In
Austria con Thomas Bernhard (I/III)
Carinzia le fortune di Haider
di Franco Marcoaldi
"la Repubblica", Domenica 13 Agosto 2000
Klagenfurt.
Un'infilata di negozi dove si vendono ancora i trenini
d'antan e la pervasiva presenza pubblicitaria di uno
spettacolo (The Rocky Horror Show) che al cinema Messico
allietava le serate dei ragazzi milanesi già nei lontani
anni Settanta: questa è la prima, straniante immagine
offerta da Klagenfurt, capitale della Carinzia e tana
del nuovo lupo politico che agita le democrazie europee,
Jorg Haider. Ci si aspettava di arrivare in chissà quale
infiammato laboratorio di xenofobia post-moderna, e ci
si ritrova in una polverosa casa di bambole. E' bene
però non lasciarsi suggestionare mai dalle prime, fugaci
sensazioni; perché non solo Klagenfurt, ma l'intera
Austria - di cui per l'appunto grazie all'irresistibile
ascesa di Haider oggi si torna a parlare come non
accadeva da decenni - è una sorta di inafferrabile
oggetto misterioso double face, che a ogni momento
sembra voler smentire quanto aveva appena dato ad
intendere. Perciò ho scelto di farmi accompagnare in
questo mio breve tour al di là delle Alpi da un
anfitrione che ha sicuramente molti difetti (è cattivo,
acido e malmostoso come pochi altri al mondo), ma al
contempo capace di esibire sulla pagina scritta
un'intelligenza scintillante: Thomas Bernhard. Certo, il
romanziere e drammaturgo austriaco è scomparso ormai
undici anni fa, quando il fenomeno Haider era in
incubazione, ed è stato proprio lui a ricordarci che
"abbiamo una buona briscola nei confronti di quelli che
sono morti ieri, cioè di sapere quanto è successo nel
frattempo". Per contro, nessuno come Bernhard ha saputo
analizzare il carattere nazionale austriaco,
preparandoci a comprendere ciò che oggi è pienamente
sbocciato. Semmai sarà un altro il problema: ovvero
cercare di mettere la sordina a tante sue affermazioni
volutamente iperboliche, estreme. Giacché a suo giudizio
in questo paese non c'era (non c'è?) altro sistema che
l' esagerazione per farsi ascoltare, vista
l'incorreggibile predisposizione all'elisione, alla
rimozione, a una interiorizzazione totale della censura.
Risultato: Bernhard volutamente provoca. Sentite ad
esempio che cosa scrive di Klangefurt: "una ridicola
città di provincia dell'Austria meridionale dove è nato
Musil, ma con cui Musil, tranne questa circostanza, non
ha mai avuto nulla a che fare per tutta la vita, e che
ciò nonostante ha sfruttato quella circostanza della
nascita di Musil fino al limite estremo del cattivo
gusto". Ovviamente, appena arrivato, per prima cosa vado
a visitare la casa natale dell'autore de L'uomo
senza qualità, con annesso museo. E l'impressione
non è esaltante: quattro bacheche striminzite per
omaggiare lui e la Bachmann, altra concittadina illustre
(e ovviamente Haider, non appena giunto al governo della
regione, si è premurato di annullare il premio che
portava il suo nome). Ma Bernhard va ben oltre, riguardo
a Klagenfurt: "città fatalmente vicina al confine dove
il nazionalismo e il nazionalsocialismo e l'ottusità
provinciale da sempre sono sbocciati in oscene
fioriture, dove è la piccola borghesia ammuffita a dare
il tono, votata all'ottusità e alla megalomania fra le
sue deprimenti file di case, costruite con goffaggine,
fra file di colline senza interesse, e in un clima più
stantio che rinfrancante, con tutte le ridicolaggini
tipiche delle dimensioni intorno ai cinquantamila
abitanti, i quali non hanno idea del mondo ma si sentono
il centro del mondo". Sto leggendo queste pagine di Estinzione
davanti a un piatto di würstel e crauti nella trattoria
Pumpe, un locale denso di fumo e odore di birra, dove il
leader del FPo viene abitualmente a mangiare. Originario
della regione salisburghese dei laghi, è da qui che
Haider ha preso il volo, da quella Carinzia dove la
rimozione e il silenzio hanno regnato più ancora che
altrove: da quella Carinzia che negli ultimi giorni
della guerra era diventata il caotico crocevia dei carri
armati inglesi provenienti dall'Italia, le truppe della
Wehrmacht in fuga, gli jugoslavi che si facevano strada
da sud-est e i partigiani che "stilavano liste di
esecuzione di nazisti particolarmente impegnati, ma
anche di persone del tutto innocenti". Di questo lugubre
capitolo della storia austriaca dà conto Christa
Zochling nel suo informatissimo Haider. Luci e ombre
di una carriera (Libreria editrice goriziana,
pagg. 190, lire 22.000). Ed è sempre grazie a una dritta
della giornalista austriaca di "profil" se ho modo di
visualizzare plasticamente il punto cieco della recente
storia carinziana. L'unico edificio veramente degno di
nota di tutta Klagenfurt è la Landhaus, sede del
consiglio regionale: una costruzione a ferro di cavallo
con arcate e logge dagli echi rinascimentali sormontata
da due slanciate torri barocche. L'oggetto precipuo
della visita turistica è la sala degli stemmi, con oltre
seicento stendardi di famiglie nobili a tappezzare le
pareti della stanza; ma grazie alla gentilezza di un
guardiano dalla gamba sifulina mi è concesso di vedere
anche il sancta sanctorum della politica locale, la sala
consiliare: interamente rivestita da pannelli di legno
che coprono i cosiddetti "affreschi dell'Anschluss".
Come dire: anziché spazzar via quell'orrendo passato, si
è preferito nasconderlo dietro un pietoso silenzio. E'
ben questo che Bernhard (e non solo lui) ha sempre
imputato alla maggioranza dei suoi connazionali e
all'intera classe politica austriaca. Non aver mai
voluto fare i conti con il nazismo; aver sempre giocato
la parte della vittima e mai quella del connivente.
Nella sua ultima opera teatrale, Piazzale degli Eroi,
il grande drammaturgo si scatena - se possibile - più
ancora di quanto aveva fatto in precedenza: la pièce
porta la data del 1988, ricorrenza del cinquantenario di
annessione dell' Austria alla Germania. E Bernhard vi
afferma papale papale che le cose vanno molto peggio di
allora: "A Vienna ci sono più nazisti che nel
trentotto". Quando al Burghteather - la più celebre
istituzione teatrale nazionale - la sera della prima
risuona questa battuta, si scatena la bagarre. Metà
pubblico è disgustato, l' altra metà entusiasta. Tra gli
spettatori non c'è Haider, ma l' uomo politico più in
voga del Duemila austriaco avrà comunque modo,
successivamente, di dire la sua. L'attacco bernhardiano
allo "pseudosocialismo" che ha governato lungamente il
paese ("sono i socialisti gli sfruttatori, i criminali,
i becchini di questo Stato") non può che trovarlo
concorde. E' totalmente in disaccordo, invece, con il
giudizio di Bernhard sulla meschinità e la falsità del
popolo austriaco, che non avrebbe mai avuto l'intenzione
di guardarsi seriamente allo specchio. Come si è detto
al teatro cittadino di Klagenfurt attualmente va in
scena (con un certo ritardo) il Rocky Horror Show;
e d'altronde, anche volendo, non sarebbe più possibile
vedere né Heldenplatz né nessun altro dramma
bernhardiano, visto che l'autore si è premurato di
vietarne la rappresentazione in tutto il paese con
chiare parole apposte nel suo testamento. Eppure se c'è
un legame che unisce - su versanti opposti - Haider e
Bernhard è giust'appunto il teatro. Il primo ha
dichiarato in molteplici occasioni che la sua prima,
vera vocazione era quella dell'attore. Da ragazzo ha
recitato Nestroy e Hauptmann e Raimund. Poi, da grande,
ha recitato direttamente sulla scena politica, sorretto
da un indiscutibile appeal e da una predisposizione
naturale al travestitismo. In fin dei conti, se i
politologi dell'intero continente si affannano ancora,
con scarsi risultati, a delineare una volta per tutte la
sua inafferrabile silhouette (neonazista, populista
xenofobo, affabulatore post-modern, etnonazionalista) è
proprio in virtù del suo fregolismo, della totale
indifferenza a mantenere la parola data, nella
convinzione che l'intera vita pubblica si riduca a una
sorta di ininterrotta recita. Con risultati, va
aggiunto, eccellenti: non foss'altro perché con le sue
uscite è riuscito e riesce ad animare un dibattito
pubblico a dir poco soporifero. Quanto a Bernhard, pure
lui è stato un attore. Ma soprattutto ha incentrato la
sua intera attività letteraria (sia i romanzi che i
drammi) su un dispositivo scenico. Nemico dichiarato dei
repertori, dei direttori, degli attori, dei critici e
del pubblico teatrale, non ha fatto altro che teatro
nella convinzione che la predisposizione alla messa in
scena rappresenti la quintessenza del popolo austriaco.
Se gli austriaci recitano continuamente e si
rispecchiano poi in quegli spettacoli che Artaud
chiamerebbe "digestivi", non c'è altro sistema, per
scardinare tale intollerabile vizio, che praticare un
contro-teatro in cui dichiarare tutto senza peli sulla
lingua. Come dice il professor Robert, protagonista di Eldenplatz,
"l'Austria non è altro che un palcoscenico sul quale
tutto è depravato deteriorato e decomposto, una
compagine di comparse detestata da sé stessa (...) sei
milioni e mezzo di dementi nonché pazzi furiosi che
ininterrottamente gridano a squarciagola reclamando un
regista. E il regista verrà per spintonarli
definitivamente giù nel baratro". Non so se Haider sia
il regista capace di trascinare l'intera nazione nel
baratro. Ma certo girando la Carinzia, che pullula di
proposte vacanziere di ogni genere e grado - proposte
pubblicizzate all'estero (e segnatamente in Italia) in
prima persona dal suo indomito e sinistro governatore -
posso capire che Bernhard non sia ben visto dall'azienda
di soggiorno locale. (1. Continua)
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In
Austria con Thomas Bernhard (II/III)
Foreste e pensieri il kitsch si fa strada
di Franco Marcoaldi
"la Repubblica", Venerdì 18 Agosto 2000
Gmunden.
Sarà bene dirlo subito: Bernhard era un tipo decisamente
strano. Se non bastassero i suoi libri con quelle
centinaia e centinaia di pagine claustrofobiche,
senz'aria, prive di qualsiasi punto a capo, e
l'ossessività della sua scrittura fatta di continue
reiterazioni, ce lo conferma definitivamente la visita
alla sua "casa madre". Siamo a Ohlsdorf, nei sobborghi di
Gmunden, nel bel mezzo di quello che passa per essere il
Lake District austriaco: Bernhard comprò questa vecchia,
immensa abitazione di campagna (fortificata e misteriosa
come la sua esistenza) subito dopo la fortunata
pubblicazione del suo primo romanzo, Gelo. E
cominciò a restaurarla un pezzo alla volta, cercando di
non modificare nulla dell' originaria struttura. Oggi
tutto è rimasto com'era undici anni fa, al momento della
sua morte. Nelle stalle giacciono abbandonate svariate
macchine agricole con su la scritta "Bernhard-
agricoltore" (la sua incompetenza, a riguardo, pare fosse
totale: ma Thomas ci teneva, e molto, a quel biglietto da
visita). Nel piccolo atrio sono appesi svariati cappotti e
cappelli e mantelline tipici dell' abbigliamento
folklorico locale, sul quale lo scrittore appuntò strali
micidiali, ma che evidentemente solleticava un lato
nascosto della sua controversa personalità. Da figlio
illegittimo e rinnegato qual era, Bernhard adorava il
lusso e una certa, maniacale ricercatezza: stanno lì a
dimostrarlo trecento (dicansi 300) paia di scarpe
perfettamente ordinate e lucidate; i tavolini di legno da
lui personalmente disegnati, e alcuni ritratti di
presunti, fantasmatici antenati. Proverbiale era il suo
amore per una misantropica solitudine, come evidenziano
due striminziti lettini volti a dissuadere dal
pernottamento anche gli ospiti più tenaci e invadenti,
oltre a una lunga serie di cartoline - amorevolmente
raccolte dietro una vetrinetta Biedermeier - che il Nostro
spediva a sé stesso da ogni angolo di mondo. Dopodiché si
entra in una biblioteca che sembra assolutamente intonsa,
e infine nella sala d'ascolto della musica, dove sta in
bella mostra un disco delle Variazioni Goldberg di Bach
suonate da Glenn Gould, indimenticato protagonista del
romanzo Il soccombente. E tutto questo è ancora
niente, quando si viene a sapere che alla "casa madre"
bisogna aggiungere due consorelle, situate - ecco la vera
bizzarria - a non più di venti chilometri di distanza. A
procurargli questo insolito trittico abitativo fu Karl
Hennetmair, un agente immobiliare che per lunghi anni è
stato vicino a Bernhard più di chiunque altro: "Poteva
scomparire per interi mesi, quando stava scrivendo.
Alternando poi lunghi periodi in cui invece passava
immancabilmente tutte le sere a casa nostra. La sua
presenza era estremamente allegra, anche se ogni tanto
poteva prendere una piega macabra, visto che Thomas
adorava mimare le situazioni funerarie. E ci costringeva a
mettere in atto dei teatrini con connessi catafalchi e
giganteschi ceri". Come ben sa chi abbia letto anche un
suo solo libro, il pensiero della morte non abbandonava
mai Bernhard. Era l' unico appuntamento di cui si sentiva
sicuro; e tutta la sua opera - come bene ha scritto
Chantal Thomas - altro non è che il canto delle infinite
nuances dell'umor nero, dalla semplice irritazione ai
pensieri suicidari, passando per le svariate modulazioni
dell'esaspera zione, della collera e del risentimento.
Nella vita, sosteneva lo scrittore, non è mai finita. C'è
sempre qualcosa di peggio. Ogni momento si può aggiungere
un elemento nuovo a questa visione da incubo, a questa
dinamica del disastro. Ed è proprio per via di tale
cooperazione frenetica con il malessere che la letteratura
di Bernhard, lungi dall'essere malinconica, assume
immancabilmente i connotati di una lotta attiva, dagli
effetti rinvigorenti. Del resto, lui stesso così immagina
il proprio ruolo e la propria funzione: "Io sono un
disturbatore della pubblica quiete. Tutto quello che
scrivo, tutto quello che faccio, è disturbo e
irritazione". Beh, non vi è dubbio alcuno che sia riuscito
nell'intento. Di ogni situazione, di ogni paesaggio, di
ogni opera d'arte, Bernhard mette sempre e comunque in
evidenza il lato d'ombra, negativo, funereo; finendo
inevitabilmente per condizionare chi, come il
sottoscritto, lo ha eletto a nume tutelare del suo
viaggio. Intendo dire. Visiti i monasteri romanici, gotici
e barocchi che punteggiano in numero incredibilmente alto
il paese, ed entrando in questi fortilizi religiosi subito
il pensiero va al nostro terrificante anfitrione, quando
afferma con tono apodittico che "nessun altro Stato in
Europa si denomina Stato cattolico e lascia che la testa
cattolica pensi al suo posto (...) E' colpa del
cattolicesimo se in Austria per tanti secoli non ci sono
stati filosofi (...) La Chiesa cattolica ha brutalmente e
completamente represso, lo si può ben dire, il pensiero di
questo millennio". Resti ammirato verificando come anche
il più piccolo borgo sia dotato di un teatro perfettamente
funzionante, e lui è lì a rammentarti che gli austriaci
"non hanno fatto l' abbonamento solo a teatro e ai
concerti, vivono la loro vita in abbonamento". Ti destano
qualche perplessità, bighellonando per i villaggi alpini,
tutti quegli sbandieramenti e decorativismi floreali e
bamboleggiamenti folklorici, e Bernhard non aspetta di
meglio: "ovunque si volga lo sguardo domina la massima
mancanza di gusto, e una generale mancanza di interesse.
Come se il centro di tutto fosse lo stomaco e la testa
completamente fuori uso". Sia chiaro, il Nostro non fa il
sociologo; fa lo scrittore. E come ho già detto
volutamente parodizza la realtà. Ma la violenza del suo
tono non è mai ciecamente passionale; è semmai il frutto
di una strategia oratoria per ottenere l'ascolto, per
richiamare l'attenzione di un paese particolarmente
distratto. Per cui, se prendiamo alla lettera certe sue
affermazioni, è evidente che spesso e volentieri
risulteranno balorde, come quando afferma che le toilettes
di questa nazione sono le più sporche d'Europa; o quando
idealizza i paesi latini, e segnatamente l'Italia,
invidiandoci un'autonomia e una libertà di pensiero lì
sconosciuta. Ma se ci abbandoniamo al suo universo
caricaturale, alla sua pervasiva paranoia intesa come
unica strategia di sopravvivenza, quelle stesse pagine
tornano ad essere illuminanti. Anche sul torbido presente
che Bernhard non ha avuto modo di vedere. Ad esempio. Il
fascino del paesaggio austriaco è proverbiale, e lui
stesso non poteva fare a meno di riconoscere "la bellezza
insuperata di questo paese". Salvo aggiungere subito dopo:
"Di questi tempi il bosco è di gran moda, di questi tempi
il ruscello è di gran moda. E' il sentimentalismo in
generale, questa è la cosa tremenda, che ora è di gran
moda, come peraltro tutto quanto il kitsch". E nel kitsch
sentimentale lui mette al primo posto Stifter (in ambito
letterario) e Heidegger (in quello filosofico). L' attacco
rivolto al secondo è esilarante: "Me lo vedo sempre seduto
sulla panchina davanti a casa sua nella Foresta Nera
accanto a sua moglie, la quale, nel suo perverso
entusiasmo per il lavoro a maglia, lavora
ininterrottamente per confezionargli le calze invernali
con la lana che lei stessa ha tosato dalle loro pecore
heideggeriane (...) Heidegger se lo sono pappato tutti a
grandi cucchiaiate, con una fame da lupi, per decenni,
come nessun altro (...) Oggi la vacca heideggeriana è
dimagrita, è vero, ma il latte heideggeriano viene ancora
munto". Di nuovo, non avrebbe alcun senso stare qui a
discutere la validità delle sue affermazioni su un piano
puramente teoretico e speculativo. A Bernhard, quanto
preme mettere in luce è il pericolo intrinseco di una
postura legata eccessivamente alla "propria dimora", alla
vecchia e sempre attuale ideologia volkisch che corteggia
l'idea di una comunità chiusa, di una asfittica piccola
patria. E guarda caso Haider, che sicuramente non ha mai
letto una pagina di Essere e tempo, è proprio queste che
esalta. Convinto che la sua lotta politica sia
innanzitutto una lotta per l'egemonia culturale, il leader
della Fpo rivisita in chiave post- moderna e pop l'idea
della "comunità naturale e omogenea" all'interno di una
cornice fatta di famiglia, religione, nazione. E tra tanti
ondeggiamenti e parole dette e ritrattate, un punto del
suo programma è rimasto sempre saldo: "Se la politica non
è costruita su principi etnici, allora l' umanità non ha
più nessun futuro". Neonazista o meno, è ben questo che fa
terrore di Haider e dei personaggi della sua schiatta. (2.
Continua) |
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In
Austria con Thomas Bernhard (III/III)
La dolce musica viennese così nemica del pensiero
di Franco Marcoaldi
"la Repubblica", Martedì 22 Agosto 2000
Salisburgo.
Il colpo d'occhio è magnifico: il fiume Salzach scorre
lento nell'ampia vallata circondata di montagne; a destra
le guglie barocche del centro storico, e sullo sfondo il
Mönchsberg, coronato dal complesso della fortezza di
Hohensalzburg eretta nel 1077 dall'arcivescovo Gebhard
durante la lotta per le investiture. Tornano alla mente le
parole di Hugo von Hofmannsthal in occasione del
centenario della morte di Mozart: "La città è così bella
nelle sue mille nuances, simili a quelle di una donna;
dallo splendore altero e pomposo delle ore soleggiate del
risveglio alla grazia esangue, segnata dalle lacrime, del
grigio su grigio crepuscolare". Siamo a Salisburgo, centro
per antonomasia della musica e della bellezza
paesaggistico-architettonica, e uno spererebbe -
finalmente - di tirare un po' il fiato. Invece, visto il
tremendo anfitrione che incautamente abbiamo scelto per
questo breve viaggio austriaco, accade esattamente il
contrario. La ragione è presto detta. Thomas Bernhard,
prima di dedicarsi anima e corpo alla letteratura, studiò
violino e canto. E a un certo punto pensò addirittura di
diventare direttore d'orchestra. Ma se la musica finì in
tal modo per rappresentare la sua principale risorsa di
ispirazione formale (da eccellente strumentista della
lingua costruiva i suoi romanzi attorno alla struttura
prediletta della variazione), si deve però concordare con
la critica Chantal Thomas quando sostiene che la scelta
della scrittura è rivolta in primo luogo giust'appunto
contro la musica. Era stato ancora una volta Hofmannsthal
a sostenere che l'Austria aveva imposto "il suo spirito
nel mondo grazie alla musica". Bernhard concorda,
aggiungendo però che è proprio questo il dramma: "In
questo millennio il cattolicesimo e gli Asburgo hanno
liquidato il pensiero e portato a fioritura la musica, la
più inoffensiva di tutte le arti. Siamo il paese della
musica solo perché da noi, per secoli, lo spirito è sempre
stato completamente represso". Perché, caro Bernhard, le
par poco aver messo al mondo uomini come Mozart, Haydn,
Schubert? Sì, è davvero poco, se questo ha di fatto
impedito che nascessero figure come Montaigne, Descartes,
Voltaire. E sempre "grazie alla Chiesa cattolica, che ha
decapitato - in senso letterale - la vita intellettuale di
questo Stato". Il peso del cattolicesimo nell'intera
Austria (e in particolare a Salisburgo, sede di un potente
arcivescovato) in effetti è sempre stato altissimo. E il
Nostro attribuisce all'intima compenetrazione
chiesa-nazionalsocialismo (sempre viva, sempre pericolosa)
l'origine di tutti i mali. Dopodiché, da grande scrittore
qual è, ci restituisce attraverso una sola, fulminante
immagine autobiografica di gioventù, la dolorosa
esperienza degli ultimi mesi di guerra trascorsi al
Convitto nazionalsocialista e di quelli immediatamente
successivi passati nello stesso colleggio, retto ora da
sacerdoti cattolici, con il nome di Johanneum: "Non avevo
potuto constatare alcun mutamento di rilievo. L'intero
ambiente non era stato nemmeno ritinteggiato, (...) sicché
nel punto dove adesso era appesa la croce si poteva ancora
scorgere la macchia, bianchissima e vistosa sulla
superficie grigia della parete, dove per anni era stato
appeso il ritratto di Hitler". Dati i presupposti, si
capisce perfettamente che Salisburgo (prima agli occhi di
Thomas bambino, poi a quelli di Bernhard adulto), risulti
nient'altro che "un freddo museo di morte". Non a caso lo
scrittore austriaco - consumatore e vomitatore frenetico
dei giornali autoctoni, in cui trovava l'irresistibile
orrore di una comédie humaine servita
quotidianamente - sceglie quale esergo del suo libro "L'origine"
un brano tratto dal Salzburger Nachrichten del 6 maggio
1975, dove si ricorda come la città vanti uno dei più alti
tassi di suicidi della nazione e dell'intera Europa. Né
gli si venga a raccontare - visto che siamo nel bel mezzo
del Sommerfestival - che Salisburgo è il cuore della
Grande Arte: "Qui si simula l'universalità e la cosiddetta
arte universale è soltanto uno strumento che serve a
ricoprire per qualche mese, occultandolo, il marciume di
questa città". Ormai conoscete a sufficienza il
personaggio, e dunque sapete anche voi che è necessario
fare un po' di tara alle sue affermazioni. Ma certo non
gli si può negare di essere stato sempre conseguente
rispetto alle sue prese di posizione. E difatti, per
liberarsi in toto di quella tetra atmosfera ginnasiale -
con la sua nefasta mistura di nazismo e pietismo cattolico
- Bernhard decide di andare "nella direzione opposta".
Abbandona il centro storico di Salisburgo, dove le persone
stesse sono diventate "arte decorativa", e si dirige verso
il quartiere malfamato della città: Sherzhauserfeld,
concentrato della malavita e della miseria locale. Lì
svolgerà lavoro di apprendista presso una cantina adibita
a spaccio di alimentari, e lì, nella "macchia di
sporcizia" della nobile Salisburgo, troverà se non altro
un'umanità più autentica e meno meschina. Inutile dire che
tralasciando di visitare tutti i must del bravo turista
(la cattedrale, Residenzplatz, Hohensalzburg, la casa di
Mozart) mi dirigo subito verso quell' "anticamera
dell'inferno". E superato l'Istituto dei ciechi, il
manicomio e l'ufficio postale di Lehen, eccomi finalmente
davanti a un accrocchio di palazzoni, tristuanzoli sì, ma
che certo non restituiscono l'idea del regno di Satana: o
Sherzhauserfeld, nel frattempo, è stato bonificato; o
Bernhard non è mai stato al quartiere Zen di Palermo.
Comunque la mia visita mantiene una sua ragion d'essere,
visto che mi ha fatto incontrare una popolazione
extra-comunitaria decisamente insolita rispetto agli
immigrati del centro e dell'est Europa incrociati in
Carinzia, in Stiria, e lungo la valle del Danubio: qui si
moltiplicano le insegne di ristoranti marocchini e
indiani, e piccoli gruppetti di donne iraniane tornano dal
mercato con indosso il chador. Eccoli i barbari che
generano quella paura su cui Haider ha fatto leva per
costruire il suo trionfo elettorale. Accade, come noto, in
tutta Europa; ma nel centro del continente molto più che
altrove. E in particolare in Austria, la cui identità
nazionale, dopo la fine dell'impero asburgico, si è fatta
via via più periclitante; fino al crollo del muro di
Berlino e all'avvento della comunità europea, che di fatto
ha eroso ulteriormente la sua antica ambizione di terra di
mezzo tra versante occidentale e orientale. E' il vecchio
mito della Mitteleuropa, che in passato ha offerto tanta
grandissima letteratura e ora invece viene riproposto in
una ben più ambigua chiave politica. Anche dal nostro
Bossi. Ma è ben qui che sorgono i problemi, come ha
perfettamente visto Bruno Luverà ne Il dottor H
(Einaudi). Giacché, se nelle regioni settentrionali
italiane il volto dell'immigrato assume i tratti
dell'albanese e del maghrebino, qui, per lo più,
l'immigrato è paradossalmente il "fratello" mitteleuropeo:
il ceco, lo sloveno, il polacco, l'ungherese. E di colpo
l'amnesia storica, che caratterizza a senso unico
l'Austria e Haider, scompare: il leader dei Freiheitlichen
ora rinvanga il passato, rinfocolando le profonde paure
evocate nel '45 da Tito con le sue rivendicazioni
territoriali; va alla ricerca di un etnos perduto e torna
a parlare di uno Stato basato "sul sangue e sul suolo".
Curioso: quando i giornalisti tornano a chiedergli quali
siano i suoi rapporti con il nazismo, il leader
nazionalista fa le spallucce infastidito. Eppure già negli
anni Ottanta, durante il suo primo governatorato, si era
rifiutato di insignire con onorificenze i partigiani
carinziani, mentre per contro non ha mai capito lo stupore
legato alla sua presenza sull'Ulrischsberg, una collina
rocciosa a nord di Klagenfurt dove ogni ottobre la
Traditionsverband delle Waffen-SS sfila come nei tempi
lontani. Haider è nato a Bad Goisern, un paesino del
salisburghese a dieci minuti da Bad Ischl (luogo di
villeggiatura di Francesco Giuseppe). E nel paesino,
grazioso e accogliente, oltre al solito impeccabile
ufficio turistico aperto ventiquattro ore su ventiquattro,
e a uno straordinario artigiano di scarpe - era qui che si
serviva Bernhard per arricchire la sua portentosa
collezione? - c'è un minuscolo quanto significativo museo
della Patria, dove su un pannello si succedono senza
soluzione di continuità le capoccelle dei borgomastri
locali dal 1918 al 1986, ovvero dalla fine degli Asburgo
alla presidenza Waldheim. Nel frattempo si passava dalla
monarchia alla repubblica, poi all'austro-fascismo, al
nazismo, all'occupazione alleata, e a partire dal '55 al
ferreo duopolio cattolico-socialista. Ma un unico filo
rosso, secondo Bernhard, tiene tutto insieme: la
rimozione, il conformismo, la passività, il vittimismo. E
contro quel vizio nazionale, anche a costo di far piazza
pulita di qualunque aspetto positivo, dichiara guerra
totale; mentre per contro Haider utilizza quello stesso
vizio con spregiudicata leggerezza; dichiarando senza
problemi: "Diciamo finalmente a quale grado di corruzione
ha portato la passata partitocrazia, e diciamo pure che i
nostri padri non hanno nulla di cui vergognarsi, in ordine
al rapporto con il nazismo". ... E l'Austria ripresenta
così la sua costitutiva ambiguità, e con essa i suoi due
volti e le sue due anime: l'arcadia e l'orrore,
perfettamente esemplate lungo il Danubio dalla
sconcertante prossimità della deliziosa Grein (l'idillio
che la furia devastatrice di Bernhard non riesce a
contemplare) e il campo di sterminio di Mautaushen (il
male assoluto che il leader della FPo vorrebbe
tranquillamente ignorare). Ma il visitatore minimamente
accorto e responsabile avrà occhi addolciti per l'una e
cuore straziato e vigile per l'altra. Perché l'Austria è
Grein e Mautaushen: non è soltanto il concentrato di
brutture e omertà raccontato dallo scrittore, ma non può
neppure continuare a dimenticare ciò che non ha mai
ricordato. (3-Fine) |
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