1 LP - 33QCX 10026 - (p) 1953
1 LP - 33CX 1103 - (p) 12/1953
1 LP - 35064 - (p) 19xx

Ludwig van BEETHOVEN (1770-1827)


Quartetto n. 13 in si bemolle maggiore, Op. 130
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- Adagio ma non troppo - Allegro --' --"

- Presto --' --"

- Andante con moto ma non troppo. Poco scherzando --' --"





- Alla danza tedesca (Allegro assai) --' --"

- Cavatina (Adagio molto espressivo)
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- Finale (Allegro)
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QUARTETTO ITALIANO
- Paolo Borciani, violino I
- Elisa Pegreffi, violino II
- Piero Farulli, viola
- Franco Rossi, violoncello
 






Luogo e data di registrazione
Basilica Sant'Eufemia, Milano (Italia) - 6-8 ottobre 1953

Registrazione: live / studio
studio

Producer / Engineer
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Prima Edizione LP
Columbia (Italia) - 33QCX 10026 - (1 LP) - durata --' --" - (p) 1953 - Mono
Columbia (United Kingdom) - 33CX 1103 - durata --' --" - (p) 1953 - Mono
Angel Records (USA) - 35064 - durata --' --" - (p) 19xx - Mono


Note
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E' ormai chiaro che Ludwig van Beethoven non fu soltanto un genio musicale di primissimo piano, ma colui, ancora, che assunse nella musica una posizione personale del tutto inedita, del tutto nuova e imprevista. Tanto che il beethovenismo oltre che a costituire una maniera, uno stile, un carattere specifico di linguaggio sonoro, costituì pare un fatto umano e morale; la candidatura, non mai prima posta, di un musico, ad apostolo di una particolare concezione del mondo, ad assertore di una verità intravista, di una fede acquisita, ansiosa di comunicarsi. Con l'avvento di Beethoven, l'arte della Musica intese rivestire i lineamenti dell'etica; intese farsi testimonio di un dramma individuale (dramma svelato per fraterna carità, per atto solidale, per coscienza di rappresentare una sorta di prototipo) e infine additarci la strada per superarlo. L'atto primo di codesta parabola consistette in una coraggiosa discesa dentro gli abissi dell'anima; in un'indagine spietata e in un'eroica annotazione di ogni suo contrasto, d'ogni sua insofferenza, d'ogni sua rivolta contro il destino. Già questo mettersi a nudo, già questo rivelare la propria crocifissione, adeguandosi alle condizioni di tutti i suoi simili, era un assunto magnanimo e consolatore. Ma la grandezza di accento, con cui questo rapporto veniva presentato conferiva per se stesso, alla tragicità dell'umana sorte, un lineamento eccezionale, un segno di necessità arcana, una prova del suo essere come prezzo indispensabile a una successiva elevazione e ad una successiva catarsi. Per ascendere alla luce e alla pace, cui era chiamato dal suo desiderio e dalla tendenza spontanea della sua essenza spirituale, l'uomo doveva bruciare tutto il suo dolore; doveva consumarlo vivendolo, scoprendone le ferite, esaurendo, senza reticenze, lo smarrimento e la disperazione. Un simbolo antico, il simbolo di Prometeo ribelle agli dei per ansia di soccorrere gli uomini, rinunciatario della felicità divina per impulso a spartire l'infelicità degli uomini, il mito di Prometeo, pronto a sostituire con la sofferenza il brutale oblio delle creature purchè da tale sostituzione nascesse una coscienza virile dei propri compiti e dei propri doveri, svelarsi nell'esistenza e nell'opera di un solitario artista, figlio di una cuoca e di un volgare musicante, nel pellegrinaggio terreno di un artista duro e traboccante d'amore, nemico della società per eccessiva brama di volerla perfetta, proteso verso l'avvenire come a solo e possibile paese d'ogni speranza. Simile volontà di Beethoven, simile impegno e simile addossarsi di responsabilità non ancora affrontate, simile decisione di vivificare il contenuto della musica con la presenza di una idea, s' da farne un lungo e quasi sanguinoso apologo, doveva, necessariamente, sconvolgere ogni ordine prestabilito e sottoporre ogni forma a una tensione massima, a una disgregazione totale, d'onde sarebbe poi sorta una nuova architettura. In Beethoven, il drammatismo non scaturì più da situazioni predisposte e antecedenti il contatto con la musica (così come avveniva nel caso del teatro); non andò più sviluppandosi, fatalmente, dal giuoco serrato delle entità sonore (così come avveniva in certi momenti della composizione sinfonica e da camera), ma fu ricercato e attuato con avida, con rigorosa consapevolezza. L'ideale non venne più situato nella purità cristallina, nella celeste giustezza d'ogni movimento, d'ogni linea, d'ogni rapporto, bensì in quella che apparve come verità del proprio essere umano e nella fedeltà ad una missione profetica. Se Beethoven avesse potuto disporre della cultura letteraria di un Wagner e se, ai suoi tempi, anche un uomo spregiudicato e avventuroso quanto lui avesse potuto concepire che un musicista scrivesse da sè i propri libretti, forse un così forte empito drammatico si sarebbe risolto nella creazione d'opere teatrali e si sarebbe espresso per via di allegorie, per via di sdoppiamenti nei caratteri scenici. Educato fin da giovane allo stile istrumentale e troppo geloso di libertà, di sincerità, intesa come obbligo insormontabile, Beethoven elesse a campo di battaglia la Sinfonia, la Sonata e i generi affiniti della musica da camera. Di qui, egli si sentiva più atto a cogliere in pieno il bersaglio; qui non avvertiva ostacoli o pericoli di deviazioni. Qui, il transito dal mondo interiore al mezzo materiale per comunicarlo poteva compiersi direttamente, per la strada più breve. Fu un viaggio lento e faticoso, tutto segnato di perplessità e di abbandoni. Quasi un rimorso, talvolta, nel dover distruggere le paradisiache forme di Haydn e di Mozart. Ma lo schema della Sonata prese, a poco a poco, un aspetto intieramente diverso. Incominciarono a dilatarsi i quattro "tempi" classici; a incidersi, più profondamente, il contrasto fra prima e seconda idea. Cessò il Minuetto di rievocare, con maggiore o minore precisione, relegante passo di danza, e, in suo luogo, esplose lo Scherzo, travolgente, tempestoso, ferrigno, spesso sarcastico e quasi brutale. Poi, i quattro "tempi" di prammatica si fecero più numerosi, riproducendosi, non di rado, anche per brevi e inaspettati ritorni. Il corso inflessibile degli "allegro" subì improvvise fratture; in certi punti culminanti degli "sviluppi", chiaramente tesi verso una conclusioue, si trovarono polverizzati ad un tratto, inceneriti, cancellati da fulminei silenzi, come da catastrofi o come da un annichilirsi d'ogni forza vitale. E i limiti delle sonorità si allargarono, verso il più acuto e verso il più grave; i moti contrappuntistici divennero più spericolati; talune melodie si compiacquero di conservare uno stato primordiale, di mantenersi pressochè informi per non tradire il loro essere di immagine non ben determinata e non ben posseduta. La Sinfonia, la Sonata, il Quartetto si tradussero in lunghi e complessi poemi; sul gorgo dell'orchestra si librò infine anche la voce umana. Ora, noi possiam ben dire che la rivoluzione beetboveniana, se risulta più appariscente (e quindi è diventata più popolare) attraverso le nove Sinfonie e attraverso taluna delle Sonate per pianoforte, ritiene la più alta espressione, offre il suo documento più vivo negli ultimi Quartetti per archi. Negli anni 1824, 1825 e 1826, presago della fine imminente, malato e bisognoso di tutto ("miser et pauper", com'egli stesso ebbe a dire) il grande maestro era già trasceso oltre la vita. Le linee dell'immenso mondo, creato in trent'anni di accanito lavoro, si andavano serrando entro disegni sempre più complessi ed astratti. Ogni esperienza ed ogni sensazione, ogni gioia ed ogni dolore, ogni vicenda di un'esistenza pensierosa, china sul profondo dell'anima e aperta a un contatto mistico con la natura e con gli uomini, si concretavano in superbe invenzioni, ove nulla si trovava dimenticato ed ove tutto rivestiva l'aspetto di cosa nuovamente scoperta. Il persistente dramma dello spirito beethoveniano si innalzava a tal punto da farsi scorgere, in un unico sguardo, gli abissi più segreti e le più chiare efflorescenze. Meno esposti alle minacce dell'enfasi orchestrale, regolati da vertiginosa dialettica nel discorso fra i due violini la viola e il violoncello; concentrati, a tratti, in mondo siffatto che il doppio dialogo andò a confondersi dentro risolazione di uno stoico soliloquio; attardati, ogni tanto, nel ricordo di felicità smarrite, di feste godute o vanamente sperate, i Quartetti dell'ultimo Beethoven si inoltrano verso zone dello spirito che nessuno, nè prima nè dopo, aveva mai osato esplorare.
Sono sei codesti capolavori, addensati in un periodo di poco più di due anni e tali da superare di molto i dieci già composti a lunghi intervalli di tempo. Il Quartetto in si bemolle op.130, scritto lentamente, dalla primavera all'autunno del 1825, consta di parecchi "movimenti", disposti in un ordine assolutamente eterodosso dal punto di vista della disposizione haydniana e mozartiana. S'apre con un "Adagio non troppo"; meditabondo e inconcluso, il cui inizio ritorna cinque volte a interrompere, ad arginare, a deviare il corso di un "Allegro" fondato su tre temi essenziali, i primi due gagliardi rimbalzanti e pieni di vita, il terzo assai più dolce e sereno. In tutto questo "Allegro" circola un che di fremente; e i quattro istrumenti ora si ravvicinano ora si espandono verso registri estremi; bruschi passaggi, cesure vigorose spezzano il discorso per farne più vertiginose le riprese. Il "Presto" successivo par travolgere con maschia accelerazione e flagellare con il pungolo di un humour selvaggio il galante andamento della vecchia Gavotta; l'"Andante con moto ma non troppo" ("poco scherzoso") oscilla fra la tenerezza e la leggerezza, fra la vaporosità e la consistenza. Il quinto "tempo" ("Alla danza tedesca, allegro assai"), scandito sopra un ritmo popolaresco, alterna figure di plasticità incisiva con episodi sfumati; parole semplici e forti con sussurri e mormorii enigmatici. Succede a questa "tempo" la famosa "Cavatina" ("Adagio molto espressivo") che non ha nulla a vedere con l'omonimo pezzo vocale, caro al melodramma dell'ultimo Settecento, ma che è una specie d'inno cantato a se stessi, una specie di preghiera pronunciata nel silenzio notturno o una specie di interrogazione, indirizzata all'eterno e raccolta dalla pietà di qualche angelo. Di questa pagina prodigiosa, Beethoven disse al violinista Holtz "l'ho composta piangendo e il solo suo ricordo mi fa tornare agli occhi le lacrime!".
Il "Finale" ("Allegro") costituisce il brano meno preoccupato di tutto il Quartetto. E' la fiducia, vittoriosa di ogni precedente inquietudine; è la risorgenza dell'uomo coraggioso, il congedo di un forte, che entra a testa alta nel mondo ultraumano delle verità assolute.
Giulio Confalonieri