Dietro le parole

Tenebra e geometria
(già edito con il titolo "Beckett sul Danubio", in "Il Mondo", 10 agosto 1972
di Claudio Magris
Garzanti, "I Garzanti - Argomenti", I edizione: settembre 1978

Monologue de l'Etat-schizophrène, témoignage sur la maladie d'ensemble: con queste ed altre tumultuose parafrasi Michel Cournot esaltava qualche mese fa, sul "Nouvel Observateur", la versione francese di un romanzo di Thomas Bernhard, la cui narrativa appartata e solitaria, salutata di recente come un evento d’eccezione anche da "Le Monde" o dall’"Exprès", è oggi al centro di un interesse internazionale che fra poco, con la pubblicazione di un suo libro, dovrebbe coinvolgere pure l’Italia. Anche nel caso di Bernhard, la periferica provincia austriaca nella quale egli è amaramente radicato si rivela il punto di partenza per avventure del pensiero e del linguaggio d’uno straordinario significato culturale. L'intelaiatura del racconto di Bernhard è sempre essenziale come un’equazione algebrica, è una "geometria delle lacerazioni, una geometria dell’agonia" e si scandisce nei "pseudo-geornetrici movimenti" delle mani intente ad un'operazione laida o feroce quale ad esempio la strage di frenetici ed assordanti uccelli; l’ininterrotto processo di distruzione e di decomposizione, che si ripete con ossessiva e possente monomania in tutta l’opera dello scrittore, si affida a strutture rigidarnente simmetriche e viene verbalizzato con un minuzioso ordine protocollare. Implacabile recensore del caos, Bernhard dimostra che il caos non esiste e che tutto è organizzato seeondo regole infami e precise. E' il rigoroso, gerarchico ordine del male che incrementa l’orrore, perché dall’impero di un ordine non c’è via di scampo; è questa lucidissima costruzione perversa che costituisce l'originalità dei romanzi di Bernhard, perfino nell’attuale universo letterario in cui l'industria della negazione è divenuta la più scontata e redditizia delle mode. Caparbiamente monocorde, la scrittura di Bernhard ha una sua assillante forza d’urto e colpisce come un pugno, per usare un’espressione di Kafka, col quale Bernhard, nonostante la facile e quasi obbligata ovvietà di tale raffronto, ha un sostanziale, anche se ben delimitato rapporto di parentela.
Nato nel 1931, Bernhard è giunto al successo - attraverso un itinerario duro e difficile - nel 1963 col romanzo Gelo, cui è seguita una serie febbrile ed omogenea di opere narrative: Amras, 1964, Verstörung, 1967 (il termine, che indica una distonia psichica, è stato reso in francese con "perturbation"), Prosa, 1967, Ungenach, 1968 (nome d’un possesso terriero), Al limite dell'albero, 1969, Watten. Carte postume, 1969 (watten è la denominazione di un gioco di carte), Das Kalkwerk, 1970 (lett. La fabbrica di calce), Camminare, 1971, cui s'aggiungono lavori lirici, saggistici e teatrali decisamente rninori. Oggetto di scandalo politico per le dichiarazioni violentemente polemiche pronunciate in occasione del premio nazionale austriaco conferitogli nel 1967, Thomas Bernhard ha proseguito in tutte le opere un suo discorso coerente sino alla mania, sicché ogni romanzo contiene potenzialmente, nel suo vortice verbale, gli altri; il cerchio linguistico più conturbante è costituito da Verstörung. Totalmente autonomo nella sua protesta, Bernhard ha battuto una strada indipendente dal dissenso industrialmente pianificato e tecnologicamente integrato dell'avanguardia letteraria tedesca e deve a questa posizione isolata la sua forza e la sua liberta; c’è da augurarsi che il successo, che ora gli arride, non snaturi il suo disadattamento.
I romanzi di Bernhard si compongono di un’ampia stratificazione di livelli stilistici, ordinatamente incapsulati l’uno nell’altro come parentesi rotonde quadre e graffe. I protagonisti sono quasi sempre cronisti e registratori di parole, giacché tutto accade non nella realtà ma soltanto nel linguaggio; sono voci o penne, spesso indifferenziate, che riportano l'incessante fluire del mormorio universale: lo studente di Gelo finisce coinvolto nel maniacale monologo del pittore nevrastenico ch’eg1i ha l'incarico di riferire, il narratore di Amras è uno dei due fratelli semifolli autosegregatisi in una torre, in Ungenach le annotazioni di tre personaggi variano e deformano un unico contenuto narrativo, Watten è una sorta di verbale d’una serie di colloqui, Verstörung è la cronaca di un giro di visite professionali compiuto da un medico condotto e da suo figlio, estensore della cronaca medesima la quale riproduce soprattutto i discorsi dei pazienti e consiste dunque in una riproduzione di moduli mentali ed espressivi. In questo forsennato metalinguaggio la negatività universale, unica dimensione del mondo di Bernhard, viene progressivamente trasferita dal campo del reale - la brutalità dell’idillio strapaesano - nell’ambito della parola. Certo Bernhard, pur dominato dall’idea prevalente del patologico, eommisura il particolare frantumato con l’implicito metro della totalità perduta e della gerarchia infranta: denunciando la corruzione della vita, quest’archivista del negativo riesce ad evocarne un’ultima volta, per contrasto, l'integrità ed a far trasparire l’intero o almeno la sofferta assenza dell’intero. Narratore che scrive idealmente dopo l'avanguardia ossia dopo l’esaurimento della sua problematica tecnica ed ideologica, Bernhard crea il suo universo per riduzione, restringendo il suo arsenale lessicale, stilistico e retorico ad un’estrema, classica sobrietà di mezzi, così come l’industriale diabetico di Verstörung svuota la propria casa d’ogni oggetto e i boschi d’ogni animale; ü da questo margine ridottissimo che il personaggio di Bernhard fissa lo sguardo in una totalità abnorme e mostruosa e compie le sue "autopsie sul corpo della natura come su quello del mondo e della sua storia."
Spesso erede d’un grande patrimonio feudale ch’egli liquida sminuzzandolo in minimi lasciti da donare a ricoverati nei manicomi o negli ergastoli, il personaggio di Bernhard si ritira in un lercio squallore o, ancor più radicalmente, nel soliloquio, come il principe di Verstörung, il cui monologo viene citato integralmente sì da occupare più di metà del libro, nella mimesi di un "parlato" ininterrotto che distrugge, nel suo furioso e altero fluire, ogni parvenza d’oggettività. Tale monologo è un perenne "soggiorno alle periferie delle distonie nervose"; la parola, schedata in elenchi minuziosi, si riversa con furore da ogni parte, al pari dell’inondazione di cui discorre il principe nel suo esatto vaneggiare. Come per certe figure del grande Canetti, pure per quelle di Bernhard tutto esiste "soltanto nelle teste, fuori delle teste non c’è nulla"; l'individualità appare cioé quale monomania. Se l’unica realtà umana oggettiva è ormai quella massificata e cioè alienata dalla tecnica e dal mito, l'intelligenza individuale che non può accettare questo trapasso si trincera nella paranoia e nella schizofrenia, nell’eroica e patologica sopraffazione soggettiva del reale. "Io sono costruito totalmente contro la realtà," afferma il principe. L’unica libertà è dunque la carenza d’ogni relazione col mondo; la ragione (sempre "dittatoriale" e mai "repubblicana") è l'imperiosa e dogmatica conoscenza della tragicità naturale. Simile al dottor Kien di Canetti, che cerca di educarsi a una finta cecità per escludere una porzione sempre piu vasta del reale, l’industriale paranoico di Bernhard legge i giornali quando sono arretrati alrneno di un mese, quando sono cioè ormai "privi di forza distruttiva, già poetici". Anche il frastuono interiore, che perseguita la mente del principe e ch'egli cerca di coprire col suo monologo, isola e protegge la coerenza del suo essere. Esterna alla "testa", la natura stessa è "surreale, è un mostruoso surrealismo universale"; i colori dell’autunno costituiscono una "riflessione della natura su se stessa", i boschi una "sempreverde Matematica metafisica". Il pensiero vede se medesimo e la natura come un unico labirinto e cerca di catalogarlo, e quindi di catalogarsi, con un rigore scientifico e con una classificazione positivista. Ma la scienza, la musiliana utopia dell’esattezza, perviene alla verifica della stupidità assoluta, registrata nel sistema linguistico: le parole risultano tutte insensate come quelle che Konrad, nel Kalkwerk, ripete crudelmente alla moglie paralitica per studiare le sue reazioni auditive.
Il principe di Verstörung abita in un castello, parla, pur capovolgendoli, di Basso e di Alto; egli vive ancora in una dimensione verticale e gerarchica, ultima eco della tradizione austriaca religioso-aristocratico-feudale. Il castello, scenario simbolico dell’Austria postdiluviana, significa liquidazione e fine di un retaggio ossia della dimensione totale dell’individuo: la cultura austriaca identifica il declino dei valori individuali con lo sfacelo della civiltä aristocratica, non giä di quella borghese che appare quale disordine, riduzione, appiattimento orizzontale. La tradizione viene certo vista come una piramide di tare e di follie, ma sempre nell'ambito di una visione che considera l'esistenza quale storia naturale o meglio quale processo entropico e autodistruttivo della natura, per cui la fine del negativo non comporta un progresso, bensì un’ulteriore decadenza. Stato, repubblica e democrazia si rivelano putredine e menzogna, il futuro socialista viene irriso quale delirio; "la tenebra è una scienza politica", dice il principe. La politica e la sfera sociale rappresentano cioè l’altro rispetto al sistema chiuso e totale della sua disperazione, l'irriducibile alterità del mondo rispetto all’io. Il principe accetta "la modernità in un cranio, la modernità interna" ovvero la negazione rivoluzionaria della società passata e presente; la modernità "esterna" gli appare una falsificazione ideologica. Il principe è una testa, una biblioteca; egli respinge l’infinito perché concepisce solamente un complesso, vasto ma non illimitato, di eventi e di cellule in via di degenerazione Nell’orrore globale, il passato è più sincero del futuro perchè è un incubo noto che non si camuffa in indefinita speranza; il futuro inoltre è la storia, l'evoluzione, dunque il progresso della malattia. Il figlio del principe, studente marxisteggiante che liquiderà il feudo, è anch’egli uno schizofrenico; "il figlio deve infine sempre diventare ancor più raccapricciante del padre".
Bernhard è un tipico esempio d’intellettuale anarchico e conservatore, o meglio conservatore perché anarchico, che demistifica le sovrastrutture ideologiche delle classi dominanti ma al contempo presuppone l'immodificabilità della condizione umana. Lettore di Wittgenstein è vicino per certi aspetti a quella che fu la "Wiener Gruppe", se ne distacca perché non ne condivide lo slancio giocoso insito nel gesto iconoclasta né lo sperimentalismo programmatico, così come rifiuta la lezione dei maestri del cosiddetto romanzo totale austriaco, da Doderer a Gütersloh, che hanno cercato di superare la tragedia mediante una sterminata e stratificata rete di rapporti analogici interindividuali. Bernhard è l’unico Beckett che abbia oggi la letteratura di lingua tedesca; pur nell’assoluta negatività dei contenuti, in lui tuttavia il linguaggio è ancora sfogo, liberazione, autoterapia, catarsi. La sua radicale protesta non elimina il soggetto né un rapporto gerarchico fra esso e gli oggetti, a differenza dei testi della "Wiener Gruppe" che distruggono la struttura sintattica per sgretolare il predominio spiritualistico dell’io sulle cose. Folle e dilacerato, il soggetto conserva in Bernhard la funzione di principio di rispecchiarnento e organizzazione del reale; la pazzia non annienta la coscienza ma ne esaspera l’individualità: il principe siede alla finestra e vede e sente la fila dei suoi antenati che lo chiamano, mentre le stagioni, lì alla finestra, trascorrono e passano senza interruzione. Con la sua precisione ottocentesca, Bernhard non s’abbandona al pathos del caos ma é attratto dal disgusto dell’ordine: "la tenebra dipende interamente dalla geometria... tutto è la realtà, pensavo".