Nella produzione
musicale più matura
di Anton Webern,
l'innovativa tecnica
dodecafonica e l'antico
espediente compositivo del
canone si fondono in un
linguaggio di grande
compattezza: la fusione è
assolutamente naturale. Anche
se solo per reazione Webern
era pur sempre un prodotto del
tardo
Romanticismo austriaco: come
allievo di Schoenberg, egli
fece del metodo seriale del
suo maestro il miglior
"attrezzo" con il quale
affrontare i problemi tecnici
sollecitati dai travalicamenti
cromatici wagneriani fuori dai
confini della tonalità. Da un
altro lato, laddove Schoenberg
e un suo altro grande allievo,
Alban Berg, rimanevano
romantici nella loro essenza e
tentavano di conciliare la
nuova tecnica con le forme e i
modi espressivi tradizionali,
Webern era invece un
integralista,
costituzionalmente incapace di
compromessi. La riabilitazione
operata da Schoenberg nei
confronti della sonata e della
suite non poteva soddisfare il
suo radicalismo.
Il
metodo seriale diede a Webern,
come ai suoi colleghi, una
nuova fonte di materia
musicale, ma egli era ancora
in cerca dei suo modo
personale per utilizzarla.
Fortunatamente era uno
studioso e i suoi trascorsi di
musicologo gli fornirono ciò
di cui aveva bisogno. Le
lezioni di composizione di
Schoenberg e la scuola
musicologica di Guido Adler si
combinavano in quella
personalità d'artista
complessa ma concreta cui si
riferisce Robert Craft quando
parla del "Webern studioso
della polifonìa
quattrocentesca, dei mottetti
di Matteo da Perugia e di
altri, i cui complicati ritmi
verticali evocano i suoi, il
Webern dell'ochetus, del
canone, della forma chiusa,
del sistema di proporzioni."
Voltate le spalle al principio
dualistico che aveva portato
alla forma-sonata e di
conseguenza alla maggior parte
della letteratura musicale
ottocentesca, Webern accolse
questi più antichi principi ed
elesse il canone a
forma-chiave del suo
linguaggio. Come la
dodecafonia, il canone è un
metodo per raggiungere l'unità
e questa identità di scopi tra
i due elementi principali del
suo stile spiega la natura
omogenea e intransigente della
musica del suo periodo maturo.
Questa
sintesi non fu certamente
raggiunta di colpo e lo si può
notare dalla presenza di
elementi stilistici estranei
nelle prime opere pubblicate
mentre era ancora in vita il
compositore. Ma negli anni '60
quel lungo processo di
purificazione, che aveva
indotto ad attribuire all'op.
1 una data di composizione
precedente a quella reale,
diventò ancora più chiaro con
la scoperta di un'ampia
raccolta di manoscritti
inediti, che raddoppiavano la
consistenza della produzione
musicale di Webern. Il Tempo
Lento e il Quartetto
per archi risalgono
entrambi al 1905 (tre anni
prima della Passacaglia op. 1)
e presentano un lato affatto
nuovo di Webern, lontano dalla
squisita levigatezza e brevità
delle opere successive.
Il
Tempo Lento è
assai tradizionale nello stile
e nei contorni. Il linguaggio
è fortemente tonale, con
spostamenti dalla tonalità di
do minore alla relativa
maggiore mi bemolle (come
nella Seconda Sinfonia,
completato undici anni prima).
L'intonazione emotiva e il
fraseggio ampio differiscono
molto dal Webern più tardo, ma
già qui la passione per lo
stratagemma dell'inversione
dei temi prefigura la sua
successiva cura nei confronti
dei metodi contrappuntistici
di organizzazione dei suoni.
Il
Quartetto per archi
(1905) ha una struttura ancora
più estesa. Il manoscritto
reca una citazione da Jacobus
Böhme (mistico e scrittore
tedesco, 1575-1624): "Non
posso descrivere il senso di
trionfo che pervase il mio
spirito; potrebbe essere
paragonato solo alla nascita
di una vita nel mezzo della
morte, alla resurrezione dalla
morte. In questa luce la mia
mente vedeva immediatamente in
tutte le cose e in tutte le
creature, persino nelle
erbacce, in tutto riconosceva
Dio, chi Egli poteva mai
essere e come e quale fosse la
sua volontà." Il senso di
queste parole si riflette nel
tono misterioso delle prime
battute, che presentano subito
il motivo-chiave di tre note
su cui l'intera opera si basa,
sino alla ferma conclusione in
mi maggiore. La musica ha
continuità, anche se è fatta
di molte brevi sezioni,
compresa una lenta fuga di
sole ventidue battute.
I Cinque
movimenti op. 5,
composti nel 1909, mostrano
la tendenza verso una
struttura a cellule di tipo
avanzato. Ogni motivo viene
sviluppato non appena
proposto. La tonalità è
lasciata da parte, mentre
all'organizzazione della
materia provvede una
complessa applicazione di
tecniche contrappuntistiche.
La brevità cui tendono
naturalmente questi metodi
raggiunge le estreme
conseguenze nelle Sei
bagattelle op. 9
del 1913, la cui durata in
totale non raggiunge i
quattro minuti. "Si
consideri quale umiltà ci
voglia per essere così
concisi" scrisse
Schoenberg nella prefazione
allo spartito, "ogni sguardo
può prolungarsi in una
poesia, ogni sospiro in un
romanzo. Ma esprimere un
romanzo in un unico gesto,
una felicità con un solo
respiro... una simile
concisione si può verificare
solo in proporzione
all'assenza di
autocommisserazione."
Nel Quartetto
per archi op. 28,
dedicato a Elizabeth Sprague
Coolidge, la purificazione
di mezzi è al culmine.
L'attenzione per timbri
viene sostituita dal
concentrarsi sulla linea
melodica. Mentre le opere
precedenti indulgevano
spesso in effetti
strumentali particolari,
nell'op. 28 i tradizionali
"arco" e "pizzicato" sono
gli unici due modi di
suonare, diversificati solo
dall'uso della sordina e da
un'unica misura da eseguire
sul ponticello nella parte
del secondo violino. Scritto
nel 1938, cioè quattordici
anni dopo che Webern aveva
adottato la tecnica
dodecafonica per la prima
volta nei suoi Tre
canti popolari sacri op.
17, il quartetto
è un esempio dell'evoluzione
che tale tecnica subì man
mano che anche il
compositore andava soggetto
ad una maturazione
artistica, raggiungendo i
vertici del rigore e
dell'economia espressiva. Il
contrasto con il Tempo
lento del 1905 è
stupefacente, e la
differenza è data dalla
crescita di un artista nella
sua inflessibile autonomia.
Bernard
Jacobson
(Traduzione: Stefania
Brizzolara)