Bernhard, il coraggio dell'infelicità

Morto a 58 anni lo scrittore austriaco, uno dei più grandi d'Europa.
di Luigi Forte
"La Stampa", Venerdì 17 Febbraio 1989

VIENNA - Lo scrittore austriaco Thomas Bernhard è morto domenica scorsa, due giorni dopo aver compiuto 58 anni. La notizia, trapelata solo ieri, dopo i funerali al cimitero di Grinzing, era stata tenuta segreta per volontà del drammaturgo, deceduto a Gmunden (in Alta Austria), nella sua abitazione, dove l'ha trovato esanime il fratellastro, il medico Peter Fabian. Come la sua vita, anche la sua morte è stata solitaria. Per suo volere, alla cerimonia funebre pare siano stati ammessi soltanto tre familiari. Da molti anni Bernhard soffriva di un tumore ai polmoni. Questa è stata verosimilmente la causa della sua morte, anche se fonti della gendarmeria di Gmunden hanno parlato di arresto cardiaco.

La notizia dell'improvvisa scomparsa di Thomas Bernhard, il più significativo romanziere austriaco del dopoguerra, è filtrata solo ieri a quattro giorni dalla morte. Lui stesso aveva disposto così. Con rigorosa, maniacale coerenza fino in fondo, oltre la soglia della vita; il frastuono del mondo, le fanfare delle commemorazioni dovevano risparmiarlo. Aveva troppo rispetto per la morte per lasciarla contaminare dai rituali di una società che egli aborriva nel profondo fino a trasformare tale diniego in una sorta di vezzo un po' snobistico, in un programma che includeva arte e vita.
All vita del resto, sembrava sempre non dare molta importanza. Nella sua commedia La forza dell'abitudine, messa in scena qualche anno fa anche in Italia dal Gruppo della Rocca, il direttore di circo Caribaldi osserva: "Noi non desideriamo l'esistenza, ma essa dev'essere vissuta". Era il gesto impari di chi accetta una segreta sfida nella convinzione forse di potere un giorno smascherare la follia di tale costruzione. Lui, per sottrarvisi, s'era ritirato a scrivere in un piccolo villaggio dell'Alta Austria, fuori da ogni percorso culturale, difeso dalla sua proverbiale scontrosità e da un temperamento oltremodo intransigente.
Rassomiglia sempre di più a qualcuno dei suoi ormai numerosissimi personaggi, ripiegati sulla totale infelicità, paladini di un nichilismo radicato nella condizione esistenziale dell'uomo. In Perturbamento (adelphi 1983), un romanzo scritto nel 1967 che gli aveva procurato una certa notorietà anche in Italia, il principe Saurau, autosgretolatosi dal mondo, sussurra in una sorta di monologo che ruota incessantemente su se stesso: "Quando si alza il sipario lo spettacolo è finito". In una battuta - come del resto nell'insieme della sua attività di scrittore - tutto di colpo s'inabissava, storia, progresso, speranze; e il tempo sembrava confluire in un unico punto, cioè nell'illimitata angustia di uno spazio in cui la vita non ha risvolti nè gesti, ma è solo un resoconto di parole, un balbettìo inconcludente prima del vuoto definitivo.
Del rsto, nel volume autobiografico Il respiro Bernhard aveva ricordato, da buon lettore di Montaigne, come la morte contrassegni l'attimo stesso della nostra nascita. Così si andava consolidando la consapevolezza di un nichilismo da cui scaturiscono immagini di fisicità degradata e svilita: suicidi, morti, emarginazione e follia (come nello splendido romanzo La fornace, Einaudi 1984) costellano la sua prosa e il suo teatro. Alla totalità della vita come compenetrazione di soggetto e mondo in una unità di significato si contrappone un universo di frammenti, di proposizioni irrelate, di individui, come in taluni racconti (si veda il volumetto L'italiano, Guanda 1982) segregati e anonimi.
Come pochi altri, nel suo radicale diniego della storia e delle sue violenze, Bernhard ha definito come unico spazio dell'umana libertà il momento aspro e serotino del dolore, dove non c'è mezzo per sfuggire a se stessi e l'individuo si offre come vittima per denunciare l'arma e la mano dell'assassino.
La sua grandezza consiste nell'aver trasformato la consapevolezza dell'impotenza e dell'assurdo i temi di cui era debitore ai suoi autori di sempre: Kafka e Beckett) in un programma di artistica ostinazione, in una sfida al buio che in ogni istante è pronto a sommergerci. E ciò, specie nei primi romanzi (come in Gelo o Amras) con una forma di protocallare resoconto, quasi un'anonima registrazione della realtà. Più tardi, invece, sciogleindo la sua sfida in una progressiva disarticolazione della struttura narrativa mentre il ritmo si dischiude su divagazioni, monologhi, iteranti riflessioni (come nella stessa Fornace e più recentemente in un ampio romanzo come Estinzione).
Questa scrittura, che pare essere l'unica veritiera durata concessa dalla vita e al tempo stesso una sorta di difesa contro di essa, definisce l'uomo nel suo persistente scollamento dal mondo, nella sua fatale resistenza. Anche nei numerosi testi teatrali (da Una festa per Boris alla Forza dell'abitudine, alla Società della caccia o all'Ignorante e il folle) s'affacciano figure di alienati e sconfitti, il cui ruolo è di smascherare, in rituali che si rincorrono all'infinito, l'esistenza come la più atroce delle menzogne.
Come aveva ben compreso Calvino, che lo considerava forse il maggior scrittore europeo vivente, l'arte di Bernhard segue, nella sua apparente fissità e monotonia, percorsi di estrema raffinatezza. Non solo tematicamente (per esempio nel romanzo Il soccombente), ma anche sul piano formale essa rammenta di continuo la preparazione musicale dell'autore (aveva studiato al Mozarteum di Salisburgo): nei giochi contrappuntistici, nelle mobili variazioni tematiche, nei passaggi di tonalità e di registro (dal drammatico, non di rado, come in Kafka, all'umoristico). Il suo limite consiste forse nella stessa coerenza con cui ha affrontato il destino, in quel pervicace timore di concedere qualcosa alla vita da cui si sentiva tradito. Fu inesorabile, del resto, con coraggio e talora con proterva animosità, anche verso i propri connazionali. Recenti sue dichiarazioni oltre a una pièce teatrale, Heldenplatz, che ponevano in seria discussione l'antisemitismo di ieri con l'intolleranza di oggi, hanno sollevato a Vienna un vero e proprio putiferio, procurandogli ostilità di ogni genere. Eppure si trattava di un messaggio da meditare con attenzione e non da rigettare con insofferenza. La sua voce non era quella di un inquisitore inacidito e stanco, ma piuttosto quella di un metafisico Don Chischotte traumatizzato dalla storia, dai suoi orrori e dall'assenza di accettabili risposte.