1 CD - TC 56031101 - (p) 1987

Claudio MONTEVERDI (1567-1643)







COMBATIMENTO DI TANCREDI ET CLORINDA con altri Madrigali e Canzonette à 1 e 2 voci del Signor CLAUDIO MONTEVERDE (1567-1643) già Maestro di Cappella della Serenissima Republica di Venetia






- TEMPRO LA CETRA - (à voce sola con sinfonie) Libro VII, Venetia MDCXIX
10' 31"

- QUEL SGUARDO SDEGNOSETTO - (ciacona à canto solo) Scherzi Musicali, Venetia MDCXXX15 2' 16"
- INTERROTTE SPERANZE - (à doi tenori) Libro VII 4' 11"
- Ritornello de la Maddalena BEL PASTOR - (à 2, canto e tenore) Libro IX, Venetia MDCLI 5' 32"
- CON CHE SOAVITÀ - (à una voce e 9 Istrumenti) Libro VII
4' 53"
- ET È PUR DUNQUE VERO - (Aria à voce sola con Sinfonie) Scherzi Musicali 8' 06"
- COMBATIMENTO DI TANCREDI ET CLORINDA - (rappresentativo con Quattro Viole) Libro VIII, Venetia MDCXXXVIII
20' 51"




 
Cettina CADELO, Soprano
Carlo GAIFA, Vincenzo MANNO, Tenori

Ensemble 'CONCERTO'
- Luigi Mangiocavallo, Enrico Onofri, Violini
- Alberto Rasi, Paolo Biordi, Stefano Bachi, Viole da gamba
- Paolo Rizzi, Violone
- Giovanni Antonini, Flauto dritto
- Maurizio Martelli, Arciliuto
- Roberto Gallina, Liuto
- Nicola Baroni, Violoncello
Continuo:
- Caterina Dell'Agnello, Violoncello
- Paul Beier, Arciliuto
- Roberto Gini, Clavicembalo

Roberto GINI, Direzione
 






Luogo e data di registrazione
Sala del Vasari (Ist. Ortopedici Rizzoli), Bologna (Italia) - 15/18 giugno 1987

Registrazione: live / studio
studio

Direttore di produzione
Roberto Meo

Foto / Grafica

Vico Chamla, Milano / Gloria Moretti

Presa del suono

Ing. Thomas Gallia, M° Paul Dery

Tecnica

SONART di Milano, PCM SONY 1610 · 16 bit, microfoni Neumann TLM 170 (2) e SM 69 fet (1)

Prima Edizione CD
TACTUS - TC 56031101 - (1 CD - durata 56' 42") - (p) 1987 - DDD

Note
In copertina: C. Monteverdi di D. Fetti, Galleria dell'Accademia di Venezia (ph. R.F. Giacomelli)



 
Monteverdi e lo "stile rappresentativo"
Negli ultimi libri di madrigali monteverdiani, come del resto più in generale in molti altri autori che si dedicarono a tale repertorio nel primo Seicento, corre spesso il filo di una teatralità implicita, non apparente, ambiguamente in bilico tra camera e palcoscenico. Non che alla produzione precedente, cinquecentesca e in ispecie dello scorcio ultimo del secolo, fosse ignota una dimensione siffatta: più che all'uso di madrigali in contesti spettacolari (negli intermezzi, ad esempio), si pensi soprattutto alle intonazioni di testi di diretta provenienza teatrale, ritagliati entro la successione delle battute con l'occhio attento ad isolare un'effusione lirica, un frammento quasi epigrammatico, ma anche un dialogo vero e proprio, con tanto di alternanza di interventi tra i personaggi in causa. Per rimanere al caso di Monteverdi, viene immediato riandare ai volumi Quarto (1603) e Quinto (1605) della sua personale serie madrigalistica, il primo dei quali aperto proprio da un testo ("Ah dolente partita") che ad uno sguardo fugace parrebbe semplicemente uno dei soliti madrigali letterari di 'partenza', sapientemente orientato verso l'ossimoro conclusivo. La sua squisita fattura lascia agevolmente immaginare un autore letteratissimo (nella fattispecie, Battista Guarini), ma non sapendolo si stenterebbe a supporlo l'ultima battuta della scena terza, atto terzo del Pastor fido, quella cioè in cui la sdegnosa Amarilli invita reiteratamente Mirtillo ad allontanarsi ("Orsù, Mirtillo, è tempo Che tu ten vada... Pàrtiti... Orsù, pàrtiti omai"), provocando quel patetico sfogo dell'amante respinto. Gli altri versi tolti dal Pastor fido che figurano nel Quarto libro ("Anima mia, perdona", "Che se tu se' il cor mio", "Quall'augellin che canta") rispondono alla medesima scelta di ricavare entro il flusso del testo drammatico porzioni significative ed autosufficienti che potrebbero anche essere spacciate come autonomi madrigali letterari. Non così quelli del Quinto libro, in maggioranza dedicato ai casi dolorosi dei personaggi guariniani: il lamento di Mirtillo amante non corrisposto - che nella tragicommedia costituisce la sua scena di sortita e che analogamente apre questa nuova scelta di madrigali sotto il segno del più accorato sconforto - ed il parallelo compianto di Amarilli che non può contraccambiarlo, i dolenti rimproveri di Dorinda a Silvio che non l'ama (con la commossa risposta di Silvio) e quelli di Mirtillo ad Amarilli. All'interno del Pastor fido Monteverdi - come già Wert, Marenzio, Pallavicino Luzzaschi - isola perlopiù passi di lirico patetismo dalla flebili storie delle coppie Mirtillo-Amarilli e Silvio-Dorinda, fermandone anzitutto i momenti di meditazione più appassiouata. Come in Marenzio, però, il suo interesse si estende al dialogo tra Dorinda e Silvio, e non solo alle battute di un unico personaggio recise dal contesto e godibili come un qualsiasi madrigale a se stante. L'allusione alla cornicd scenica e narrativa diviene esplicita: si rapprosenta effettivamente un nucleo drammatico in una lunga catena dialogica di madrigali di cui i primi due affidati a Dorinda, i due successivi a Silvio ed il conclusivo aucora a Dorinda.
Rispetto però a questi e consimili esempi, nei madrigali primo-secenteschi (di Monteverdi, ma anche di altri suoi colleghi) quella dimensione teatrale usciva più sbalzata e con contorni più netti. Ciò poteva realizzarsi grazie alle risorse dei nuovi stili compositivi, ed in particolare usufruendo delle possibilità offerte dalla tecnica di canto a voce sola su di un basso continuo strumentale. Infatti il comporre a più voci consentiva solo evocazioni quanto mai sfumate e allusive dei personaggi chiamati in causa dal testo, cui davano voce agglomerati polifonici (solitamente di tre parti almeno) e perdipiù neppure fissi e immutati nel corso dcll'intero brano. Insomma, quel Mirtillo del Pastor fido di cui Monteverdi nel Quarto libro aveva pubblicato il oontenuit lamento ("Ah dolente partita") era fonicamente rappresentato da un unisono iniziale dei due soprani progressivamente divaricantisi ("Ah dolente partita"), cui andava ad aggiungersi l'alto ("Ah fin de la mia vita"), Che poi spariva momentaneamente per lasciare il campo ad un doppio duello dei due soprani ("Ah fin de la mia vita") e di tenore-basso ("Da te part'e non moro?"). L'alto rientrava poi inserendosi nel cntrappunto di queste due ultime voci, mentre poco più tardi la riesposizione a parti scambiate di quanto finora cantato dai soprani portava per la prima volta all'uso della compagine al completo. Ciò che si vorrebbe documentare in concreto, insomma, è che al soggetto lirico sottinteso (colui che dice "io part' e non moro..."), che noi sappiamo avere il volto bon individuato del pastore Mirtillo, davano musicalmente corpo fasci di voci continuamente mutevoli per composizione numerica e timbrica: inizialmente due - le più acute -, per un momento tre con un approfondimento della tessitura perlustrata, poi due più due (le supreme contro le gravi), ancora le sole tre inferiori e da ultimo tutte e cinque, seppure articolate in tre e due contemporaneamente: e non si tratta che delle misure iniziali di questo madrigale. Tirando le somme, la voce di Mirtillo non posseddeva la stessa individualità e compattezza di quel personaggio protagonista di un ben noto testo teatrale: conosceva anzi diffrazioni continue, che ne sfaccettavano l'unitarietà in un complesso di componenti (melodiche, timbriche, ritmiche, armoniche, verbali) in perpetua evoluzione.
Con le tecniche di canto a voce sola accompagnato strumentalmente, tutto ciò lasciava il passo a processi di precisa individuazione anzitutto sonora: affidate ad un'unica voce, monodicamente monolineare e timbricamente costante e compatta, le parole di un personaggio uscivano ora realmente da un'unica bocca, rendendo eventualmente possibile anche l'intera materializzazione del personaggio. L'interprete musicale di quelle parole idealmente pareva assumere le fattezze del soggetto della finzione letteraria: un'intenzione manifestata con chiarezza laddove - nel neonato teatro musicale - ne indossava materialmente i fantasticati panni su di uno sfondo scenografico appropriato.
La funzionalità per l'esecuzione teatrale di queste modalità compositive era evidente - anche se non esclusiva - nelle stesse denominazioni di "stile recitativo" o "rappresentativo" con cui comunemente si designava il canto a voce sola purché non arioso. Tuttavia così come lo era ai contemporanei di Monteverdi, deve risultare chiaro a noi che tali termini non avevano necessariamente una pertinenza univocamente scenica: "recitare" e "rappresentare" qui non significavano sempre esecuzioni connesse con la dimensione drammatica, ma si riferivano ad un qualsiasi ambito d'impiego del canto a solo non arioso. Giovan Battista Doni (1594-1647) nel suo Trattato della musica scenica rimasto manoscritto fin verso la metà del Settecento, lo scrive con grande lucidità: "Per stile dunque recitativo s'intende oggi quella sorta di melodia che può acconciamente e con garbo recitarsi, cioè cantarsi da uno solo in guisa tale che le parole s'intendano, o facciasi ciò sul palco delle scene, o nelle chiese e oratori a foggia di dialoghi, o pure nelle camere private, o altrove. E finalmente con questo nome s'intende ogni sorte di musica che si canti da un solo al suono di qualche instrumento, con poco allungamento delle note e in modo tale che si avvicini al parlare comune, ma però affettuoso". Nello stesso passo, precedentemente, Doni aveva deprecato l'uso indifferente di termini quali "stile recitativo, rappresentativo ed espressivo" per indicare quella medesima particolarità di scrittura solistica, testimoniando un loro impiego sostanzialmente sinonimico nell'ordinaria vita musicale coeva. Per quello stile si era ricorsi alla definizione di "rappresentativo" in quanto con esso s'intendeva far rivivere "quella maniera [...] usata dagli antichi Greci nel rappresentare le loro tragedie e altre favole, adoperando il canto": quanto a "stile recitativo", l'origine doveva essere stata del tutto analoga.
Nelle stampe Monteverdi per la prima volta qualificò "in genere rappresentativo" un paio di proprie composizioni (le due Lettere amorose) edite nel Concerto, Settimo libro de madrigali (1619) poi ripubblicate nel 1623 col Lamento d'Arianna - questo invece di provenienza esplicitamente teatrale - in una piccola antologia solistica. Lo stesso accade nei Madrigali guerrieri et amorosi (1638), in cui figurano "alcuni opuscoli in genere rappresentativo che saranno per brevi episodi fra i canti senza gesto". Tra essi compare il Combattimento di Tancredi con Clorinda, eseguito a palazzo Mocenigo nel carnevale 1624 "per passatempo di veglia", con modalità descritte nelle istruzioni accluse alla stampa.
Combattimento in musica di Tancredi et Clorinda, descritto dal Tasso, il quale volendosi esser fatto in genere rappresentativo, si farà entrare alla sprovista (dopo cantatosi alcuni madrigali senza gesto) dalla parte de la camera in cui si farà la musica, Clorinda a piedi armata, seguita da Tancredi armato sopra ad un cavallo Mariano, et il Testo all'ora comincerà il canto. Faranno gli passi et gesti nel modo che l'oratione esprime, et nulla di più né meno, osservando questi diligentemente gli tempi, colpi et passi, et gli ustrimentisti gli suoni incitati e molli, et il Testo le parole a tempo pronuntiate, in maniera che le creationi venghino ad incontrarsi in una imitatione unita: Clorinda parlerà quando gli toccherà, tacendo il Testo: così Tancredi. Gli ustrimenti, cioè quattro viole da brazzo, soprano, alto, tenore et basso, et contrabasso da gamba, che continuerà con il clavicembano, doveranno essere tocchi adimmitatione delle passioni dell'oratione. La voce del Testo doverà essere chiara, ferma et di buona pronuntia alquanto discosta da gli ustrimenti, atià meglio sii intesa nel oratione. Non doverà far gorghe né trilli in altro loco che solamente nel canto de la stanza che incomincia: "Notte". Il rimanente porterà le pronuntie a similitudine delle passioni del'oratione.
Dunque il testo musicato era un episodio della Gerusalemme liberata di Tasso (canto XII, ottave 52-62 e 64-68), con qualche contaminazione proveniente dalla Conquistata. Come altri compositori contemporanei (Sigismondo d'India nel 1621, Biagio Marini nel 1623, Francesco Eredi nel 1629), anche Monteverdi dimostrava interesse per questa o quella pagina del gran racconto epico tassesco. Nella prefazione del suo Libro ottavo, sarà lo stesso autore a precisare le ragioni della sua scelta: "diedi di piglio al divin Tasso, come poeta che esprime con ogni proprietà e naturalezza con la sua oratione quelle passioni che tende a voler descrivere, e ritrovai la descrittione che fa del combattimento di Tancredi e Clorinda, per aver io le due passioni contrarie da mettere in canto, guerra cioè, preghiera e morte". Trattandosi di un testo epico e non drammatico, le rare battute dei protagonisti sono collegate da una figura di narratore il cui ruolo risulta ovviamente preponderante. S'intrecciano così protagonisti immersi nella vicenda (Tancredi, Clorinda) con voci fuori campo (il Testo), dialogo diretto ed osservazione esterna, dramma vissuto in prima persona e racconto sceneggiato.
La declamazione iniziale del Testo proietta subitaneamente lo spettatore nel cuore della vicenda (nei pressi di Gerusalemme assediata il cristiano Tancredi s'imbatte in un misteriso avversario che immediatamente sfida a duello, nel corso del quale quest'ultimo viene ferito a morte: solo quando dietro richiesta dell'ignoto moribondo Tancredi si accinge a battezzarlo, il cavaliere si rivela per Clorinda, la guerriera nemica amata da Tancredi che la vede spirargli tra le braccia). Che il Combattimento appartenga al tipo di madrigale "in genere rappresentativo" e dunque debba considerarsi musica da accompagnare col gesto, anche se non lo precisasse a più riprese lo stesso Monteverdi, lo chiarirebbero inequivocabilmente le sue caratteristiche musicali. Esso infatti è tutto intessuto di episodi che, si si riallacciano alle abitudini descrittive del mondo madrigalesco, sottintendono ed anzi richiedono esplicitamente la realizzazione mimica. Le figurazioni rotatorie dell'inizio alludono ad esempio a Clorinda che "va girando [...] l'alpestre cima", mentre un opportuno ritmo esprime il "trotto del cavallo" di Tancredi, e una fanfara militaresca è evocata al primo sferragliare delle armi. La parte iniziale si chiude sulla contrapposizione tra due inserti strumentali (oltre al basso continuo che sostiene le voci, in partitura figurano infatti quattro viole da braccio): uno a valori larghi per i "passi tardi e lenti" dei due guerrieri che si affrontano, e un altro a note ribattute velocemente in tremolo (un effetto entrato nella tecnica strumentale almeno dal decennio precedente, ma da Monteverdi qui usato a fini espressivi). Pubblicando nel 1935 il Combattimento, il compositore attribuirà intenzioni neoclassiche a questi suoi ritrovati, in cui secondo lui dovevano rivivere metri greci quali rispettivamente lo spondeo e il pirricchio, dei quali evidentemente sperava di riprodurre anche gli effetti sugli ascoltatori. In tal modo, con quelle rapide mitragliate della medesima nota Monteverdi riteneva di aver riportato in vita il genere concitato già noto agli antichi: e al di là dell'effettiva consistenza teorica (una preoccupazione comunque molto viva nel Monteverdi degli anni Trenta), va detto che il ritrovato colpì considerevolmente i suoi contemporanei, in Italia e altrove, aggiungendo un ulteriore alloro alla sua già notevole rinomanza.
Tolta un'ottava intonata dal Testo, sospensiva rispetto al ritmo drammatico ("Notte, che nel profondo oscuro seno") e perciò strutturata ad aria, tutto il resto si svolge secondo moduli recitativi che inventano sempre nuove immagini illustrative del contenuto del testo.
A questa pausa meditativa fa immediato seguito, per rendere più bruciante il contrasto, il "principio della guerra", ove si accumulano concitatamente immagini di eloquente evidenza sonora, ai limiti del più strepitoso clangore: incisi ritmici incalzanti ("Non schivar, non parar..."), l'hoquetus sempre più agitato ("non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi"), "Odi le spade orribilmente urtarsi"), i soggetti marziali a fanfara ("e 'l piè d'orma non parte", "Cozzan con gl'elmi..."), la contrapposizione tra l'immobile linea melodica del Testo ("sempre il piè fermo") e l'eccitazione delle parti strumentali ("e la man sempre in moto"), le rapide scale ("né scende taglio..."), le note ribattute stavolta anche nella scrittura vocale ("L'onta irrita lo sdegno alla vendetta...", "Tornano al ferro..."). Per rappresentare questa lotta selvaggia Monteverdi cerca anche inedite sonorità, di sapore quasi rumoristico, come l'uso del pizzicato ("Qui si lascia l'arco, e si strappano le corde con doi diti", è richiesto alle viole nel passo in questione: ed è il primo esempio noto ci quest'effetto strumentale almeno in area italiana, essendo già apparso in The Souldiers Song, primo dei Captaine Humes musicall Humors editi da Tobias Hume nel volume The first Part of Ayres, French, Pollish and others together, London, Iohn Windet 1605, allo stesso modo utilizzato come effetto caratteristico e descrittivo in un contesto militare) impiegato nel momento più scomposto, significativamente quando il duello degenera in rissa: "e spada oprar non giova; / dansi con pomi e infeloniti e crudi...". L'interesse per gli 'affetti' guerrieri domina sull'ambiguità del "Tre volte il cavalier la donna stringe...", in cui Monteverdi illustra quei "nodi tenaci", "nodi di fier nemico e non d'amante" allacciando con sincopi ed imitazioni voci e strumenti.
Il placarsi della furibonda tenzone (le viole replicano un motivo che si spegne progressivamente discendendo spossato per un'ottava mentre Testo e continuo rimangono immobili: "e stanco e anelante...") riporta ad una più pacata declamazione, specie nelle battute dei due estenuati contendenti, con una linea recitativa più frastagliata sole nelle esclamazioni del Testo ("O nostra folle mente...").
Col riaccendersi della lotta ritornano le fanfare e soprattutto lo stile concitato (note velocemente ribattute da voci e strumenti unite a sillabazione frenetica e con fitte ripetizioni interne di un testo "contenente ira et sdegno", come il compositore scriverà nella prefazione al suo Libro ottavo) che amplia ed istituzionalizza possibilità espressive già intraviste ai tempi di Orfeo (nell'atto IV: "S'arman forse a' miei danni / con tal furor le furie...") e di Arianna (nel 'lamento', al passo: "O nembi, o turbi, o venti...", ripreso naturalmente nella versione polifonica).
L'ultimo nucleo d'interesse - dopo aver toccato, ancora una volta senza indugiarvi, gli accenni erotici del "bel sen" e della "veste che d'or vago trapunta / le mammelle stringea tenera e lieve" - è costituito dalla "preghiera e morte" di Clorinda, uno dei poli di quella dialettica affettiva di "contrarii" (l'altro è ovviamente "guerra") da cui Monteverdi, nella prefazione citata, dichiara di essere stato maggiormente attratto nelle ottave tassesche. Il recitativo del Testo registra con fedeltà le situazioni espressive: l'incalzare vittorioso di Tancredi, il declinare di Clorinda ed il "nuovo spirto [...] che Dio l'infonde", il tragico stupore e l'ammutolire di Tancredi cui fanno seguito esclamazioni di commento su intervalli patetici (la sesta minore per "Ahi vista!": una settima diminuita è poco più avanti, a "col ferro"). Le parole di Clorinda invece, fino al celestiale commiato ("S'apre il ciel: io vado in pace": quello che in Tasso era soltanto immaginato, in Monteverdi si fa concreta battuta effettivamente posta sulle labbra della donna), si staccano decisamente da quelle del Testo, circonfuse come sono dalla sonorità delle viole che l'accompagnano con coppie di note lunghe eseguite legate in un "arcata sola. f. p.", volendo contrapporre tali prassi di "preghiera et morte" a quelli di "guerra" in cui bisognava suddividere in sedicesimi le semibrevi: "Et perché a primo principio (in particolare a quali toccava sonare il basso continuo) il dover tampellare sopra ad una corda sedici volte in una battuta gli pareva più tosto far cosa da riso che da lode, perciò riducevano ad una percossa sola durante tale batuta tal multiplicità, et in guisa di far udire il piricchio piede facevano udire il spondeo, et levavano la similitudine al oratione concitata".
Come era accaduto in quella "veglia" carnevalesca a palazzo Mocenigo, anche la presente incisione discografica fa precedere l'ideale arrivo "alla sprovista" degli eroi tasseschi da una serie di "madrigali senza gesto" e da altri pezzi col compito di prepararne la venuta e di far più sorprendente la loro irruzione - per così dire - in carne ed ossa.
L'incarico di aprirla è affidato al sonetto di Giovan Battista Marino "Tempro la cetra e per cantar gli onori" che era posto anche in testa al Concerto. Settimo libro de madrigali. Come prima di lui avevano fatto Sigismondo d'India (1609 e 1618) e Giulio Santo Pietro Del Negro (1614) in loro raccolte con testi di contenuto analogo, Monteverdi nel suo Concerto gli affida funzioni proemiali giustificate dal tono programmatico di tale sonetto, ove si illustra una dichiarazione d'impotenza di fronte allo stile sublime ed ai temi epico-eroici, ed un pregiudiziale orientamento verso una mediocritas lirica e amorosa che traspariva già nella dedicatoria del volume. Questi suoi compiti introduttivi e declaratori suggerirono a Monteverdi di trattarlo né più né meno come i prologhi teatrali che da quasi un paio di decenni si erano iniziati a preporre ai nuovi spettacoli tutti cantati. Le due quartine e le due terzine del sonetto sono trattate come altrettante strofette di un'aria, incorniciate da un "ritornello" strumentale intermedio e da una più estesa "sinfonia" a cinque introduttiva e di chiusura: quasi questa e quelli dovessero servire rispettivamente per l'entrata e i 'passeggi' in scena di un ipotetico Poeta deputato a fare il prologo. Su di un basso continuo che ritorna periodicamente identico in ogni stroe (donde l'appartenenza del pezzo al genere dell'aria) adattandosi alla maggiore o minor estensione del testo ivi intonato (quartine e terzine), il compositore colloca una voce di tenore il cui stile recitativo è segmentato ad sensum da cadenze che perlopiù coincidono con la fine di ciascun verso, e qua e là acceso da vocalizzazioni espressivo-illustrative (ad esempio, l'impennarsi melodico per "Alzo talor lo stil..." e "de la tromba sublime il ciel...", la floridità di "e pur tra fiori"), di segnalazione semantica ("lo dio guerrioer temprando i feri segni") m anche strutturale, per enfatizzare una clausola (al termine della prima edell'ultima strofe).
Secondo quanto già manifesto nel titolo del libro (Concerto, vale a dire ponderata congerie di elementi diversi), in esso conviveva una varietà di componenti che il sottotitolo chiariva constare di "madrigali" a 1-6 voci e di "altri generi de canti". Il grosso comunque era costituito da una nutrita serie di madrigali a due voci e basso continuo, tra cui figura il sonetto di Battista Guarini "Interrotte speranze, eterna fede", le cui quartine e la prima terzina mettono insieme un amaro omaggio 'floreale' che l'amante non corrisposto invia alla propria crudele amata, formato da una paratattica enumerazione di manifestazioni dolorose e di comportamenti disperati. Per l'analitica descrizione di questi "gran fasci [...] d'aspri tormenti e fieri", penosi "trofei" innalzati dalla dama spietata, Monteverdi ricorre ad un singolarissimo stile rappresentativo non solistico, ottenuto dalla collaborazione di due tenori: la recitazione si compie in maniera rigorosamente sillabica, attenendosi strettamente allo scorrimento del testo letterario, senza ripetizioni o indugi. Di grado in grado, senza salti, e mantenendosi tra loro a stretto contatto (quando non sono in unisono, si allontanano perlopiù al massimo di una terza, stabilendosi cioè sulla consonanza più vicina) le due voci ascendono lungo un'ottava dorica su di un basso continuo del tutto statico che si riscuote dalla propria immobilità solo sull'ultimo verso, spingendo alla cadenza le voci che avevano appena attinto il culmine della loro scalata. La climax coincide dunque con l'apice della declamazione vocale, che fornisce un supporto schematico ed elementare all'accumulazione verbale, vero protagonista del pezzo: gli schemi più scopertamente legati alla tecnica musicale (i processi armonici cadenzati del basso, i ritardi e le sincopi tra le voci) prevalgono laddove il compositore vuole porre un primo punto fermo in coincidenza con la chiusura della quartina iniziale. Quella successiva riceve identico trattamento, quasi fosse una seconda strofe pure e semplice. Anziché come una curva asimmetrica che precipita improvvisa dopo aver raggiunto invece gradatamente il vertice, la prima terzina viene architettata con una progressione ascendente formata da tre segmenti, ciascuno corrispondente ad un verso, il cui intensificarsi è placato solo dalla clausola al termine della terzina. La dissimilazione che apre i tre versi conclusivi - ciascuna voce intona da sola brandelli del testo letterario - sonerà allora come uno strappo improvviso del tessuto compositivo fin lì intrecciato, mentre per il verso finale i dispositivi musicali (imitazione alla quarta inferiore tra le voci - e si noti perdipiù il salto iniziale del soggetto, uno scarto assai brusco dopo tanto procedere per grado congiunto -, basso continuo ad impulsi e regolari) hanno la loro rivincita sull'oratoria letteraria, trascinando il testo nei propri ingranaggi ed imponendogli ripetizioni e riprese.
Di tutt'altra natura "Con che soavità, labbra adorate", in cui un galante madrigale letterario di Battista Guarini riceve una fastosa veste concertante, intonato com'è da un soprano solo affiancato - quasi sempre a nota contro nota - da ben tre "chori" (cioè gruppi) strumentali: uno con funzioni più che altro di basso continuo a sostentamento della voce, e gli altri due che si differenziano per tessitura in quanto uno raggruppa strumenti in prevalenza acuti, e l'altro gravi. Il loro ingresso è graduato in modo che l'apparato strumentale s'ispessisca strada facendo: dapprima il semplice sostegno del continuo, poi il "choro" acuto ch aureola il canto, cui segue la corposa basserìa del "choro" grave, e infine tutti e tre riuniti assieme dall'invocazione "O cari baci...". La linea di canto si disegna flessuosamente con repliche interne e ribadamenti integrali o varianti, nel tipico stile di canto a solo madrigalistico. Alla larga scala dell'organico corrisponde anche una costruzione secondo il principio delle larghe campiture e dell'alternanza di solidi blocchi la cui diversificazione è soprattutto nel metro: i passi vivaci e a 'note intere' ("come i vostri diletti S'ancidono fra lor", "baciando i detti e ragionando i baci") si avvicendano infatti con quelli intonati più distesamente a valori ampi ("se dolcemente vive", "che soave armonia...", "se foste unitamente") dando un eccellente esempio dei nuovi criteri strutturali in via di affermazione in molta musica contemporanea.
Al gruppetto di "arie" di Monteverdi che l'editore Bartolomeo Magni raccolse e pubblicò nel 1632 insieme con un paio di suoi "madrigali in stil recitativo" e "una ciaccona", appartengono "Et è pur dunque vero" e "Quel sguardo sdegnosetto", letterariamente  due canzonette di autori non individuati. Entrambe arie in cui il criterio della stroficità riguarda il solo basso continuo (la prima anche con "sinfonia" per un imprecisato strumento acuto e basso), esse illustrano bene due diversi stili di canto all'epoca possibili per questo repertorio. In "Et è pur dunque vero" il lamento di un pastore abbandonato dall'amata Lidia suggerisce una sprezzatura ritmica ed un fare melodico riecheggiante lo stile recitativo, ricco di particolari inflessioni espressive (i cromatismi di "rivolgo in pianto", "torbidi pianti", "non può morir chi non è vivo"; la repentina discesa dei "pricipitii"; l'indeggiamento di "mormorare i venti"). La leggiadria erotica di "Quel sguardo sdegnosetto" stimola invece una fluente e talora florida cantabilità con riprese interne iniziali interessanti i primi due versi di ogni strofetta (che si potrebbero musicalmente indicare con A e A1, dato che il loro basso risulta identico, e il canto trasportato e lievemente variato) e gli ultimi due che suonano come un refrain dato che la linea vocale vi si ripete identica, con l'unica eccezione della conclusione dell'ultima strofe.Qua e là rapide pennellate illustrative insaporiscono la scenetta: una cascata di vocalizzi per il "nembo di faville", un piano inclinato cromatico per "ch'io venga meno", squilli di fanfara che fanno presagire gli scherzi "guerrieri" del Libro ottavo in "Begl'occhi, a l'armi, a l'armi".
Mentre il "ritornello" strumentale a cinque costituisce parte del piccolo contributo commissionato a Monteverdi nel 1617 dalla corte mantovana nella circostanza delle nozze tra Ferdinando Gonzaga e Caterina de' Medici (i comici Fedeli avrebbero recitato La Maddalena, una sacra rappresentazione di Giovan Battista Andreini: i pochi inserti musicali richiesti furono dati da comporre a Monteverdi, Muzio Effrem, Salomone Rossi ed Alessandro Guivizzani), "Bel pastor dal cui bel sguardo" apparve postumo nella raccolta di Madrigali e canzonette curate ed edite da Alessandro Vincenti nel 1651. Questa canzonetta anacreontica di Ottavio Rinuccini tratteggia un dialoghetto amoroso di sfondo bucolico: Monteverdi evidenzia l'individuazione dei due protagonisti affidando le battute della pastorella al soprano, e quelle del pastore alla voce tenorile. I contorni formali delle strofette sono però molto liberamente osservati dal compositore, che vi applica uno stile recitativo sfumante dall'apertura ariosa dell'esordio alla declamazione perfino patetica ("No, ch'afflitto e sbigottito...", che raccoglie il teso salto di sesta minore discendente già udito in precedenza), dalla signoria dell'"orazione" a quella dell'"armonia", con passi di travolgente ritmo ternario impostati spesso su progressioni melodico-armoniche in cui il testo viene trascinato ai voleri della musica, con le irregolari apparizioni di un refrain a due membri ("Come che..." e "Questi vezzi": ma per quest'ultimo il testo di volta in volta muta). Coi suoi scambietti e l'alternarsi di battute tra i due interlocutori, questa canzonetta dialogica potrebbe trovare collocazione in un contesto drammatico anche più articolato, vero e proprio duetto d'amore per coppie comprimarie o minori, né più né meno di quelle Melanto-Eurimaco del Ritorno d'Ulisse in patria e Damigella-Valletto nella Coronatione di Poppea.
Paolo Fabbri