Glenn Gould (25 settembre 1932 - 4 ottobre 1982)





Se un ictus non l’avesse colpito il 27 settembre del 1982, oggi Glenn Gould avrebbe ottant’anni. Difficile immaginare cosa avrebbe fatto, nel frattempo: certamente se ne sarebbe rimasto rintanato a studiare, scrivere saggi e libri, comporre e suonare, su quello sgabello troppo basso per ogni comune mortale. Lui, però, il leggendario pianista che all’apice della carriera abbandonò l’attività concertistica per concentrarsi esclusivamente sulla registrazione discografica, l’artista che forse più di ogni altro si è avvicinato a un’idea di perfezione, certo un comune mortale non lo era affatto. A testimoniarlo è l’interesse che ancora oggi gira attorno alla sua figura e alla sua opera: saggi, libri, documentari, film d’autore, mostre ravvivano la leggenda del pianista isolato e solitario, geniale e spiritoso, bizzarro e anticonformista.
Bizzarro lo fu all’eccesso, sia sul, e intorno al, pianoforte, che fuori dalla sale da concerto o dallo studio di registrazione. Sin da giovanissimo, al tempo dell’eclatante esordio, aveva l’abitudine di canticchiare a bocca chiusa passaggi del brano che stava eseguendo; spesso, staccava una mano dalla tastiera e iniziava a dirigere un’orchestra invisibile; il suo sgabello – una sediolina pieghevole costruitagli dal padre, in cui ciascuna gamba poteva essere regolata ad altezza diversa – di frequente scricchiolava, producendo rumori di fondo indesiderati. Tutto, però, gli fu perdonato, al contrario di ciò che ancora oggi accade con un altro guru del pianoforte, Keith Jarrett, il cui canticchiare istintivo è stato più volte oggetto di scherno, e l’ossessiva rigidità su tutto quello che lo circonda lo rendono inviso ai più.
Con Jarrett, Gould condivideva anche una intolleranza ai cambiamenti climatici; in ogni stagione dell’anno, il pianista canadese (era nato a Toronto, ma a chi gli chiedeva di dove fosse rispondeva inevitabilmente: Uptergrove, il paesino poco più a nord, dove i suoi genitori avevano una villetta) indossava strati e strati di abiti: in estate non usciva mai senza il cappotto – detestava la luce del sole – e soprattutto i guanti. Le sue mani dovevano essere sempre calde e protette, anche dall’involontario contatto con quelle di estranei: quando era ancora un concertista sulla porta del suo camerino attaccava un foglietto nel quale pregava di non stringergli le mani, e di non offendersi se lui non lo faceva, per evitare gli innumerevoli e imprevedibili incidenti che quella pratica poteva comportare; prima di suonare, poi, le immergeva per minuti nell’acqua bollente, fin quando non diventavano rosse.
Con Jarrett, Benedetti Michelangeli, e molti altri pianisti, poi, condivideva l’ossessiva ricerca del pianoforte perfetto. Sebbene fosse sponsorizzato dalla Steinway, con la fabbrica americana Gould ebbe un rapporto conflittuale, fatto di reciproche incomprensioni: il suono pieno e denso, caratteristico di quel marchio, a lui non piaceva: preferiva i toni smorzati e languidi del suo pianoforte personale, uno Steinway CD 318, che un tecnico specializzato teneva sempre in perfetto stato, soprattutto quando lo strumento veniva danneggiato nei frequenti trasporti.
Bizzarro e isolato, ma non certamente un introverso. Gould era un uomo assai spiritoso e piacevole. Il suo lato più comico e divertente lo mostrò in alcune delle innumerevoli trasmissioni televisive da lui scritte e dirette, in cui interpretava una serie di personaggi da commedia, come Sir Nigel Twitt-Thornwaite, il decano dei direttori d’orchestra inglesi, Herbert von Hochmeister, un severo critico musicale tedesco, e l’irresistibile tassinaro newyorchese Theodore Slutz: personaggi strampalati e grotteschi, attraverso i quali il geniale pianista riusciva a comunicare le sue idee sulla grande musica. Sebbene avesse scelto di vivere separato dal mondo, Gould non cessò mai di comunicare. Anzi, fu uno dei primi a capire che le nuove tecnologie avrebbero potuto migliorare non soltanto il modo in cui si diffondono le opere d’arte, ma anche il modo in cui le si produce.
Si è sempre pensato che l’abbandono delle sala da concerto – avvenuto nel 1964, all’apice di una carriera folgorante e quando il pianista aveva soltanto trentuno anni – sia stato il sintomo di un disagio più ampio e problematico, che il suo rinchiudersi nelle sale di registrazioni traducesse, più o meno fedelmente, la volontà di mettersi alle spalle il mondo, e forse anche la musica. La verità è che Gould aveva colto l’incommensurabile differenza di possibilità a disposizione tra il suonare dal vivo e la registrazione discografica. Quella del pianista canadese è una leggenda che si tramanda esclusivamente attraverso i dischi, le registrazioni: queste non sono mai passive, la semplice replica di un atto creativo, ma sono esse stesse parte del processo creativo. Gould era morbosamente attratto dall’orizzonte sconfinato che gli veniva aperto dall’azione, apparentemente semplice, di posizionare uno o più microfoni sopra e attorno al pianoforte; aveva capito che la ripresa del suono e la fase del missaggio – quella cioè in cui si decide quali dei microfoni utilizzati deve sentirsi di più o di meno – erano altrettanto decisivi della mera esecuzione del brano, che molto si avvantaggiava dalla possibilità di poter essere ripetuta all’infinito, per poi scegliere la versione (la take, in gergo tecnico) migliore.
Quella di Gould non fu una scelta isolata. In molti, soprattutto in quel periodo, compresero le infinite risorse del processo di registrazione, provando a sfruttarlo a fondo. Brian Wilson con i Beach Boys e soprattutto i Beatles crearono in studio opere di estrema complessità tecnica, talmente stratificate da essere ineseguibili dal vivo: esistevano, cioè, solo in virtù del sistema e dei macchinari che le avevano create.
Quando entrò negli studi Columbia sulla Trentesima Strada, a New York, per incidere il suo primo disco, le celeberrime Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach, Gould, nonostante la giovane età (siamo nel giugno del 1955), era già consapevole di quel che si apprestava a fare. Scelse con cura il pianoforte, uno Steinway 147, e pianificò con cura ogni dettaglio (dal tappetino sotto i piedi così da potersi muovere senza far rumore, al termosifone da mettere accanto al pianoforte); di ogni variazione registrò un gran numero di versioni, così come del tema principale, per mettersi nelle condizioni di poter scegliere il singolo frammento sonoro che non solo fosse migliore dal punto di vista dell’esecuzione e del suono, ma che poi si combinasse perfettamente con gli altri. La sua esecuzione fu straordinaria, innovativa, personalissima: sembrava che Gould non avesse ascoltato nessuna delle versioni precedentemente incise, tanto è drasticamente lontano dall’idea esecutiva tradizionale. La pronuncia, l’articolazione, la lettura disinibita e trasgressiva rendono queste Variazioni Goldberg un punto di riferimento incancellabile. Soltanto Glenn Gould avrebbe potuto far meglio di Glenn Gould.
Ventisei anni dopo, il pianista decise di riprovarci. La decisione destò qualche scalpore, ma le ragioni che lo spinsero a riprovarci erano le più diverse. Intanto, lo studio sulla Trentesima Strada (dove, quattro anni dopo l’incisione delle prime Goldberg fu registrato Kind of Blue di Miles Davis) sarebbe stato smantellato di lì a breve, e Gould non seppe resistere alla tentazione di entrare per l’ultima volta in quella chiesa sconsacrata, dai soffitti altissimi e dal meraviglioso riverbero naturale. Nel 1981, poi, la tecnologia aveva fatto passi da gigante, e il pianista non vedeva l’ora di poter incidere le Goldberg in stereo, e soprattutto in digitale. Il disco fu pubblicato dalla Columbia nel settembre dell’anno successivo.
Il 27 di quel mese un infarto lo colse mentre era nel suo appartamento. Il 4 ottobre, dopo quattro giorni di coma profondo, su richiesta del padre, fu staccato il respiratore artificiale. Glenn Gould, uno dei più visionari artisti del nostro tempo, aveva da dieci giorni festeggiato il suo cinquantesimo compleanno.
Vincenzo Martorella
 ("Il POST", 25 settembre 2012)