ARCOPHON


1 LP - AM 6611 - (p) 1965
1 CD - CRA 8912-4 - (c) 1996

Carlo GESUALDO da Venosa (1566-1613)





MADRIGALI A CINQUE VOCI, LIBRO IV (1596)




- Luci serene e chiare 3' 33"
- Tall'hor sano desio 4' 08"
- Io tacerò | Invan dunque, o crudele
6' 37"
- Che fai meco, mio cor, misero e solo? 2' 34"
- Questa crudele e pia 2' 52"
- Or, che in gioia | O sempre crudo amore
4' 06"
- Cor mio, deh, non piangete | Dunque non m'offondete
5' 15"



- Sparge la morte 5' 45"
- Moro, e mentre sospiro | Quando di lui
5' 03"
- Mentre gira costei 3' 14"
- A voi, mentre il mio core 3' 21"
- Ecco, morirò dunque! | Ahi, già mi discoloro 4' 18"
- Arde il mio cor 2' 03"
- Se chiudete nel core 2' 05"
- Il sol, qualor più splende | Volgi, mia luce 3' 52"



 
QUINTETTO VOCALE ITALIANO / Angelo Ephrikian, direttore
- Karla Schlean, soprano
- Clara Foti, mezzosoprano
- Rascida Agosti, contralto
- Rodolfo Farolfi, tenore
- Gastone Sarti, basso
 






Luogo e data di registrazione
Villa Litta, Milano (Italia) - 9-15 aprile 1965

Registrazione: live / studio
studio

Producer / Engineer
Giambattista Pirelli / Karla Schlean - Angelo Ephrikian

Prima Edizione LP
Arcophon - AM 6611 - (1 LP) - durata 57' 20" - (p) 1965 - Analogico

Edizione CD
Rivo Alto & Electa "Musica e Musei" - CRA 8912-4 - (1 CD) - durata 57' 20" - (c) 1996 - ADD

Note
In copertina (CD): Andrea Mantegna, Camera degli Sposi, La Corte (particolare dell'affresco) - Palazzo Ducale - Mantova











IL QUARTO LIBRO DEI MADRIGALI
Il Quarto Libro dei Madrigali fu pubblicato a Ferrara nel 1596, per i tipi di Vittorio Baldini, a cura di Hettore Gesualdo. Esso si collega strettamente alle esperienze stilistiche che condizionarono la composizione della precedente raccolta; rimandiamo pertanto, per un inquadramento generale, alla presentazione del Terzo Libro (Disco Ars Nova VST 6197), dove vengono esaminate le relazioni del musicista con i madrigalisti italiani del tardo Cinquecento, con le esperienze dei monodisti e soprattutto con l’ambiente musicale della corte di Ferrara presso la quale il Gesualdo, dopo aver sposato in seconde nozze Leonora d’Este, soggiornò dal 1594 al 1596. A questo proposito è necessario prendere in considerazione anche la suggestione che può aver esercitato sul musicista e segnatamente sull’evoluzione della sua particolare, singolarissima sensibilità armonica, la conoscenza del clavicembalo diatonico-cromatico-enarmonico di Nicola Vicentino. Sappiamo da una testimonianza di Ercole Bottrigari che tale strumento, di difficilissima esecuzione, mostrava a pieno le sue nuove possibilità armoniche allorchè veniva suonato da Luzzasco Luzzaschi - il cui influsso su Gesualdo è stato peraltro ampiamente sottolineato da tutta la critica moderna: "...massimamente alora che il Luzzasco Organista principale di sua Altezza, lo maneggia molto delicatemente, can alcune composizioni di musica fatte da lui a questo solo proposito". E’ quanto mai significativo che Gesualdo, tornato a Napoli, abbia tentato - sia pure, a quanto pare, senza successo - di costruire uno strumento simile all’Archicembalo del Vicentino.
D’altra parte, tale interesse non è disgiungibile da un più vasto impegno culturale del musicista, che profondamente partecipa - e da protagonisra - al complesso movimento di idee e di istanze estetiche che agita l'avanguardia musicale italiana dell’ultimo Cinquecento. Sì che l’acquisizione di un nuovo spazio arrnonico (già ampiamente documentato in molti madrigali di questo Quarto Libro) è indisgiungibile da una più ampia e profonda ricerca espressiva perseguita dal musicista. Ricerca che prosegue nel senso di una sempre più radicale interiorizzazione del discorso musicale, di una totale riduzione del fare creativo sotto il segno dell’espressione. Permangono, certo, elementi e stilemi della più tradizionale prassi compositiva del madrigale, specie in brani che verosimilmente riflettono uno stadio stilistico anteriore a quello documentato dalla maggior parte delle composizioni della raccolta (forse opere scritte negli anni precedenti e aggregate dal curatore del Libro ai nuovi madrigali "ferraresi"). Ma certo Gesualdo ha orrnai elaborate uno stile e un mondo sentimentale inconfondibilmente suoi. Anche se certe particolarità di scrittura (le improvvise interruzioni del pezzo mediante pause in tutte le voci; l’esposizione mottettistica in stretta imitazione delle parti; la brevità epigrammatica della composizione) sono riportabili, secondo lo Einstein, all’esempio del Luzzaschi (e una analisi più approfondita e minuziosa potrebbe dimostrare l’accoglimento di ulteriori suggestioni da parte dell’ambiente musicale contemporaneo), a nessuno se non a Gesualdo si può far risalire la straordinaria concentrazione espressiva, il raccoglimento e la serietà profonda, quasi religosa, l’alta, appassionata elegia di questi madrigali. Quella "Wonne der Wehmut", quel gioire della propria pena, quella "tonalità affettiva tenera e trasognata", quell’"ardente, doloroso, traboccante, incontenibile struggimento" che August Wilhelm Ambros indicava come caratteristiche proprie dell’arte di Gesualdo, trovano nel Quarto Libro dei Madrigali una compiuta espressione, libera altresì dall’affiorare di quel manieristico compiacimento avvertibile nelle prove estreme del Quinto e del Sesto Libro.

Luci serene e chiare,
Voi m’incendete, voi, ma prova il core
Nell’incendio diletto, non dolore.
Dolci parole e care,
Voi mi ferite, voi, ma prova il petto
Non dolor nella piaga, ma diletto
O miracol d’amore!
Alma cbe è tutta foco e tutta sangue
Si strugge e non si duol, more e non langue.
Il testo presenta la struttura propria della canzonetta: tre stanze di tre versi ciascuna, in forma a, a', B. Sarà interessante osservare come Gesualdo, mentre sernbra rispettare nell’interpretazione musicale la piana architettura formale suggeritagli dalla poesia - intonando la seconda stanza come una semplice variazione della prima -, venga in realtà travolgendola, non solo col dilatarne la sezione finale mediante un ritornello e una coda, ma rallentando lo svolgimento di tutto il discorso attraverso una serie di puntuali, sapienti caratterizzazioni dei singoli momenti espressivi. Si rivela qui, come nota finemente l’Einstein, la natura "antiletteraria" e "violenta" del nostro musicista: il traboccare, si direbbe, di una fantasia e di una qualità umana insofferente degli schemi usati, ma pur regolata da una nuova, più libera e ardita misura costruttiva. Tra le molte finezze di scrittura, da notare la falsa relazione che ricorre nell’ultima enunciazione del verso "si strugge e non si duol, muore e non langue". Effetto verso il quale Gesualdo mostra particolare predilezione in molte altre composizioni di questo Libro, e dei seguenti.

Tal’or sano desio
Vuol che morendo ancida ogni mia doglia,
Ma io di pianger vago, o fiera voglia,
Amo la vita solo
Perchè il mio pianto eterni eterno duolo.
E’ difficile non scorgere in questo madrigale il ricorrere di un motivo autobiografico, profondamente sentito dal Gesualdo. Pure, la bruciante materia sentimentale si dispone entro una prospettiva singolarmente nitida e controllata: non l’empito della passione, qui, ma una meditazione elegiaca, soffusa tutta di una malinconia dolorosa.

Io tacerò, ma nel silenzio mio
Le lagrime e i sospiri
Diranno i miei martiri.
Ma se avverrà ch’io mora
Griderà poi per me la morte ancora.
Invan dunque, o crudele,
Vuoi che 'l mio duol e 'l tuo rigor si cele,
Poi che mia crude sorte
Dà la voee al silenzio ed a la morte.
E’ uno dei più belli tra i madrigali di Gesualdo e forse il più celebre. Nelle trascrizioni moderne ne viene però offerta in genere solo la prima parte: il che finisce per svisarne il carattere e la struttura espressiva. Infatti le due sezioni in cui esso si sviluppa sono strettamente complementari. Una confessione pateticamente appassionata la prima, e come scossa da improvvisi trasalimenti espressivi, sottolineati da audaci successioni armoniche. Improntata a un’estrema e come disumanata malinconia la seconda, culminante nel sublime finale che assume, sia nelle parole, sia nella musica un singolare valore emblematico dell’esperienza artistica e umana di Gesualdo.

Che fai meco, mio cor misero e solo?
Deh, vanne omai là dove
Sue grazie Amor da due begli occhi piove!
Apri a la gioia il seno,
Nè ti doglia il morir se verrai meno,
Poichè non è ch'aspire
Mortal di girne al Ciel e non morire.
La poesia, come la maggior parte dei testi musicati dal Gesualdo, è estremamente concettosa. La gioia dell’amore è simile alla beatitudine del Paradiso, e 1’una e l’altra si ottengono solo con la morte: ecco il convenzionale enunciato di questi versi manieristici e contorti. Pure Gesualdo ne sa ricavare una scena ariosa, mossa, drammatica, sottolineando fortemente alcuni vocaboli (due begli occhi; apri a la gioia e, in contrapposto, misero e solo; mortal; morire) e ricreando di fatto, con 1’ausilio della musica, 1’intera situazione espressiva.

Questa crudele e pia
Piange al mia pianto e duolse al mio dolore,
Ma non arde a l'ardore.
Tu, senza Amor pietosa,
Sia pur a tuo voler anco sdegnosa,
Chè amor de l'amor mio
E non pietà del mio dolor desio.
E’ una composizione tutta giocata su una declamazione sommessa e raccolta: che si anima di un più marcato accento nella sezione centrale, a sottolineare il tema della ripulsa (sia pur a tuo voler anco sdegnosa). Si noti la dilatazione della prima parte, singolarmente casta e controllata, e il sapore quasi di monodia armonizzata che assume la frase finale, opportunamente ritornellata al fine di equilibrare la struttura formale del madrigale.

Or, che in gioia credea viver contento,
M'apre la gioia il seno,
Fuggesi l'alma e 'l cor, oimè, vien meno.
O :empre crudo Amore,
Nella gioia non men che nel dolore!
Tlu sempre, o peni il cor o pur gioisca,
Fai ch'amando languisca.
Trattata in elegante, leggerissimo contrappunto, la prima sezione del madrigale pare precipitarsi verso l’esclamazione "oimé, vien meno", svolta su un lento disegno cromatico discendente di tutte le voci: un doloroso lamento, la seconda, che riunisce le parti in un mesto procedere accordale, di un raccoglimento quasi religioso. Da notare la funzione assegnata dal Gesualdo qui come in altri madrigali della raccolta all’iterazione di incisi identici sia nel testo sia nella musica.

Cor mio, deh, non piangete,
Ch’altra pena non sento, altro martire
Che 'l veder voi languir del mio languire.
Dunque non m'offendete
Se sanar mi volete,
Ché quell'affetto che pietà chiamate
Se è dispietato a voi non è pietate.
E’ il testo poetico più bello, più urnanamente sentito e sincero tra quelli che Gesualdo ha scelto per questo suo Quarto Libro. Sin troppo facile sarebbe scorgervi, come già notammo per il madrigale Talor sano desio, un puntuale riferimento alla dolorosa situazione esistenziale e sentimentale del musicista, o quantomeno un nucleo di affetti che dovevano trovare nel suo animo un’eco immediata e profonda. Ma anche senza voler troppo insistere su questo punto, con una visione legata al mito romantico dell’arte come specchio e prolungamento dell’esistenza dell’artista, che può portare a pericolose distorsioni di giudizio, non potremo non meravigliarci di fronte alla castissima misura sentimentale, alla tenera, appassionata dolcezza di cui sa dare qui prova Gesualdo. E’ questo un madrigale tutto giocato, più che sullo sviluppo armonico, su una meravigliosa espansione melodica delle voci; non vi é qui il gusto per un contrappunto lucido e astratto quale abbiamo incontrato nelle raccolte precedenti. Tutto, sin nelle più riposte pieghe del discorso tende ora a farsi espressione, intensa e pregnante, del sentimento. Da rilevare la frequenza con cui ricorrono intervalli melodici ampi e rilevati: quinte, seste, ottave e, nella prima parte, sul vocabolo "languir", settime minori, in imitazione tra le voci estreme.

Sparge la morte al mio Signor nel viso
Tra squallidi pallori
Pietosissimi orrori,
Poi lo rimira e ne divien pietosa;
Geme, sospira, e più ferir non osa.
Ei, che temerla mira,
Inchina il capo, asconde il viso, e spira.
Su testo di Don Angelo Grillo, dalle Essequie di Giesù Cristo, questa composizione occupa un posto a sè nella raccolta: è infatti un madrigale spirituale, che Alfred Einstein ritiene composto dal musicista per solennizzare il Venerdì Santo nella sua cappella. Ritroviamo qui quel pathos religioso, quel senso mistico doloroso e quasi allucinato che è proprio della musica sacra di Gesualdo. E’ una scena, si direbbe, immersa nell’oscurità: tutti i registri vocali sono mantenuti nella regione grave, in una tonalità cupa e misteriosa; le linee melodiche si muovono per piccoli intervalli, fondendosi in dense aggregazioni e in improvvise, inusitate successioni armoniche. Solo l’arte di un pittore quale El Greco può essere accostata a questa metafisica intuizione fantastica di Gesualdo.

Moro, e mentre sospiro,
L’aura d’un mio sospiro
Corre volando a farsi alma d’un core
Ch’anco ei sospira e more.
Quando di lui la sospirata vita
Nel mio cor vola e di cor più non priva,
Vive e vivendo aviva.
Vita e morte gradita!
Non sa cbe sia gioire
Chi non sa così viver e morire.
E’ tra i più noti madrigali di Gesualdo; fu riprodotto anche da Giovanni Battista Martini nel suo Esemplare o sia saggio fondamentale pratico di contruppunto, Bologna, 1773 (Parte II, pp. 198 segg.). In effetti la qualità del testo, così tenue e soprattutto così tipico di un certo tipo convenzionale di "poesia per musica" può egregiamente sottolineare, a fortiori, la eccezionalità dell'interpretazione musicale datane da Gesualdo.

Mentre gira costei,
Ora veloci or tardi,
Fieri e soavi suoi amorosi sguardi,
Sento ch’amor, quel timido augelletto,
Vola, fugge e rivola nel mio petto.
Deh, ver me volgi omai
Sempre sereni rai,
Chè farà nel mio core
Suo dolce nido Amore.
E’ un capolavoro di grazia, di leggerezza e di eleganza. Pure, nonostante la ripresa di certe concordanze simboliche tra testo e musica proprie della più usuale prassi madrigalistica cinquecentesca (si vedano le figurazioni musicali su gira; tardi; fugge e rivola. ecc.) Gesualdo rivela nell’improvvisa, scabra durezza di certi passagqi (cfr. l’inciso su fieri e soavi, più volte ripetuto) e nell’intensità di altri momenti (Deh, ver me volgi omai e il finale suo dolce nido, Amore), l'aspetto più profondamente personale della sua arte.

A voi, mentre il mio core
Con i sospiri miei, messaggi suoi:
"Anima mia", vi dice, "ardo d'amore,
Anima mia, per voi d’amor io ardo",
Deh, non tacete voi,
Ma rispondete almen col vostro sguardo:
"Ardi e mori, cor mio,
Ch’ardo d’amor per te anch’io".
Seguendo analiticamente la trama significativa della poesia, Gesualdo costruisce una scena intensamente mossa e chiaroscurata, che tocca il suo vertice espressivo nell’enunciazione del muto dialogo sentimentale.

Ecco, morirò dunque!
Nè fia che pur rimire,
Tu ch'ancidi mirando il mio morire.
Ahi, già mi discoloro; oimè, vien meno
La luce a gli occbi miei, la voce al seno!
O che morte gradita,
Se almen potessi dir: "Moro, mia vita!"
Si può definire la composizione stilisticamente più ardita del Quarto Libro: il testo viene sottoposto a un’interpretazione così minuziosamente analitica da mettere in forse la stessa possibilità di una struttura formale coerente ed unitaria. Lo Einstein, riferendosi alla prassi compositiva dei madrigalisti precedenti, parla di una "totale disgregazione di ciò che un tempo era stato uno stile". In realtà si può parlare ora piuttosto di una unità di tono sentimentale, che riduce a un comune denominatore espressivo i vari momenti del madrigale, dotati sin dall’esclamazione con cui la composizione si apre di un’estrema forza di suggestione fantastica.

Arde il mio cor ed è sì dolce il foco
Che vive nell'ardore,
Onde lieto si more.
O mia felice sorte,
O dolce, o strana morte!
Meno impegnato da un punto di vista "armonico", presenta un’interessante costruzione formale: l’inciso iniziale viene musicato tre volte, in tre diverse versioni "variate", e gli ultimi due versi sono enfaticamente ritornellati. Il madrigale mantiene dall’inizio alla fine il modo d’impianto: tanto più spicco assume dunque il brusco giro armonico che sottolinea l’aggettivo "strana".

Se chiudete nel core
Il pargoletto Amore
Perchè serpe crudele in sen nudrite?
Ah, cbe voi troppo ardite!
Vedete non l'ancida,
Se vago di dolcezza ivi s’annida.
E’ una parentesi di grazia scherzosa e manierata, che si rilega alle più moderate esperienze di stile dei libri precedenti.

Il sol, qualor più splende,
Non è che scura e languida facella,
Onde non puoi veder come sei bella.
Volgi, mia luce, volgi entro il mio seno
Il bel guardo sereno
E mira, al lume de la fiamma mia,
Come tu bella e come ardente io sia.
Il Quarto Libro dei Madrigali si chiude, come già il Terzo, con un’ampia composizione a sei, anzichè a cinque voci. Opera di conchiusa e trasparente perfezione e di stupendo colore timbrico, esso corona questo primo tempo dell’attività artistica di Gesualdo su una nota di alta, severa maestria di stile
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Francesco Degrada