantiche della vita di
Ludwig di Baviera immortalate
nel capolavoro cinematografico
di Luchino Visconti piuttosto
che la vita di un principe
rinascimentale: ma tutto ciò
fa parte di quel mondo di
fantasie che accompagnano per
secoli quest’autore che, oggi
come all’ora, fa parlare di se
e fa discutere…o, forse, solo
ammirare.
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